Caro Jack, Caro Allen. Lettere dal mondo beat

16 Dicembre 2023

Secondo Truman Capote, Jack Kerouac «did not so much write, as type», non era proprio uno scrittore quanto, piuttosto, un dattilografo. Definizione velenosa, ma con un soffuso sottofondo di verità vista soprattutto la sterminata e maniacale produzione extra letteraria fatta di lettere, cartoline, biglietti, appunti, pizzini e quant’altro. Certo non mi sarei mai permesso di condividere un’asserzione del genere, neanche come battuta, con l’amica Fernanda Pivano: per lei i Beat erano famiglia. Anche se nel recente corposo volume che raccoglie circa trecento scambi epistolari tra Jack Kerouac e Allen Ginsberg (Lettere, 1944-1963, a cura di Bill Morgan e David Stanford, traduzione di Leopoldo Carra, pagg. 640, Mondadori 2023), l’affetto, o almeno il ricordo, non sembra essere corrisposto: fra le centinaia di amici, compagni, colleghi, partner, amanti, morosi, sodali che vengono menzionati in numerose occasioni, il suo nome spunta una sola volta, di sfuggita, in una corrispondenza del 20 giugno 1960 (pagina 569). 

Scrive Kerouac, dalla sua casa di Northporth, a Ginsberg: «Henri Cru in questo momento sta correndo qui da Genova per vedermi e raccontarmi tutto di Fernanda Pivano, la data che ho combinato con lei tramite lui, e questo richiederà mille ore di energia che sarebbero potute andare in solitarie visioni».

Per decifrare quell’accenno criptico di Kerouac a Nanda bisogna andare a scavare nei ricordi di lei (Diari 1917-1973, Bompiani) dove si scopre che in quel giugno del 1960, dopo aver partecipato a un ricevimento a casa di Giangiacomo e Inge Feltrinelli in onore di Henry Miller in transito a Milano, Pivano corre a Genova per incontrare quell’Henri Cru, marinaio elettricista, vecchio compagno di scuola di Kerouac, l’ispiratore del personaggio di Rémi Boncoeur di Sulla strada (ma non solo), che Jack voleva che lei incontrasse, «senza una ragione logica, senza spiegare il perché». Cru scrive infatti a Pivano: «Jack vuole che venga a dirle che sono Rémi. Non ho idea perché voglia che le dica questo, ma conoscendolo come lo conosco, deve avere qualche tipo di ragione mistica per farlo». E, al contempo, la informa che sarebbe arrivato a Genova il 15 giugno. 

I due si incontrano, si parlano, Cru le racconta di quale «croce e delizia» fosse la sua amicizia con Kerouac, si rivedono anche due giorni dopo a Milano, ma il motivo di quell’incontro? Forse, semplicemente, farle conoscere colui che gli aveva fatto da modello per uno dei personaggi di Sulla strada, azzarda Cru con (immaginiamo noi) una sconsolata alzata di spalle, prima di ripartire portando con sé le caramelle che gli dona Nanda, quelle che di solito mandava a Kerouac: «quelle della pasticceria Marchesi, di zucchero fondente, avvolte nella carta velina colorata e frangiata, le Nanda’s Panties».

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Coincidenze di vite beat

Il denso carteggio fra Kerouac e Ginsberg inizia a metà agosto del 1944 con il diciottenne aspirante poeta Allen che scrive al ventiduenne Jack (Cher Jacques), detenuto nel carcere della contea del Bronx perché coinvolto in un omicidio di cui è accusato il comune amico Lucien Carr, proprio quello che li aveva fatti incontrare sei mesi prima, dando così il via a un’amicizia che durerà tutta la vita, e alla nascita del movimento Beat. “Uno studente della Columbia ha ucciso l’amico David Kammerer [un “omosessuale psicotico”, un vero e proprio “stalker”, come venne definito dall’avvocato della difesa] e ha fatto affondare il suo cadavere nel fiume Hudson”, titolava il New York Times del 17 agosto, e spiegava altresì come il ragazzo, dopo l’omicidio, avesse “messo sassi e pietre nelle tasche e negli abiti del cadavere e spinto il corpo in acqua”. Kerouac, che aveva aiutato Lucien a liberarsi del coltello gettandolo in un canale di scolo, e passato insieme a lui il resto della giornata a ubriacarsi, fu arrestato come testimone materiale e possibile complice. 

Nella lettera, Allen accenna di sfuggita all’episodio e lo informa, con appassionato entusiasmo giovanile, soprattutto delle sue letture: Le anime morte di Gogol, imbevute di «tutta quella malinconica grandeur della Madre Russia, tutto il boršč e il caviale che ribollono nelle vene degli slavi, tutto l’etereo vuoto di quel possedimento senza prezzo che è l’anima russa». Poi lo informa che, per uscire dal malsano clima creato dall’omicidio di cui sopra (che definisce, con un’espressione simil-francese degna di Totò: recherché tempest fortunatement perdu), si dedica alla lettura di Jane Austen, e di Grandi speranze di Dickens, che ha ricominciato Cime tempestose della Brontë, e «mi sto sciroppando anche un quattro libri di storia alla volta».

