William Gaddis. L’agonia dell’agape

13 Dicembre 2011

L’agonia dell’agape (Alet edizioni, Padova 2011, 144 pp., Traduzione di Fabio Zucchella) è qualcosa di più di un capolavoro, è un tentativo di capolavoro. William Gaddis decripta in poco più di novanta pagine la sua ossessione per la “meccanizzazione delle arti”. Un lungo monologo ricchissimo di citazioni e spesso dichiaratamente autobiografico con cui Gaddis tenta di riappropriarsi della propria posizione di autore, un modo per tentare di esaurire la propria ossessione coltivata per più di quarant’anni: il tempo sfugge all’autore ormai destinato alla morte.

 

La voce monologante è quella di un vecchio scrittore ormai morente che tenta di riannodare i fili del discorso sdraiato su un letto d’ospedale circondato da appunti e ritagli raccolti nell’arco di una vita.

Nei ritagli risiede il germe, la struttura fondante di questa come di quasi tutte le opere di William Gaddis, regista spericolato ma grande montatore capace di trasformare teorie e cronaca in una struttura romanzesca che è l’unico sistema possibile per raccontare le sue storie. L’ossessione di Gaddis ha aspetti fortemente filmici. La concezione di ogni sua opera richiede l’allestimento di un vero e proprio set preparatorio fatto da scatoloni numerati: così Gaddis organizzava il materiale per i propri lavori.

 

Il ritaglio diventa in Gaddis materia mobile, mutevole, che da indizio si trasforma in una massa feroce e ingestibile in grado di fagocitare l’opera stessa. Gaddis non si accontenta di narrare, vuole cambiare le cose, proporre “passi in avanti”, mettere in crisi il sistema per migliorarlo. L’autore si trasforma nel custode di un archivio che in realtà avrebbe dovuto essere semplicemente materiale preparatorio di un’opera irrealizzabile, sempre più utopica coll’avanzare della sua preparazione. L’agonia dell’agape è una scesa a patti con il mondo, ogni pagina contiene altre pagine, i rimandi sono quasi infiniti, le citazioni nascoste sono centinaia; ma ogni pagina si regge in perfetto equilibrio, la lingua frenetica del monologo non concede pause, al punto che una prima lettura rifiuta di soffermarsi sulle note (contenute in http://williamgaddis.org/agape/index.shtml). La narrazione vince sul senso spesso sfuggente, non tutto è comprensibile lucidamente e in maniera diretta: testo e sottotesto s’intrecciano destando nel lettore una sensazione di straniamento esaltante frenata solo dalla fatica degli occhi in rapida fuga tra le righe delle pagine.

 

Forse uno degli ultimi grandi libri del Novecento L’agonia dell’agape - problematico, complicato e senza nessuna soluzione pronta - non concede tregua al lettore. Le sollecitazioni e gli stimoli aprono spazi in direzioni inedite, ma nessuna strada è tracciata in via definitiva. Il lettore, come l’autore, si ritrovano in un paesaggio immerso nella nebbia, serrati in un confronto continuo. Lettura e scrittura si legano come due modalità percettive sullo stesso piano: lo sguardo dell’autore non va oltre quello del lettore.

 

In questo caos di fine secolo Gaddis sta in mezzo ai suoi lettori: la quarta parete è abbattuta e la rappresentazione s’immerge tra gli spettatori e la loro realtà quotidiana. La pagina non contiene più solamente le frasi scritte, ma quelle comprese, immaginate. Un porto di scambio di parole possibili attorno ad un vociare sempre più distratto.

 

 

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