Walter Lippmann, l'inventore della guerra fredda
Che differenza c’è tra il sogno di Costantino, la notizia della morte di Napoleone del 1814 e i tifosi del Feyenoord che stampano magliette con la scritta “vi accoltelliamo”? Si tratta di tre notizie false. Nel caso di Napoleone la veicolazione dell’informazione ebbe un impatto negativo anche sulla Borsa valori di Londra. Oggi queste notizie le definiremmo fake news o post verità, secondo i paradigmi di riferimento, i contesti di utilizzo e le preferenze di certi autori. Negli anni di piombo si dibatteva sulla dialettica tra disinformazione e controinformazione, cercando di distinguere i due termini assieme ai fatti attendibili e verificabili, a prescindere dall’ufficialità della fonte. Durante la guerra fredda – ma anche prima, nel corso della Rivoluzione russa – si sbandierava il termine ‘propaganda’, coniato dalla Chiesa cattolica nel XVI secolo come contrattacco alla diffusione del protestantesimo.
Gli antichi utilizzavano il termine sofisma, efficace per il popolo che ama il sentimento e la doxa (opinione comune), ma inutile per il saggio che cerca la verità epistemica incontrovertibile.
Le notizie false corrono lente o veloci. Tutto dipende da quale mezzo di informazione viene impiegato. Ma la notizia è vera anche quando è attendibile? Oppure rimane sempre una costruzione narrativa? Quanto si allontana dal vero? Quanto si avvicina al fatto concretamente accaduto?
Questo cappello tra passato e presente mi è stato necessario per introdurre un autore, Walter Lippmann, che esattamente cento anni fa, con la pubblicazione di Public Opinion (1922), ha posto il tema della differenziazione tra notizia, fatto, verità, finzione e realtà.
Walter Lippmann spiana la strada verso l’inevitabilità della costruzione di un mondo che prosegue sempre più velocemente oltre il reale, coniando la parola 'pseudo-ambiente', una realtà interstiziale costituita da immagini e contenuti stereotipati che il pubblico interpreta per costruire immaginari condivisi e non aderenti alla realtà (oggi parleremmo di Second Life o di Metaverso).
L’autore intende il processo di mediazione come un destino inevitabile, inserendosi nel solco di una tradizione filosofica che partendo da Platone arriva a William James.
La notizia si distingue dalla verità, ma la verità si distingue dalla realtà e la realtà si suddivide tra la realtà costruita dalle immagini del soggetto e quella costruita dalle fonti esterne.
Secondo Lippman se non possediamo un’immagine di ciò che pensiamo sia la realtà, diventa difficile elaborare un sistema di credenze su un determinato fenomeno. Inoltre, se non possediamo immagini tendiamo a non vedere fenomeni sociali inconsueti e distanti dal nostro modo di osservare; oppure cerchiamo di «costruire un’immagine nuova partendo da ciò che abbiamo nel nostro repertorio» (Lippman 1922; trad. it. 2018, p. 20). Qui si insinua la viralità del ‘falso credibile’ secondo me!
Le immagini condivise collettivamente, a loro volta, influenzano le azioni di «gruppi che costituiscono l’opinione pubblica» (Lippmann, op. cit., p. 23). L’essere umano costituisce di per sé un’interfaccia che media tra sé e la realtà. Quando decide di aggregarsi per esprimere un’intesa collettiva su un tema specifico, la tendenza alla semplificazione stereotipata diventa la strada più facilmente percorribile. Lo pseudo-ambiente alimenta le ombre della caverna platonica, mediando tra l’uomo e l’ambiente reale. L’uomo non coglie la verità autentica, ma quella che ricostruisce attraverso narrazioni. Per comprendere un fatto nuovo ricorre alle immagini di un fatto vecchio, nel tentativo di trovare somiglianze. La finzione, secondo Lippman, non è una menzogna, ma un elemento costitutivo della notizia: «una rappresentazione dell’ambiente fabbricata, in maggiore o minore misura, dall’uomo stesso» (Lippmann, op. cit., p. 13).
