Ginzburg: Miti emblemi spie quarant'anni dopo
‘Ripresentare un libro dopo quasi quarant’anni non è facile’: così inizia, e non è forse solo una posa, la postfazione autoriale alla nuova edizione di Miti emblemi spie (Adelphi 2023) di Carlo Ginzburg. Per fortuna, è piuttosto semplice (ri)leggere questo libro. Fare i conti con Miti emblemi spie significa innanzitutto fare i conti con “Spie: radici di un paradigma indiziario”. Questo saggio, ovviamente presente anche nella nuova edizione del libro, resta fondamentale per comprendere al meglio gli altri contributi del libro, ma più in generale per mettere a fuoco uno dei passaggi fondamentali del percorso intellettuale di Ginzburg: la messa a punto di un “paradigma indiziario” come metodo per la ricerca storica, fondato sulla rivalutazione in positivo del dettaglio e dell’indizio. “Spie” fu pubblicato in prima battuta nel 1979 all’interno dell’antologia Crisi della ragione curata da Aldo Gargani, che raccolse gli interventi di autori come Ginzburg, Francesco Orlando e Remo Bodei in cui si ragionava intorno a una serie di “nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” (come recita il sottotitolo del volume einaudiano). “Spie” provocò (e c’era da aspettarselo, data la carica innovativa della proposta) un acceso dibattito che valicò ben presto i confini della storiografia e, in seguito alla traduzione inglese del saggio, dell’Italia: una ricezione eterogenea e appassionata, come testimonia, tra le tante possibili fonti, una tavola rotonda trascitta nel 1980 nel volume 12 della rivista Quaderni di storia a cui parteciparono, tra gli altri, Luciano Canfora, Eva Cantarella, Umberto Eco e Aldo Schiavone.
Nel periodo trascorso dalla loro prima pubblicazione (1986), i saggi contenuti in Miti emblemi spie hanno assunto significati ulteriori e sfumature particolari: per esempio, con il senno (sempre parziale) dell’oggi potremmo sostenere che il paradigma indiziario sembrerebbe avere esaurito parte della sua vitalità iniziale all’interno della storiografia; eppure, lo stesso paradigma ha da tempo superato tali limiti disciplinari per offrire impulsi numerosi e significativi ad altri campi e alla letteratura in particolare (basti pensare a quel tipo particolare di giallo all’italiana in voga a inizio anni 2000 in cui la storia recente del Paese diventava oggetto di un’indagine al tempo stesso narrativa, storiografica e giudiziaria). Oppure, rileggendo Miti emblemi spie oggi si potrebbe tenere conto del fatto che a partire dal saggio lì contenuto su ‘Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari’, la ricerca sul tema è passata attraverso Storia notturna (il punto d’arrivo più ambizioso delle riflessioni di Ginzburg sul sottotitolo di Miti emblemi spie, ovvero sul rapporto tra morfologia e storia) e più recentemente attraverso Il vecchio Thiess, scritto a quattro mani con Bruce Lincoln. Oppure ancora, nel 2023 alcune sezioni del saggio sulle simpatie più o meno esplicite del giovane Dumézil per il nazismo potrebbero risultare fortemente consonanti con una generale tendenza culturale odierna che punta alla colpevolizzazione e/o delegittimazione postuma di autori sulla base delle loro convinzioni e atteggiamenti. Nel saggio di Ginzburg, invece, la simpatia probabile del giovane storico francese per il regime tedesco non è lo spunto per un attacco ad personam, bensì il pretesto per un’analisi profonda e originale del gomitolo di intrecci tra pregiudizio ideologico e analisi scientifica nel mestiere dello storico (un saggio che assume ulteriore risonanza se letto come risposta parziale alle questioni aperte nel capitolo conclusivo di Giochi di pazienza). Insomma, a “rovinare” una lettura pura e in quanto tale impossibile di Miti emblemi spie intervengono una serie di fattori come quelli qui sopra elencati: anacronismi suggeriti dal senno di poi, insomma, che impediscono al lettore del 2023 di calarsi del tutto nei panni di un lettore del 1986. Ma Ginzburg, ne siamo certi, vedrebbe nella condizione apparentemente spiantata del lettore di oggi un’opportunità, piuttosto che un minus: essendo Ginzburg uno degli storici che più ha insistito nel ricordarci che ‘il passato ci arriva attraverso mediazioni che vanno di volta in volta analizzate criticamente: filtri che ci parlano del passato e di sé stessi’. Così termina uno dei saggi più brevi, eppure più pregnanti di questa nuova edizione di Miti emblemi spie, “Bing, Warburg, Traube: sulla trasmissione dei testi e delle immagini”.
