Racconti sentimentali e satirici / Zoščenko e il riso che fa paura
Può succedere che ci si avvicini a un testo e si pratichi la traduzione scegliendo liberamente un autore che amiamo e il cui mondo desideriamo far conoscere agli altri, e che questo autore ci tenga compagnia a lungo, senza vincoli temporali o scadenze di consegna. E così la traduzione matura, lasciando al traduttore il tempo per riflettere e rispondere agli infiniti quesiti che spesso si affacciano alla mente quando ci si muove fra due lingue e due culture, passando da un mondo artistico all’altro, prima di scegliere di percorrere le strade che, pur non potendosi mai considerare definitive, ci appaiono le più convincenti: come in una scacchiera, dove ogni scelta vincola l’altra, in un continuo spostamento mirato e ragionato in avanti, indietro, di lato, con movimenti di avvicinamento verso l’altro e poi di improvviso allontanamento; come scelte meditate e mediate, secondo quello che Jiří Levy vede come un processo decisionale.
Perché le traduzioni vivano è necessario però, così come per qualsiasi altra opera di comunicazione, che sia permessa la loro circolazione, che escano dal cassetto segreto e arrivino sugli scaffali delle librerie, mescolandosi ad altri autori e ad altre letterature.
Nel caso specifico dei Racconti sentimentali e satirici di Michail Zoščenko, usciti per Quodlibet (2020), il traduttore Sergio Pescatori – scomparso nel 2015 dopo aver insegnato lingua e letteratura russa in diverse università italiane – ha dedicato i propri studi, nel tempo, a Zoščenko, senza però riuscire a far fare l’ultimo passo alle traduzioni dei racconti dello scrittore. Con un gesto rispettoso e riconoscente verso il lavoro del collega, a questo hanno pensato i curatori dell’edizione italiana, Manuel Boschiero e Cinzia De Lotto, che a proposito del rapporto tra Pescatori e Zoščenko parlano non di un «incontro occasionale» ma «di un dialogo intenso e duraturo che nasce da un’affinità profonda» (p. 314). Il volume da loro curato è prezioso: non dev’essere stato semplice aprire il cassetto con le traduzioni dattiloscritte e talvolta manoscritte di una persona cara scomparsa e iniziare a fare ordine, mettendo mano in qualcosa di intimo e privato com’è ogni traduzione letteraria; e oltre al fattore emotivo, non dev’essere stato semplice soprattutto per questo: al carattere aperto e non concluso di questo lavoro di traduzione si somma il carattere analogo delle opere di Zoščenko, con le numerose riedizioni dei racconti, spesso sottoposti a stratificati interventi dell’autore e redazionali.
Il minuzioso confronto tra la traduzione di Pescatori – che sceglie di rifarsi, ovunque possibile, alla prima edizione – e le edizioni presenti nel suo archivio ha permesso ai due curatori di risalire alle edizioni utilizzate, come è testimoniato nell’apparato finale, che, oltre alla lista delle edizioni di riferimento, contiene una nota dei curatori, la cronologia della vita di Zoščenko e un articolato saggio di Pescatori dal titolo Significato di un nome.
Gli oltre cinquanta racconti tradotti in italiano permettono al lettore di conoscere un autore originale e unico nel suo genere, nonostante i frequenti accostamenti a Gogol’ (a lui, trapiantandolo in quella che definisce «nostra epoca di transizione, ai nostri modesti giorni», Zoščenko dedica il racconto Il compagno Gogol’), Leskov, Čechov (in particolare, aggiungerei, il giovanissimo Čechov dei raccontini umoristici degli esordi) e Bulgakov, in una linea narrativa che nel secondo dopoguerra porterà – come ricorda Guido Carpi – a Dovlatov e Venedikt Erofeev. Un autore unico, ripeto, perché all’inconscio collettivo di lunga durata si sommano sempre le storie psicologiche individuali, la condizione storica dello scrittore all’interno della società, il suo rapporto con il mondo mediato dalle ideologie scientifiche, filosofiche e religiose e dall’immaginario del suo tempo; e tutti questi tratti specifici hanno in Zoščenko caratteri marcati e originali.