La notizia è parte integrante di una macchina standardizzata e per questo diviene finzione, nel senso contemporaneo di fiction. Lippman è, in questo senso, mass-mediologo ante-litteram che analizza il rapporto triangolare tra la scena dell’azione, la rappresentazione che l’uomo fa di questa scena e la reazione a tale rappresentazione, rioperante a sua volta sulla scena dell’azione, costruttrice di profezie che si auto-adempiono. Questo processo viene preso in esame quarant’anni dopo da Shannon e Weaver, nel 1963, con il concetto di feedback e ritorna in Luhmann con il termine re-entry: l’ambiente perturba il sistema, ma il sistema risponde a questa perturbazione sulla base di ciò che può comprendere, a partire dal suo modello di osservazione. Quindi, il sistema non vedrà mai l’ambiente nella sua totalità, ma solo rispetto a ciò che può vedere a partire da sé stesso.
Per fare un esempio banale ma chiarificatore: una signora colta e benestante osserverà i fenomeni sociali pensando di ritrovare in tutti gli ambienti i suoi valori, la sua premura, il suo modo di scandalizzarsi, il suo senso del pudore. La stessa cosa accadrà per un metalmeccanico, un insegnante e così via. Questa autoreferenzialità delle appartenenze costituisce la cecità dell’essere umano di fronte all’inconsueto, al contraddittorio, al non convenzionale e al non direttamente esperito.
L’essere umano ha bisogno di senso, ma anche di coerentizzare a posteriori l’eccesso di contraddizioni del reale. Lo dimostrerà scientificamente e molti anni dopo Festinger (1957) con la teoria della dissonanza cognitiva. La risposta difensiva consiste di un’immagine ‘verosimile’ al posto del fatto in sé, perché il verosimile è più veloce della lenta e accurata ricerca della verità che prevede uno studio approfondito, giammai la lettura veloce e distratta di un quotidiano. Ma il lettore non ha il tempo per studiare, solamente pochi minuti per “farsi un’idea”. Lippmann ci ricorda, con dati e casi storici, che in ogni epoca i gruppi di opinione hanno creduto in informazioni false e manipolate. La costruzione propagandistica del complotto ad opera di movimenti che lo alimentano non è un’invenzione moderna, ma nasce da quando l’uomo è in grado di mediare attraverso i simboli. Lippmann è anche il primo studioso a introdurre il termine stereotipo all’interno delle scienze sociali.
Questa parola proveniva dall’ambiente tipografico dove fu coniato verso la fine del Settecento per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse. Il suo primo uso traslato fu impiegato in ambito psichiatrico, in riferimento a comportamenti patologici caratterizzati da ripetitività ossessiva di gesti ed espressioni. La sua comparsa in ambito sociologico si deve all’opera di Lippmann. Lo stereotipo costituisce il nucleo cognitivo del pregiudizio. Vi sono pregiudizi che nascono da un uso volutamente distorto e consapevolmente incompleto dei dati e che determinano una percezione ingiustificatamente sfavorevole (o favorevole) dei fenomeni presi in esame.
Determinate convinzioni possono perpetrarsi anche dopo l’evidenza di fatti che li falsificano, afferma Lippmann nel 1922. Ancora oggi questo fenomeno è evidente: nel corso della pandemia le convinzioni negazioniste non si sono mai spente definitivamente.
A dimostrazione del fatto che Lippmann viveva di teoria e di prassi, sua è anche l’introduzione dell’espressione “Guerra Fredda” che coniò nel 1947 per definire lo stato delle relazioni internazionali che si andava definendo dopo la Seconda guerra mondiale.
L’invenzione di Lippmann è entrata nel linguaggio comune, per descrivere la contrapposizione in ogni sfera tra due blocchi contrapposti. Anche recentemente si è parlato di nuova guerra fredda a proposito dell’Ucraina e dei rapporti tra Usa e Russia. Ma questa parola costruisce una fiction narrativa. Essa permette la sintesi, ma anche la drammatizzazione, alterando la realtà e spianando la strada all’ingresso del ‘fattoide’, ovvero: la notizia che diventa gradualmente priva di fondamento, ma diffusa dai mezzi di comunicazione di massa al punto da essere percepita come vera.
Come uscire dal gioco? Ma soprattutto, come non cadere nei tranelli retorici dello pseudo-ambiente mediatico? L’attualità di Lippmann consiste nel fatto di aver individuato il nodo problematico ancora attuale e irrisolto della comunicazione. Allora buona (ri)lettura di Public Opinion.