Paul Auster, doppio passo

Paul Auster tra il quotidiano e il mito
di Andrea Canobbio

Per una di quelle sincronie che lo affascinavano tanto, Paul Auster è morto nel giorno in cui la polizia in tenuta antisommossa ha assaltato la Columbia University occupata dagli studenti, come nei tumultuosi giorni del 1968 che ritornano in molti dei suoi libri: allora protestavano contro la guerra in Vietnam e il reclutamento dei Marines all’interno dell’università, oggi contro il massacro di civili inermi a Gaza. Nel 1968, studente della Columbia, Auster era un contestatore svogliato e non troppo convinto, e il suo impegno politico (si definiva “molto più a sinistra del partito democratico”) trovò poi nella letteratura uno strumento forte attraverso il quale esprimere il proprio dissenso. La sua opera è attraversata da una riflessione radicalmente pessimista sulla natura del potere, ed è sufficiente leggere alcuni dei suoi libri più noti, La musica del caso, Leviatano, Uomo nel buio fino al più recente 4321, per rendersene conto. Mi piace ricordare questa versione battagliera di Paul Auster (che fu tra l’altro a lungo impegnato in prima fila con il PEN Club), perché nei trent’anni in cui l’ho frequentato ho parlato con lui molto di letteratura, ma altrettanto spesso di politica: gli argomenti non mancavano da entrambi i lati dell’oceano. Il libro con cui si congederà dal pubblico italiano si intitola Un paese bagnato di sangue (uscirà il prossimo autunno da Einaudi) ed è uno straordinario pamphlet contro la diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti e le fondamenta di violenza che reggono la storia americana.

 

In una frase di Peter Brook che Auster citava spesso, è nascosto forse il segreto della sua scrittura: “Nel mio lavoro cerco di combinare la vicinanza del quotidiano alla distanza del mito. Perché senza vicinanza non ci si può commuovere, e senza distanza non ci si può meravigliare”. La vicinanza del quotidiano si manifesta nei suoi libri nell’attenzione al dettaglio banale e nello stile realistico della narrazione. I romanzi partono talvolta dal micromondo della scrittura stessa: un taccuino intonso, una penna stilografica, oppure una macchina per scrivere, una scrivania in una stanza chiusa, isolata dal mondo. Poi arriva l’ondata di marea delle storie che investe il lettore e lo trascina per pagine e pagine, lontano. Auster ha trovato un modo unico per inserirsi nel solco della tradizione novecentesca di sovvertimento dei dogmi della letteratura, coltivando nello stesso tempo il gusto per un’arte antica, preromanzesca della narrazione. Ho sempre ammirato i suoi libri più famosi, da L’invenzione della solitudine a Trilogia di New York, ma il libro a cui sono più affezionato e in cui riaprendolo ritrovo lo scrittore che conoscevo, è un suo romanzo meno noto, La notte dell’oracolo. Raccontando l’avventura del giovane scrittore Sydney Orr, Auster porta a zonzo il lettore, apparentemente con lo scopo di fargli perdere l’orientamento, seguendo una linea narrativa ondivaga e tortuosa, e poi con un virtuosismo stupefacente riesce a trasformare quella stessa linea in una retta impeccabile, e il romanzo divagante in un intreccio perfetto. 

Paul Auster, architetto 
di Andrea Brondino

“La maggior parte delle vite svanisce. Una persona muore, e a poco a poco tutte le tracce di quella vita spariscono. Un inventore sopravvive nelle sue invenzioni, un architetto nei suoi edifici, ma la maggior parte della gente non si lascia alle spalle monumenti o prodotti duraturi”. Non è questo il caso di Paul Auster, che si lascia alle spalle una produzione letteraria monumentale, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista estensivo. La sua letteratura include romanzi, saggi, biografie, poesie, sceneggiature teatrali, memoir. Paul Auster è morto il 30 aprile 2024 all’età di 77 anni a New York, ma come scriveva nel romanzo Le follie di Brooklyn, un architetto può sopravvivere nei suoi edifici e di suo ci resta moltissimo.