Zoščenko nasce a San Pietroburgo nel 1894, e tenta il suicidio una prima volta nel 1913 (in seguito si dedica allo studio di Freud, bandito in Urss, per comprendere e curare la nevrosi che lo affligge); partecipa alla prima guerra mondiale, e l’attacco tedesco con i gas asfissianti gli compromette la salute. Cambia svariati lavori: ferroviere, funzionario delle poste, cacciatore, telefonista, contabile al porto militare. Dal 1919 iniziano le sue frequentazioni dello Studio diretto da Čukovskij all’interno della casa editrice fondata da Gor’kij «Vsemirnaja literatura». Poi partecipa al gruppo «Fratelli di Serapione» e comincia l’attività di scrittore (prolifico) di racconti, proseguendo con testi per il teatro e tentativi di sceneggiature per il cinema. La «critica sussiegosa», tuttavia, a mano a mano che si consolida la fama di Zoščenko in patria e all’estero già nella seconda metà degli anni Venti, prende di mira la sua scrittura umoristica e satirica, che ha il suo perno nel ventre della società russa formatasi all’indomani della rivoluzione bolscevica: Zoščenko continuava a far ridere e a godere di un’ampia cerchia di lettori, ma di criticabile oramai, secondo l’ideologia totalitaria, non ci doveva essere più nulla. A questo proposito, Pescatori in Significato di un nome afferma: «Ma per un potere intollerante il solo fatto di ridere, non importa perché, è di per sé già altamente sospetto» (p. 334).
Il culmine degli attacchi verrà raggiunto più tardi, nel 1946, quando Zoščenko è escluso dall’Unione degli Scrittori, privato della tessera annonaria, emarginato dai giornali e dai teatri con i quali collaborava attivamente. Lo scrittore, costretto a tacere, si guadagna da vivere lavorando in un laboratorio di calzature e come traduttore. Dopo la morte di Stalin, a differenza di Achmatova, rimane fedele alla libertà della propria coscienza e non riconosce la fondatezza dei provvedimenti presi contro di lui. All’inizio della breve parentesi del Disgelo chruščeviano, le condizioni di salute di Zoščenko sono compromesse; non riesce più a scrivere e muore nel 1958.
La goccia che fa traboccare il vaso è la pubblicazione di Le avventure d’una scimmia, l’ultimo racconto dell’edizione italiana, in cui i testi sono disposti in ordine cronologico ad abbracciare un arco temporale che inizia nel 1922 e si conclude nel 1946. Non si può fare a meno di restare increduli, ancora una volta, di fronte all’irrazionalità di un sistema che trovava appigli assurdi per esercitare in modo spietato la sua repressione. In questo caso, si diffusero interpretazioni cervellotiche della storia di questa simpatica scimmia che scappa dallo zoo in seguito a un bombardamento e inizia a combinarne di tutti i colori, fino ad approdare, dopo varie peripezie, tra le braccia del suo primo padroncino, che riesce a educarla. Evidentemente il tema della rieducazione finale non era sufficiente a sollevare i sospetti da alcuni riferimenti ritenuti inaccettabili, come l’alcolismo o le ruberie, nemmeno se a compierle era una scimmia.
In apertura, invece, ci sono i racconti dell’antieroe eponimo Nazar Il’ič signor Sinebrjuchov. Fra questi, leggiamo Una storia di alta società, in cui il cambiamento repentino della realtà seguito alla rivoluzione di febbraio è raccontato attraverso le divertenti avventure del protagonista, mandato dal comandante di Compagnia a cercare il padre, un vecchio principe, per consegnarli una lettera. Quando lo trova, aiuta il vecchio a nascondere i suoi averi nel ricovero delle oche. Sinebrjuchov torna poi alla base, ma l’esercito non c’è più; del comandante si sono perse le tracce; e viene aggredito da sconosciuti che minacciano di fucilarlo. Per rabbonirli, torna con i suoi aggressori sul luogo dove è nascosto il tesoro, ma anche quello è oramai introvabile. Morale della favola: Sinebrjuchov viene condannato a un anno dal commissario sovietico.
