Maria Callas, il mito nella voce
La sua voce fa parte dell’impronta sonora del Novecento. Ha un colore unico, irriducibile a qualsiasi categoria, tecnicamente spesso è vicina all’imperfezione o all’errore, eppure musicalmente è animata da una quasi indicibile drammaticità “organica”, di fascino universale. Grazie al fatto che la sua straordinaria vicenda di ineguagliata cantante-attrice è stata tramandata da un’incessante attività in studio di registrazione (e dal multiforme giacimento delle registrazioni dal vivo, spesso abusive, decisive nella costruzione della sua mitologia), quel timbro, quella capacità di scavare nelle parole, quella potenza espressiva, allo stesso tempo interiorizzata ed esplosiva, sono da settant’anni patrimonio di tutti gli appassionati di opera. Così, il suo canto immediatamente riconoscibile di “upupa leggendaria” (come l’ha genialmente definito Alberto Arbasino) non cessa di essere un punto di riferimento per tutti gli appassionati – al di là degli schieramenti di “tifoseria” – e una pietra di paragone per tutti gli artisti lirici che sono venuti dopo. Ma appartiene in certo modo anche alla totalità del pubblico, a chi segue qualsiasi tipo di musica. E la sua immagine di artista – quand’era in attività, ma per molti aspetti ancora oggi – ha finito per diventare una delle più romanzesche e affascinanti incarnazioni del mito della diva, e per coincidere con quella “fenomenologia” pop che ancora oggi è elemento decisivo nel successo di massa dei protagonisti dello spettacolo.
La sua vita è stata un melodramma, nel quale un ruolo decisivo ha avuto la sua pericolosa inclinazione a distinguere troppo poco il mondo del palcoscenico da quello della vita reale. Una sovrapposizione particolarmente sconcertante nella sostanziale e più volte affermata immedesimazione con le eroine tragiche nelle cui interpretazioni ha fatto la storia, Norma (Bellini), Medea (Cherubini), Lucia (Donizetti) e Violetta (Verdi). Personaggi che hanno costituito una parte decisiva della sua vita artistica, tutti destinati a soccombere nel fatale incrocio fra i sentimenti e il dover essere interiore. Il suo percorso di dissoluzione umana e artistica – nella crisi irreversibile della sua vocalità – è stato compiuto sotto i riflettori dello star-system e dentro alle meccaniche stranianti del cosiddetto jet-set internazionale, fino a un destino di solitudine e di abbandono suggellato dalla morte precoce – avvenuta improvvisamente nel settembre del 1977, un mese e mezzo prima del suo cinquantaquattresimo compleanno.
A cent’anni dalla nascita, ripensare a Maria Callas, nata Kalogeropoulou il 2 dicembre 1923 in un ospedale di New York (dove i genitori, entrambi greci, erano emigrati da pochi mesi), significa dunque ripercorrere una delle vicende cruciali del teatro musicale nel Novecento, anzi del teatro in senso generale, e un capitolo fondamentale nella storia della vocalità. Incrociandone le dinamiche e il fascino con la vera e propria metamorfosi umana e sociale della protagonista e con il dramma esistenziale sempre incombente che alla fine ha avuto ragione di lei. Una storia sintomatica, per molti aspetti anticipatrice di fenomeni che la società dello spettacolo avrebbe in seguito conosciuto più volte.
Per quanto riguarda la voce, da tempo gli storici e i musicologi più avvertiti hanno messo a fuoco l’importanza della sua “rivoluzione musicale”. Si tratta di un approccio esecutivo severo e allo stesso tempo rivelatorio, di assoluta dedizione alle partiture e alla forza drammatica insita nel virtuosismo belcantistico disegnato da autori come Bellini, Rossini, Donizetti o il primo Verdi, fra Nabucco e Macbeth, Rigoletto e La traviata, ma anche da compositori meno presenti nel repertorio come Cherubini, Spontini, o Gluck. Oltre le dispute degli specialisti sulla disomogeneità dei suoi registri e sulla problematicità specialmente di quello acuto, è questo naturalmente il lascito più autentico della Callas. La sua è un’eredità artistica che è metodologica prima ancora che esecutiva: riguarda la maniera in cui ha fatto piazza pulita di una tradizione esecutiva nel melodramma che nella prima metà del XX secolo sembrava avere fatto proprie definitivamente (e per molti aspetti rovinosamente) le modalità espressive, e dunque di tecnica vocale, proprie del tardo Romanticismo e soprattutto del Verismo.