Qualche giorno dopo aver ricevuto quella lettera, Jean-Louis “Jack” Lebris de Kérouac, sposa – lo stesso giorno della liberazione di Parigi, annoterà lui – la signorina Frankie Edith “Edie” Parker che era riuscita a farsi anticipare dal suo fondo fiduciario i cinquemila dollari per la cauzione del fidanzato, e farlo uscire di prigione. Per la cronaca Edie altri non era che la ex morosa di quell’Henri Cru di cui si accennava poc’anzi, quello che una quindicina di anni più tardi racconterà a una perplessa Fernanda Pivano la storia di quando, inopinatamente, aveva presentato la ragazza a Kerouac che se l’era presa e sposata, e dalla quale, troppo impegnato a crearsi il mito, si separerà due mesi più tardi (il divorzio sarà registrato dopo due anni) seppur rimanendone amico, e immortalando anche lei in Sulla strada. Coincidenze e percorsi di vite beat.

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«Stai zitto piccolo idiota»

Kerouac e Ginsberg si erano conosciuti nel marzo del 1944 nell’appartamento di Edie Parker a New York. «Allen entrò in salotto», rievoca Ann Charters, in Kerouac, A Biography (St. Martin’s Press, 1973), «e trovò Jack stravaccato sulla poltrona e, cercando di fare colpo, lo guardò con occhi neri e lucenti e gli confidò con voce profonda: “La discrezione è la parte migliore del valore”. Invece di trovare la cosa divertente, Jack rispose: “Oh, stai zitto, piccolo idiota”, e si voltò verso Edie urlando: “Ehi, ho fame, il pranzo?”». Avanti nel tempo, pentito del giudizio affrettato, scriverà a Allen: «Ti ho sempre considerato il mio fratellino, il mio piccolo petushka, anche se sei ebreo, perché sei come un fratellino russo».

In quell’anno i due amici si scambiarono solo un paio di missive. L’onda di piena epistolare comincia alla fine di luglio del 1945. «Alcune delle loro lettere sono epopee a interlinea singola incredibilmente lunghe, più lunghe dei racconti o degli articoli pubblicati», annotano i curatori Morgan e Stanford. «Ci sono biglietti di posta aerea pieni zeppi di parole, fino ai bordi, lettere scritte a mano su fogli a righe, pagine di minuscoli taccuini, vecchia carta intestata. Ci sono aggiunte scarabocchiate sulle buste con prolissi post scriptum infilati dentro».

Insomma, una sterminata valanga di corrispondenza da cui traspare il desiderio di romanzare le proprie vite parlandosi addosso, citandosi a vicenda, autocitandosi, calandosi in miti letterari (Cher Breton). «Le loro esistenze erano intense; parlavano all’infinito di come avrebbe dovuto essere la vita, di come avrebbero potuto sfuggire alla banalità. Erano irrequieti, eccezionalmente egocentrici. Registravano meticolosamente i loro pensieri, i loro sogni e le loro emozioni, come se fossero i primi ad averli mai avuti. Kerouac era tra i più prolissi, scriveva in maniacali sessioni notturne su risme di carta prese in prestito da una telescrivente», annota lo storico premio Pulitzer David Halberstam nella sua circostanziata ricostruzione degli aspetti culturali, sociali, politici, economici degli anni cinquanta (The Fifties, Villard Books, 1993). «Saranno stati anche scrittori, ma alla fine le loro vite tendevano a essere più importanti dei loro libri. Parlavano di una Nuova Visione, un’idea presa da Yeats, di una società di cittadini-artisti, in cui loro sarebbero stati i leader». 

E se Yeats osava prospettare un legame tra arte e vita – “una pietra filosofale dell’arte”, la chiama Elemire Zolla – Kerouac, Ginsberg, senza dimenticare il “terzo beat”, William Burroughs, ci si calavano dentro a man bassa. «Veneravano coloro che erano diversi, coloro che vivevano al di fuori del sistema e in particolare coloro che vivevano al di fuori della legge», è sempre Halberstam che parla. «Erano affascinati dalla vita criminale e credevano che gli uomini che erano stati in prigione avessero sperimentato l’essenza della libertà dal sistema».

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«Siamo diavoli e messaggeri celesti»

Ma cos’era questa Beat Generation? Le definizioni cambiano a secondo degli umori contingenti. L’American College Dictionary aveva descritto i suoi appartenenti: «giovani che ostentano distacco dalle convenzioni morali e sociali e dalle relative responsabilità». Ma la definizione non soddisfaceva Kerouac che, nel correggere le bozze di stampa, la cambiò in: «membri della generazione diventata adulta dopo la Seconda guerra mondiale e Guerra di Corea che si sono riuniti in un allentamento delle tensioni sociali e sessuali e adottano l’anti-irreggimentazione, i valori di una mistica dissociazione e di una semplicità materiale, teoricamente a causa del disinganno da Guerra fredda. Espressione coniata da JK» (24 marzo 1959).