Scrittore americano di fama mondiale, il suo esordio vero e proprio avviene nel 1982 con un memoir, genere di ampia popolarità nel mondo anglosassone già all’epoca: The Invention of Solitude, tradotto in italiano nel 1993 (L’invenzione della solitudine). L’oggetto principale della narrazione è la morte improvvisa del padre; e se nella prima parte del memoir Auster dà forma a un ritratto freddo e preciso dell’uomo, solitario e dalle abitudini di vita inconsuete, nella seconda parte del libro, intitolata “Il libro della memoria”, il protagonista è Auster stesso: un figlio che rielabora la perdita del genitore attraverso la scrittura e la rilettura di classici e riflette su lutto, solitudine e destino tracciando linee di contatto tra Collodi e Proust, tra Pascal e Wallace Stevens. La biblioteca, in senso sia letterale sia figurato, è il luogo in cui Auster si ritira per ricompone i pezzi della figura paterna che lo ha lasciato. A ben vedere, ne L’invenzione della solitudine si intravedono già quasi tutti gli ingredienti che l’architetto Auster utilizzerà per comporre le fondamenta dei suoi prossimi edifici-romanzi: la perdita improvvisa di una persona amata (tema ricorrente fino al suo ultimo romanzo Baumgartner, 2023); la solitudine maschile (tra tutti, vedi The Book of Illusions [Il libro delle illusioni] del 2002, uno dei libri più riusciti di Auster); la forza del destino e delle coincidenze (ancora in 4321 del 2017, per esempio, dove il racconto segue la parabola delle sliding doors che avrebbero determinato quattro diverse possibili vite del protagonista).

 

La consacrazione critica e di pubblico nell’ambito della fiction letteraria avviene con la Trilogia di New York, una serie di tre romanzi inizialmente pubblicati a parte e oggi solitamente riuniti in un unico volume: City of Glass (Città di vetro, 1985), Ghosts (Fantasmi, 1986) e The Locked Room (La stanza chiusa, 1987). La trilogia, a volerla riassumere frettolosamente, appartiene al genere del giallo metafisico: quel genere di fiction dalle ambizioni tipicamente filosofiche a cui appartengono anche il Pasticciaccio di Gadda e Sei problemi per don Isidro Parodi di Borges, per citare due assoluti modelli di riferimento. In queste storie, il protagonista è quasi sempre un detective, alle prese con un mistero insolubile dalle ramificazioni imprevedibili. Il detective è metafora del lettore e il mistero insolubile è metafora del mondo reale di cui il lettore interpreta segni e indizi, senza coglierne (solitamente) il senso finale o generale. C’è un bel libro di Giovanni Darconza in merito, rimando lì per ulteriori e più incisivi dettagli. Il giallo metafisico di Auster gioca con i livelli di realtà e gli scambi di identità: per esempio, vi sono almeno due, sostanzialmente distinti “Paul Auster” che abitano il mondo di Città di vetro (uno è uno scrittore, l’altro è un detective); in Fantasmi il detective Blue si identifica a tal punto nella persona oggetto delle sue investigazioni, Black, da confondere la propria identità con quella dell’indagato; in La camera chiusa, il protagonista è uno scrittore che prende il posto in società e in famiglia di un suo vecchio amico scrittore che ha avuto più successo di lui. 

Il giallo metafisico è un genere che forse ci può suggerire molto di Auster e del suo percorso letterario e intellettuale: tradizionalmente, il giallo è il genere popolare per eccellenza, eppure il giallo metafisico è un genere letterario “alto”, talvolta ritenuto elitario e ostico (non a caso si accompagna spesso a forme e linguaggi sperimentali, come nei casi di Borges e Gadda). Nel corso della sua carriera, Auster oscilla sempre e spesso tenta una sintesi piuttosto riuscita (come nel caso della Trilogia) tra una letteratura-letteratura – ricca di rimandi intertestuali, ambizioni filosofiche ed esistenzialiste – e una letteratura che si apre alla dimensione sociale della scrittura. In questo senso, aiutano le consonanze anche involontarie tra i detective di Auster e quelli à la Humphrey Bogart, la natura cinematografica di Brooklyn e di New York, sorta di grandi “camere chiuse” dove sono ambientate praticamente tutte le storie di Auster, oltre alla scelta del genere giallo. La lingua di Auster, negli anni Ottanta soprattutto, è però più vicina alla vena sperimentalista che non al polo comunicativo, a cui comunque tende tutta la sua produzione letteraria. The Music of Chance (La musica del caso), romanzo quasi surrealista del 1990, segna forse la conclusione della fase più dichiaratamente espressionista di Auster. 