Questa di Adelphi è a tutti gli effetti una nuova edizione di Miti emblemi spie. Rispetto alla versione del 1986, ci sono quattro nuovi saggi (l’intera seconda parte del volume), un apparato iconografico molto più ricco ed elaborato di quello precedente, nonché (ed è uno dei maggiori motivi di interesse) una postfazione scritta da Carlo Ginzburg stesso. Al di là delle potenzialità ermeneutiche di una rilettura dei saggi originali di Miti emblemi spie e al di là persino delle attese e benvenute novità a livello editoriale, che cosa c’è di davvero nuovo in questa edizione 2023 di Miti emblemi spie? Innanzitutto, il contenuto di almeno tre dei quattro saggi aggiunti a quest’ultima edizione suggerisce un’intensificazione dell’interesse di Ginzburg e della fertilità del suo metodo per la critica letteraria e in ambito estetico più in generale. Le arti figurative e in particolare la pittura costituiscono uno dei poli di attrazione costanti, ormai, del lavoro di Ginzburg: lo testimoniano i nuovi saggi, interdisciplinari per costituzione, di Miti emblemi spie 2023: “Mise en abyme: l’immagine dentro l’immagine”, dove Ginzburg ricostruisce la traiettoria che conduce da una tecnica araldica alla mise en abyme come elemento fondamentale della grammatica cinematografica. Significativo anche dal punto di vista teorico è l’ultimo saggio “Testi invisibili, immagini visibili”: un testo ambizioso, dove l’obbiettivo è quello di invitare a un superamento della dicotomia (se non ingenua, quantomeno impraticabile nell’era di Internet) tra “copia” e “originale”. Ginzburg invita a storicizzare tali concetti (e l’ideologia di fatto neoplatonico-metafisica che li sottende), servendosi del caso di Le nozze di Cana di Veronese, una cui copia di Adam Lowe è stata riproposta nel 2007 nel contesto originale del quadro di Veronese, il refettorio del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia: ‘un sintomo della fragilità sempre maggiore del nostro patrimonio culturale, biologico, e ambientale. Un sintomo, e una risposta’, chiosa Ginzburg con tono sibillino e ottimistico al tempo stesso.
Nel saggio “Di natura buona scimia”, poi, il paradigma indiziario diventa il metodo con cui esaminare le molteplici ambiguità del termine ‘riproduzione’, la questione secolare del rapporto tra arte e natura, la ricorsività della figura della scimmia (animale simbolo dell’imitazione passiva e inconsapevole); tutto ciò passando attraverso Dante e il Roman de la rose, per giungere fino a The Cameraman di Buster Keaton. Anche nella postfazione la letteratura è protagonista. Il paradigma indiziario, svela Ginzburg, è stato notevolmente ispirato da Proust e dalla Recherche. Ragionando inoltre sul rapporto che sussiste tra microstoria (le cui origini possono essere già rintracciate a partire da Il formaggio e i vermi) e paradigma indiziario (elaborato nel modo più compiuto e consapevole nel saggio “Spie”), Ginzburg nota come un momento decisivo di questa fertile dialettica consista in una personale elaborazione del concetto di identità individuale come ‘punto d’intersezione di insiemi diversi: generici, via via meno generici, fino ad arrivare all’insieme di cui siamo gli unici membri, ossia le impronte digitali’. A ben vedere, Ginzburg si accorge che questa idea riecheggia una simile definizione di identità proposta da Italo Calvino: ‘L’identità è dunque un fascio di linee divergenti che trovano nell’individuo il punto d’intersezione’. Con un effetto (si presume non del tutto involontario) di Ringkomposition, la postfazione 2023 di Miti emblemi spie sembra costituire la prosecuzione e la risposta a distanza all’introduzione alla prima edizione del 1986, dove Ginzburg già dichiarava apertamente il grado di influenza che scrittori come Lukács, Dostoevskij e Kafka ebbero sulla sua formazione giovanile: ‘Verso la metà degli anni ’50 leggevo romanzi; l’idea che avrei fatto lo storico non mi sfiorava nemmeno’, scriveva quasi quarant’anni fa.
In “Bing, Warburg, Traube: sulla trasmissione dei testi e delle immagini”, uno dei saggi aggiunti all’edizione Adelphi del volume, Ginzburg propone una lettura consapevolmente “travisata”, “obliqua”, eppure assai fertile, di Aby Warburg come paleografo. Un’immagine nuova, che emerge da una lettura indiziaria della biografia inconclusa di Warburg iniziata da Gertrud Bing e da un confronto inconsueto con il filologo Ludwig Traube, uno dei padri della paleografia latina, da lui intesa come disciplina sia filologica sia di tipo storico-culturale. Ginzburg invita a una rilettura di Warburg che tenga conto delle convergenze tra Warburg, Freud, Traube e Giovanni Morelli, il critico dell’arte protagonista del saggio “Spie” che nella seconda metà dell’800 suggerì un modello indiziario in cui il dettaglio pittorico diventava l’elemento decisivo per l’attribuzione di un’opera al suo autore. E se tali convergenze non sono ancora del tutto comprovate a livello filologico, sono tuttavia necessarie per dare vita a nuovi impulsi e nuove interpretazioni: ‘da Traube […] si dovrà ripartire per leggere Warburg in una chiave nuova’.
Basterebbero questo saggio e la postfazione 2023 di Miti emblemi spie per invitare i lettori di oggi a proporre chiavi di lettura inusuali del lavoro di Ginzburg stesso: per esempio “travisando”, per comprendere meglio, microstoria e paradigma indiziario, osservandoli da una prospettiva per forza di cose anacronistica, ma criticamente consapevole delle mediazioni tramite cui tali modelli sono stati ereditati e trasformati. Un punto di partenza possibile, tra i tanti a disposizione, lo suggerisce lo stesso Ginzburg: rileggere Ginzburg attraverso Calvino, e perché no, Calvino attraverso Ginzburg. Ma una prospettiva eccentrica altrettanto felice, per quanto eretica, emergerebbe probabilmente da un confronto tra Ginzburg e la letteratura popolare dell’Italia repubblicana: rileggere la storia del lupo mannaro Thiess attraverso Dylan Dog, rileggere Il giudice e lo storico attraverso Romanzo criminale, e viceversa. Certamente, non per dare adito a prevedibili gerarchie di valore, né per riproporre con un nuovo arrangiamento l’ormai sterile (in gran parte, grazie a Ginzburg) ritornello sulla qualità essenzialmente narrativa della scrittura storica: bensì, per guardare con occhi nuovi al valore storico della produzione culturale recente e per ricostruire i poli di un fitto dialogo interdisciplinare, tra alto e basso, ancora in moto.