Speciale

Wanderlust

24 Novembre 2011
Fossi un artista contemporaneo, un designer, un artigiano concettuale, sapessi anche solo come farlo, realizzerei un libro a specchio. Ogni pagina dovrebbe riflettere la tua immagine, i tuoi occhi che dalle pagine del libro si guardano attraverso. Nella tua mente l’effetto sarebbe quello di quando ti trovi in mezzo a due specchi e l’immagine si replica all’infinito e sembra che, laggiù, in fondo, ti entri dentro.
 
 
Una volta ho sentito Paul Auster dire che il libro è l’unico luogo in cui due sconosciuti, l’autore e il lettore, possono incontrarsi in completa intimità. Vero Paul, hai ragione, ma ascoltami bene, dedicami un secondo del tuo tempo, posa la penna, guardami. Non pensi anche tu che le parole a cui dai corpo, le storie che regali al mondo, i personaggi che plasmi, siano tanto tuoi quanto miei? Quando leggi un libro, Paul, è di te che stai leggendo, solo di te. Sei tu che cammini tra le vie di New York, che voli sulla mongolfiera intorno al mondo, che risolvi il caso, che uccidi il drago, che muori all’ultima pagina. Sei tu Achab, è tuo quel ritratto che invecchia appeso al muro, tua è la vendetta, Edmond Dantès. Non lo vedi lo specchio, caro Paul? Non lo vedi su ogni pagina? Come una superficie riflessa su te stesso, il riverbero senza vanità che getta luce sulle tue ombre, sulle strade poco illuminate della tua vita, su quegli angoli di mondo in cui non ti avventureresti mai, irraggiungibili, se non sulle ali della fantasia, attraverso la voce, la pelle, le storie di qualcun altro.
 
 
Leggevo un libro di Alex Roggero, La corsa del levriero. Alla scoperta delle magnifiche stazioni art dèco costruite negli anni Trenta e Quaranta, Alex ha girato l’America, da Pittsburgh a Los Angeles, sui Greyhound, gli autobus del levriero, che ogni giorno trasportano migliaia di persone lungo le strade di un continente che ha fatto proprio della strada, del blacktop, il manto nero d’asfalto, il suo mito più profondo. A pagina 115, ho trovato uno specchio, in una parola. In poche righe, sono finalmente riuscito a dare un nome ad una sensazione che mi accompagna da sempre. Cito le parole di Alex: “Si chiama dromomania, la malattia che induce chi ne è afflitto a vagabondare senza mai fermarsi, spinto dall’abnorme, irrefrenabile impulso di rifuggire ogni sedentarietà. Ma gli americani preferiscono usare una parola meno arida, una parola splendida e intraducibile, per illustrare questa condizione: è wanderlust, termine composto da wander, vagabondare, e lust, ossessione, desiderio”.
 
Wanderlust. Che meraviglia, ho pensato. Eccola. Per anni ho cercato il modo di spiegare il senso di irrequietezza, di agitazione, il vortice interiore, il richiamo al movimento che mi attanaglia nel profondo dell’anima, in alcuni momenti della mia vita. Senza motivo apparente, spesso. Per una vita intera ho cercato di dare un nome a quegli ululati nel petto, a quel desiderio irrefrenabile di andare, non importa dove e come. Solo andare.
 
 
E poi, wanderlust. Uno specchio, in una parola. Forse ne farò un uso improprio. Cosa c’entro io, in fondo, con i vagabondi d’America? Con gli hobo, le highway, il west? Ho solo letto un libro, è vero. Ma cosa si può chiedere di più ad un libro? Ho dato un nome ad una parte di me che non sapevo come chiamare. Una parola. E mi dispiace Jack London. Scusami Neal Cassady. Perdonami, se puoi, Jack Kerouac. Ma quella parola è wanderlust.
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