Nel mondo di Zoščenko, i personaggi escogitano di continuo qualche stratagemma pur di guadagnarsi due «quattrini»: il denaro può servire per conquistare una donna, come nel caso di Ljal’ka Cinquanta, oppure per sbarcare il lunario nel caso del mendicante disoccupato che ogni venerdì batte cassa chiedendo l’elemosina al narratore-scrittore, arrivando alle minacce quando il creditore stesso ha esaurito il denaro; e ancora è il caso del sospettoso “capocaseggiato” Konjučkin in Carnevale allegro, che, conquistato dalle giovani inquiline di un appartamento sospetto e dalle loro squisite frittelline, viene poi da loro ricattato.
In Non bisogna avere parenti, che ricorda un raccontino čechoviano del 1883 dal titolo Dramma dal barbiere, uno zio pretende di non pagare il biglietto del tram dopo aver riconosciuto il nipote nel bigliettaio. Il giovane però non è disposto a commettere imparzialità, dato che il tram non è mica suo, «è dello stato. Il tram. Del popolo» (p. 132). E così lo zio, indignato, preferisce scendere piuttosto che pagare. La sua frase conclusiva «Io ti posso fucilare per questo. Ho molti agganci…», rappresenta quel tratto peculiare del nuovo assetto ideologico e il clima di terrore che in quegli anni si stava definitivamente configurando.
Le posizioni si ribaltano facilmente e la spietatezza domina nella sua fredda imparzialità, sebbene talvolta dietro l’aggressività e i comportamenti furbeschi si nasconda il tentativo sincero d’instaurare un rapporto umano con l’interlocutore.
Fanno parte della raccolta italiana anche due delle otto Novelle sentimentali scritte a partire dal 1923: La capra e Saggezza. Nel primo racconto, Zabežkin vuole conquistare una donna avvistata sulla prospettiva Nevskij; la insegue e scopre che possiede una capra. Questo bene e il desiderio di impossessarsene fanno perdere il senno a Zabežkin, ma la capra, in realtà, è di un altro. Quando lo scopre è troppo tardi: ha perso il lavoro, da cui si è assentato per troppi giorni, e viene cacciato via malamente dalla donna. In Saggezza un uomo torna a vivere dopo aver passato undici anni in solitudine, ma la morte lo coglie proprio nel giorno della festa da lui organizzata. Gli ospiti arrivano e, come niente fosse, totalmente indifferenti alla morte dell’amico, se ne vanno, ma non prima d’aver arraffato un po’ di salmone o di altro cibo dalla tavola imbandita.
E ancora si susseguono storie brevi sulle abitudini dei «compagni cittadini», ritratti in una quotidianità delirante e contradditoria, con personaggi strampalati, in cui si cerca in ogni modo di compiere qualche illegalità con risvolti per lo più distruttivi; l’infrazione però non riguarda solo i contenuti e i comportamenti umani: in Zoščenko questo mondo storto ha un riflesso peculiare nella lingua usata, fatta di parole corrotte, parole-mostro, secondo la definizione di Marietta Čudakova, usate a sproposito e fuori posto. In Io, i critici e il mio lavoro (1928), sorta di testamento in cui Zoščenko si proclama «parodista dello scrittore proletario» o, a seconda dei casi, dello scrittore intellettuale del suo tempo, spiega così i suoi artifici linguistici e stilistici: «perché voglio trasmettere il tipo che mi è necessario» (p. 223), e conclude: «Io scrivo molto concisamente. La mia frase è breve. Accessibile ai poveri. Forse è per questo che ho tanti lettori» (p. 226).
Lo skaz di Zoščenko, accentuato nei racconti brevi e mitigato nelle Novelle sentimentali, richiede al traduttore un grande lavoro per non scivolare nel calco, affinché le infrazioni russe non siano neutralizzate ma trovino una loro vita, la più autentica possibile, nella lingua italiana.
A proposito della traduzione di Pescatori, i curatori utilizzano termini quali «inventiva, ingegnosità, originalità, godibilità», riconoscendo il giusto valore a una traduzione al contempo scrupolosa nella sua inventiva e appassionata, il cui merito non ultimo è anche ricordarci quanto il tempo ci possa essere amico se sappiamo farne buon uso.