La sbalorditiva affermazione di questa rinnovata adesione alla pura poetica del belcanto, un ritorno all’antico che ha avuto l’effetto di una decisiva innovazione, ha una data e un luogo di nascita. La storia inizia il 19 gennaio del 1949 alla Fenice di Venezia, auspice uno dei direttori d’orchestra più importanti che l’Italia abbia avuto nel XX secolo, il veneto Tullio Serafin, il primo e probabilmente più decisivo mentore musicale del soprano greco. Era stato lui a dirigerla nel suo debutto italiano, avvenuto un anno e mezzo prima all’Arena di Verona (agosto del 1947) in Gioconda di Amilcare Ponchielli. Ed è ancora lui che dopo averla fatta cantare in una versione in italiano della Valchiria di Wagner, ne scopre la più autentica vocazione invitandola – anzi quasi imponendole di sostituire il soprano inizialmente ingaggiato per I Puritani di Bellini, in programma pochi giorni dopo. Nel pochissimo tempo a disposizione, la Callas impara la parte mai prima affrontata e debutta trionfalmente.
La vicenda fotografa come meglio non si potrebbe la personalità di questa cantante unica: un’assoluta dedizione alla musica, una professionalità che non si ferma di fronte a nessuna difficoltà pratica, la capacità di entrare nello stile delle partiture affrontate con una profondità sconosciuta all’epoca. Il risultato, come ha scritto lo storico dell’opera e studioso della vocalità Rodolfo Celletti rievocando quell’evento, fu che «… la Callas annullò i divari di ruoli e di parti che nella prima metà del secolo avevano scisso i soprani in “leggeri”, “lirici” e “drammatici”. Bellini aveva composto la parte di Elvira per Giulia Grisi, che di lì a poco divenne un’eminente Norma. Questo dà un’idea dei restauri che la Callas promosse. La scena della pazzia di Elvira le ispirò fraseggi ampi, oppure intimizzati, e nelle agilità di “Vien diletto” (l’aria alla fine del secondo atto dei Puritani; n.d.r.) una vocalizzazione dolce e penetrante riesumò il grande canto di altri tempi».
In occasione della Sonnambula che a metà degli anni Cinquanta avrebbe visto Maria Callas all’apice della gloria nella sua breve ma esaltante “dominazione” alla Scala, Eugenio Montale avrebbe mescolato i termini in maniera che oggi appare quasi parodistica, parlando di “formidabile soprano leggero tragico di sapore espressionistico”. Le reazioni della critica e del pubblico, spesso entusiastiche ma anche polemiche e di contestazione, dimostravano la dirompente novità dell’operazione messa a punto dal soprano greco: riportare alla ribalta la tipologia vocale per cui tante opere di primo Ottocento erano state create, quella del soprano drammatico di agilità (o coloratura), riallacciandosi a personaggi come Maria Malibran (per tutta la sua vita considerata quasi come un nume tutelare) o Giuditta Pasta. E Montale aveva colto nitidamente la fascinazione collettiva creata dall’interprete: “Quando non canterà più, lascerà dietro di sé una leggenda”. Con maggiore distacco, avrebbe osservato in seguito che “ovunque ci fosse una scena di follia il suo trionfo era inevitabile”. Mettendo a fuoco implicitamente la grandiosa “differenza” di Maria Callas rispetto a tante anche egregie cantatrici della sua epoca: il soprano greco era anche una travolgente attrice tragica, una degna erede di Sarah Bernhardt e di Eleonora Duse e una loro continuatrice con altri e ancora più coinvolgenti mezzi espressivi.
La carriera di Maria Callas era iniziata ad Atene (dove la famiglia, provata dalla crisi economica, era rientrata nel 1937, senza il padre) durante i primi anni della guerra, all’insegna di Tosca e di Cavalleria rusticana, perfino del Fidelio di Beethoven, portato in scena nel 1944 nell’Atene occupata dai nazisti e dai fascisti. Spinta dalla madre – con la quale il rapporto fu sempre pessimo, a tratti di crudele antagonismo – a cercare il successo a tutti i costi, la giovane cantante aveva tentato la strada americana rientrando a New York poco dopo la fine del conflitto, ma aveva incontrato un’impasse apparentemente insuperabile. Di fatto, nonostante le audizioni, non la ingaggiava nessuno.
A cambiare la sua storia artistica sarebbe stato l’ormai ottantenne tenore veronese Giovanni Zenatello, il primo Radames nell’Arena (anno 1913, direttore, vedi caso, Tullio Serafin), che le propose di cantare nell’anfiteatro romano La Gioconda di Amilcare Ponchielli. A cambiare la sua vita sarebbe stato un altro veronese ormai non più giovane, Giovanni Battista Meneghini, singolare figura di ricco imprenditore con una passione totalizzante per l’opera, che divenne lo “chaperon” della ragazza greca-americana di 23 anni che non aveva mai messo piede prima in Italia. Due anni dopo, si sarebbero sposati e lui avrebbe abbandonato le sue attività per diventare l’efficientissimo manager della cantante. Fra di loro, c’era una differenza di età di quasi 30 anni (Meneghini era nato nel 1895). Il matrimonio sarebbe finito dieci anni più tardi, nel 1959. Qualsiasi cosa se ne voglia pensare, di fatto con esso sarebbe finita anche la folgorante carriera di Maria Meneghini Callas, come veniva stampato il suo nome sulle locandine.