Un paio di anni prima, sempre Kerouac, in un articolo, aveva definito la Beat Generation «rappresentante della Seconda Religiosità della Civiltà Occidentale professata da Oswald Spengler [il filosofo tedesco autore di Il tramonto dell’Occidente]», e i suoi membri «diavoli e messaggeri celesti» (9 agosto 1957).

In un caso o nell’altro sorvola sull’abuso di alcol e droghe – eroina, cocaina, hashish, marijuana, mescalina, peyote, LSD e sicuramente qualcos’altro – sperimentate in ogni possibile variante, raccontate con entusiasmo nelle loro opere, di cui, nelle lettere, si scambiano dettagliate informazioni, modi per reperirle, prezzi, qualità, effetti primari o secondari. Nonostante, talvolta, lo stesso Jack si lasciasse andare a confessare di volere tutto sommato una vita tranquilla, «ma con la bumba non ce la faccio proprio. Quando bevo sono molto infelice e ho degli incubi» (18 giugno 1954). 

Ma è soprattutto l’ayahuasca, lo stupefacente “religioso”, l’allucinogeno degli sciamani, conosciuto anche come yage su cui si sofferma soprattutto l’attenzione di Ginsberg che, nel frattempo in parallelo, dal 1953 al 1963, mentre lavora al suo poema l’Urlo, intrattiene sull’argomento un fitto scambio epistolare con William Burroughs che vaga in Sud America alla ricerca dello yage perfetto, dopo aver lasciato il Messico dove aveva appena ucciso (seppur accidentalmente) la moglie. Lo scambio epistolare è raccolto in Le lettere dello yage (Adelphi, 2010).

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«Marlon Brando è uno stronzo»

E poi in queste lettere non mancano i riferimenti alla religiosità buddhista di cui i due amici erano affascinati. Ginsberg si era avvicinato al buddhismo zen tramite gli scritti di Suzuki Daisetsu, vedendo in quella disciplina un rapporto con la tendenza alle libere associazioni di pensiero tipiche dello stile di scrittura spontaneo, ma è soprattutto Kerouac che, proprio negli anni centrali di questo epistolario, fra il 1953 e il 1956, non sapendo bene come passare il tempo, e nonostante si definisse “uno strano solitario pazzo mistico cattolico”, si tuffa euforicamente nello studio del buddhismo tenendo, nel contempo, una sorta di diario-manuale-sfogo di sapore futurista-dadaista che sarà pubblicato con il titolo Some of the Dharma (Mondadori, 2022; vedi qui la recensione). 

La vena buddhista di Kerouac si inaridisce all’improvviso, all’indomani della notizia che il suo agente letterario, Sterling Lord, aveva finalmente venduto alla Viking Press i diritti di Sulla strada. Da quel momento Kerouac il trasgressivo diventa Kerouac la star. Un suo ritratto con il ciuffo ribelle finisce sulle pagine di una famosa rivista di moda patinata come Mademoiselle (la stessa foto sarà, poi, usata nel risvolto di copertina del libro). Hollywood lo lusinga. Scrive a Ginsberg: «Hollywood si sta in qualche modo muovendo riguardo a Strada. Ho sentito che il manager di Marlon Brando è interessato» (1 ottobre 1957).

Kerouac è talmente eccitato dall’idea che, al diavolo gli agenti, salta tutti i passaggi istituzionali e scrive direttamente a Brando pregandolo di comprare i diritti del suo libro e farci un film («I’m praying that you’ll buy On The Road and make a movie of it»). Di non preoccuparsi se trova la struttura del libro complessa e arzigogolata, lui l’avrebbe semplificata. «Vedo già le splendide inquadrature della strada ripresa dal sedile anteriore». Gli avrebbe anche insegnato come recitare nei panni del personaggio principale. E, a proposito, conclude, sentiamoci presto perché «ultimamente sono annoiato e cerco qualcosa da fare. Forza Marlon, datti una mossa e scrivi». 

All’improvviso i soldi non mancano, soprattutto per alcol e erbe varie. È finito il tempo delle vacche magre. «Mi danno un sacco di soldi», scrive Kerouac «se non divento un alcolizzato stavolta non lo divento più. In realtà guardo a questa avventura con scetticismo, ma i soldi servono». Ciononostante Brando non si fa vivo. «Probabilmente Hollywood non comprerà il mio libro», si lamenta con Ginsberg. «Brando è uno stronzo, non risponde a una lettera del più grande scrittore d’America: è solo un insignificante buffone di corte delle scene: sono incazzato» (30 novembre 1957).

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