 

A partire dagli anni Novanta Auster dà vita a una produzione letteraria vasta, ma si impegna anche su altri fronti: quello del cinema, innanzitutto (Smoke e Blue in the Face, entrambi del 1995). I suoi romanzi, nel frattempo, insistono sui temi distintivi della fiction austeriana: la morte improvvisa di un amico (Leviathan [Leviatano], 1992); la fragilità del concetto di identità individuale (Mr. Vertigo, 1994); la solitudine maschile di un professore universitario travolto da un desiderio mimetico di identificazione con un attore scomparso del cinema muto (Il libro delle illusioni, 2002). In questi libri, è bene sottolinearlo, i toni di Auster si ammorbiscono e tendono più decisamente verso il comunicativo: sono i primi segni di un passaggio, in Auster, da una letteratura-letteratura a una letteratura sempre meno convinta della propria autoreferenzialità. 

Il catalizzatore di questo passaggio verso una letteratura più decisamente realista e comunicativa sono gli attacchi terroristici dell’undici settembre 2001 a New York. Auster non è certo l’unico scrittore americano a percepire la necessità di un sostanziale cambio di tono, linguaggio e temi dopo la caduta delle Torri Gemelle: Don DeLillo segue un percorso piuttosto simile, anche se i due appartengono a generazioni di scrittori leggermente differenti. Oracle Night (La notte dell’oracolo), romanzo di Auster del 2003, simboleggia una leggera svolta, avendo per protagonista uno scrittore che intende scrivere di un personaggio (la compresenza e sovrapposizione di molteplici livelli di realtà e finzione resta una costante di Auster ben oltre il 2001) che non intende più sottostare alla forza del caso, opponendogli una fiera forza di volontà: ma il potere incontrovertibile del reale costringe lo scrittore innanzitutto a rivalutare il senso degli agenti esterni e della loro imprevedibilità all’interno di una vita individuale. Ancora più netta pare la svolta realista di Auster in The Brooklyn Follies (Follie di Brooklyn), romanzo del 2005. L’happy ending finale, inconsueto per Auster, si tramuta in parodia di sé stesso nel momento in cui il narratore conclude la narrazione proprio durante la mattina dell’undici settembre 2001, pochi minuti prima dell’attentato: “Ma per adesso erano ancora le otto, e mentre camminavo lungo il viale sotto quello splendido cielo azzurro ero felice, amici miei, l’uomo più felice che sia mai vissuto”. Di tono fortemente realista è anche Sunset Park, del 2010, che affronta il tema della crisi economica del 2008, con le sue ripercussioni sociali ed esistenziali.

Con Man in the Dark (Uomo nel buio), romanzo del 2008, Auster torna alla sperimentazione formale con un romanzo distopico, forse il genere proprio dell’epoca che stiamo vivendo; un genere che sta alla contemporaneità, verrebbe da dire, come il giallo metafisico stava al cosiddetto postmodernismo. Nell’Uomo nel buio, gli Stati Uniti sono afflitti da guerre civili e minacce secessioniste (una realtà che nel 2008 sembrava piuttosto lontana, e che ora appare decisamente meno immaginaria); il protagonista è un critico letterario incerto se scrivere di realtà, oppure rifugiarsi nella letteratura d’invenzione. Come si può vedere, sono questi problemi che ritornano nella narrativa di Auster, in diverse forme e sotto diverse declinazioni: comunicatività contro letterarietà, letteratura d’invenzione contro letteratura sull’attualità. 

Eppure, sono davvero in contraddizione questi apparenti poli della dialettica austeriana? Forse no, se è vero che anche dalla letteratura-letteratura della Trilogia di New York trapelavano ansie molto reali e storicizzabili sulla storia recente e sul presente americano, spesso insondabile e fonte di paranoia. Un tratto di continuità rintracciabile nella narrativa di Auster è l’attenzione verso la forma e lo spazio: l’architetto Auster è capace di romanzi dalla struttura solida e leggerissima come Leviatano, di monumenti dalle linee geometriche come 4321, oltre che di romanzi dove la dimensione spaziale è un’assoluta protagonista, come Città di vetro, La camera chiusa e Le follie di Brooklyn. Come Ludwig Mies van der Rohe, Auster costruisce edifici originali e dal tratto inconfondibile, dove la funzione conta tanto quanto la forma. Se il primo Auster insisteva di più su quest’ultima, il secondo Auster ha controbilanciato, sottilmente e non radicalmente, in favore dell’uso della sua narrativa. Ora che l’architetto se n’è andato, tocca ai lettori abitare questi spazi: il tempo ci dirà se forma e funzione delle sue costruzioni non siano poi la stessa cosa, o quasi.

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