In quel decennio la Callas ha fatto la storia. Di essa, come si diceva, sono rimasti importanti e assai numerosi documenti audio, sia in studio che dal vivo, più volte pubblicati fino ad anni recenti (e sempre con impressionante successo di pubblico) in particolare dalla casa discografica di riferimento, la Emi, e spesso rintracciabili nei giacimenti legati al suo nome che si possono esplorare su YouTube e su vari siti specializzati. Molto più sporadiche le riprese video delle rappresentazioni (e peraltro più frequenti negli anni del declino, fino alla Tosca del 1964 al Covent Garden, pure disponibile su YouTube): una paradossale dimostrazione del fatto che per “vedere” la Callas basta sentire la sua voce. Perché il suo canto ha una forza drammatica e teatrale che “passa” anche in registrazioni di fortuna, precarie e sbiadite. Ricca e multiforme, invece, la documentazione sul soprano fuori dalla scena, tra fotografie e riprese televisive di vario tipo giornalistico.
Complice un prodigioso dimagrimento e il sofisticato affinamento del gusto nell’abbigliamento, poco tempo dopo essere diventata la regina delle inaugurazioni scaligere, nei primissimi anni ’50, Maria Callas si era trasformata anche in un’affascinante icona di eleganza e buon gusto. Una diva sulla scena e nella vita, ribattezzata “la divina”. Di questa trasformazione e del suo impatto sulla buona società meneghina parla Camilla Cederna nel piccolo ritratto della cantante pubblicato per la prima volta nel 1968 (in un’epoca, cioè, in cui si poteva pensare che la Callas tornasse sul palcoscenico abbandonato nel 1965, come in realtà non avvenne) e opportunamente ripubblicato oggi da Nottetempo nella collana “Cronache” per la cura di Irene Soave, in occasione del centenario (pagg. 108, € 12,50). La narrazione della giornalista è in bilico fra il romanzesco e il cronistico, benevolmente ironica nel delineare il ritratto della “primadonna”, a cui fa riferimento anche il bel titolo del “coccodrillo” scritto alla fine del 1977 e pure compreso nel volumetto: “Tu sia benedetta fra le primedonne”. Da cronista mondana concentrata sull’immagine, un tema centrale della narrazione è anche quello della prodigiosa perdita di peso (in circa due anni, da oltre 90 chili a poco più di 60): la Cederna sembra quasi credere, con un distacco che peraltro la dice lunga sul suo scetticismo, alla leggenda della tenia volutamente inghiottita insieme a un bicchiere di champagne ghiacciato…
Risale a questo periodo l’incontro con Luchino Visconti, che proprio insieme a lei iniziò la sua esperienza come regista lirico, creando una sinergia destinata a fare epoca nella sintesi fra i valori musicali e quelli drammatici, con un’immediatezza che molto avrebbe fatto discutere e molto sarebbe dispiaciuta ai tradizionalisti, ma che appartiene alla grande storia delle rappresentazioni operistiche. Un percorso aperto nel 1954 dalla rara Vestale di Gaspare Spontini e proseguito poi nel 1955 con La sonnambula di Bellini e La traviata e nel 1957 con altre rarità come Anna Bolena di Donizetti e Ifigenia in Tauride di Gluck. Tutte prove che rafforzano l’idea comune negli storici di una cantante che fu di fatto, in certo modo, anche musicologa.
Nome e immagine-simbolo del divismo dentro e fuori dai palcoscenici italiani, inglesi, latino-americani e statunitensi, frequentati con ritmi nei quali bisogna probabilmente cercare – più che nel veloce dimagrimento – le cause del suo declino tecnico-vocale, inarrestabile a partire dal 1958, negli anni ’50 Maria Callas ha alimentato progressivamente anche la narrazione, autentica o variamente romanzata, delle sue stranezze, dei suoi capricci, della sua incompatibilità con tanti colleghi. Un fenomeno nel quale l’astiosa e plateale contrapposizione con il soprano Renata Tebaldi – cavalcata dai rotocalchi – è solo una parte, per quanto evidente. Ai trionfi cominciarono ad alternarsi con allarmante frequenza vari incidenti di percorso, forfait che facevano discutere, rifiuti che finivano in prima pagina. Il culmine si ebbe nel gennaio 1958 all’Opera di Roma, quando abbandonò una recita di Norma dopo il primo atto, insoddisfatta del suo “Casta Diva”, e mandò a casa anche il presidente della repubblica Gronchi, accorso ad applaudirla. Seguirono polemiche roventi e strascichi giudiziari. Ma già nell’estate precedente le repliche della Sonnambula viscontiana al festival di Edimburgo erano state la causa della rottura con la Scala, a causa del suo rifiuto di sostenere una recita in più dello spettacolo.
Mentre rendeva sempre più difficile la vita ai colleghi e agli organizzatori teatrali, la diva fino a pochi anni prima idolatrata dal pubblico entrava definitivamente nel jet-set internazionale e se ne faceva stritolare. La celebre cronista mondana americana Elsa Maxwell, diventata sua confidente, le aveva fatto conoscere a Venezia, nel settembre 1957, il ricchissimo armatore greco Aristotele Onassis. Nell’estate del 1959, galeotta doveva essere una crociera nel Mediterraneo sul suo enorme e lussuosissimo yacht “Christina”, fra ospiti come l’ex premier britannico Winston Churchill. Poco dopo il suo ritorno, la Callas, diventata l’amante di Onassis, faceva sapere al marito che il loro matrimonio era finito. Ma la relazione non sarebbe mai decollata davvero e l’armatore che trattava da pari a pari con i capi di Stato non l’avrebbe mai sposata. Nel 1968 avrebbe invece portato all’altare Jackie Kennedy, vedova del presidente americano assassinato a Dallas nel 1963.
Almeno fino alla fine degli anni ’60, Maria Callas, che si era trasferita a Parigi, avrebbe continuato ad essere al centro dell’attenzione, più come personaggio prediletto dal giornalismo cosiddetto scandalistico che per la sua arte. Colpisce il crollo verticale dei suoi impegni: secondo l’impresario inglese Michael Scott, autore di una biografia della cantante, dal 1947 al 1959, gli anni della relazione con Meneghini, la Callas ha partecipato a 475 spettacoli; successivamente e fino al 1965, anno dell’ultima apparizione in palcoscenico, gli spettacoli sono stati in tutto 48.
Incombeva il silenzio, che sarebbe stato interrotto solo nel 1973-74 dalla catastrofica tournée mondiale in duo con il tenore Giuseppe Di Stefano, antico compagno di fasti e incomprensioni scaligere, ora assurto anche al ruolo di ultimo amante. La tournée, quasi simbolicamente conclusa nella remota Sapporo, isola giapponese di Hokkaido, certificò la fine della voce di Maria Callas. Al silenzio sarebbe seguita tre anni più tardi la fine nella casa di Parigi, per un’embolia polmonare improvvisa e inaspettata.
Il doloroso e inesorabile declino della voce lirica femminile più importante del Novecento è percorso con rispettoso rigore da René de Ceccatty in una biografia pubblicata in Francia ancora nel 2009 e giunta in libreria anche in Italia in occasione del centenario della nascita (Maria Callas, Neri Pozza editore 2023, traduzione di Giovanni Zucca, pagg. 320, € 19,00). Si tratta di un libro denso e ben documentato, particolarmente approfondito fra l’altro nel delineare il rapporto di forte impatto emotivo della cantante con Pier Paolo Pasolini, che la diresse nell’unico film a cui partecipò, Medea (1969). Ceccatty, scrittore ed esperto di letteratura italiana del secondo Novecento, si tiene alla larga dalle favole da rotocalco ma non trascura alcun dettaglio decisivo e getta uno sguardo giustamente critico sulla vastissima bibliografia intorno all’artista, fra lettere, memoir, “rivelazioni”, racconti presuntamente dal vero. Né si limita all’elemento biografico, allargando il discorso anche al versante vocale e musicale, accostato peraltro più dal punto di vista tecnico che da quello stilistico. E tuttavia con una notevole mole di utili anche se un po’ generici confronti con altre cantanti della sua epoca e di quelle successive. Il ritratto che ne esce è comunque a tutto tondo e non trascura gli omaggi postumi anche in campo cinematografico. Sul film di Franco Zeffirelli, Callas forever (2002, con Fanny Ardant) il giudizio è perentorio: si tratta di un caso di “insulso cattivo gusto”. Nei prossimi mesi toccherà ad Angelina Jolie impersonare la divina in un nuovo film per la regia di Pablo Larraín. E si vedrà se questa volta le è stata resa giustizia. Di una cosa si può essere sicuri fin d’ora: comunque vada, il tramonto del mito di Maria Callas è ancora lontano. Perché le ricerche, gli studi e gli spettacoli su di lei continuano. Compreso un concerto portato in tour qualche anno fa, nel quale “riviveva” attraverso la tecnica degli ologrammi. Tutte conseguenze di un dato di fatto: come ha scritto il critico americano Harold C. Schonberg, «…nessun cantante della sua epoca e pochissimi nella storia sono riusciti a dominare il pubblico come lei».