Speciale
25 aprile | Cosa significa resistere, cosa significa ricordare
È il 1968 quando esce La Beltà di Andrea Zanzotto. I muri del mondo, in quei mesi, sono pieni di scritte che rappresentano, e insieme performativamente sono, la rivoluzione in atto. Durerà poco, quel momento di sospensione e trascendentale rilancio della storia; ma ciò non toglie che sia stato (lo dimostra il fatto che fa ancora incazzare tanta gente). E in effetti le scritte sui muri – attraverso le quali, aveva profetizzato Lautréamont, un giorno saremmo stati tutti poeti – non cessarono allora di esistere. Sono rimaste un luogo simbolico e performativo di grande importanza, nella formazione e nella vita politica delle generazioni più giovani; nonché, a ben vedere, un efficace tramite di memoria intergenerazionale. Cioè di storia.
In quel libro atroce e sublime di Zanzotto – il più importante, se non il più bello, della nostra poesia contemporanea – si rincorrono non a caso diciotto grandi poesie-tableaux che recano il titolo complessivo di “Profezie o memorie o giornali murali”; poche pagine prima, invece, si legge un grande componimento dal titolo “Retorica su: lo sbandamento, il principio-‘resistenza’”. I bagliori corruschi delle guerre civili di venticinque anni prima si sovraimprimono a quelli bituminosi del Napalm che brucia all’orizzonte, a Oriente; e il “principio resistenza” (mutuato, spiega il poeta, da quello speranza di Ernst Bloch) illustra proprio come la storia brilli in quelle che Walter Benjamin aveva chiamato “immagini dialettiche”: sovrapposizioni, sovrimpressioni di figure diverse che insistono sugli stessi luoghi, geografici o psichici. La macrostoria che produce “retorica” – cemento linguistico di cui necessita qualsiasi comunità – si ricapitola così in mille rivoli di microstorie, e viceversa. L’ontogenesi dell’evento, la filogenesi della memoria.
Davvero il “principio resistenza” è un’immagine dialettica. Sovraimprime il presente al passato, ne fa sprizzare scintille. È un esempio di quella che più di recente il grande filosofo Paul Ricoeur ha chiamato “rimemorazione”. Se commemorare il più delle volte è un atto retorico (nel senso più deteriore), un rituale istituito e non davvero sentito, in definitiva il manifestarsi di un’ipocrisia collettiva, rimemorare significa al contrario rifare presente l’essere stato nel passato o, diciamo, l’esserci stato: ed è attraverso la passione dei luoghi – nei quali la memoria è di una situazione, non di un avvenimento – che si aziona il cortocircuito decisivo. Non può essere inteso come una generica, ancorché condivisibile, posizione etica collocata nell’oggi. Non è insomma una citazione, l’omaggio reverenziale (o il re-enactement meramente spettacolare) di una Resistenza di ormai quasi settant’anni fa. Deve invece raccogliere almeno uno dei testimoni, concettuali e pratici, di quelle staffette.
E quello che oggi pare più aperto al futuro riguarda proprio l’essere situato del nostro agire. I partigiani difendevano un ideale di libertà ma anche un territorio concreto, che apparteneva a una geografia fisica e insieme morale: il “pathos dei luoghi”, visceralmente affettivo ma anche concretamente logistico, di cui ha parlato Gabriele Pedullà nella sua antologia di Racconti della Resistenza, non a caso, geograficamente ordinata. Proprio presentando questo libro, a Pieve di Soligo il 25 aprile 2005, ascoltai il vecchio Zanzotto ricordare un proprio racconto-apologo ivi compreso e risalente a dieci anni prima, 1944: FEIER. Il titolo riproduceva una grande scritta a carbone nero tracciata sul muro di un casolare da un contadino veneto: il quale così s’era tatuato quel tempo e quel suono, con le proprie mani aveva inciso quel trauma a futura memoria. Ma, diceva Zanzotto, passato poco tempo prima da quel casolare, con amarezza aveva scoperto che la scritta era stata cancellata.
La stessa cosa è accaduta qualche anno fa nel quartiere romano dove ho studiato per tanti anni, San Lorenzo: sul muro scrostato di uno degli edifici bombardati nel luglio del ’43, e mai restaurati completamente, a lungo s’era letta, vergata a lettere cubitali, la scritta EREDITÀ DEL FASCISMO. Per gli studenti della mia generazione quel “monumento involontario”, come ha definito quelli di questo genere Sandro Portelli, ha costituito un monito di forza straordinaria. Ma qualche anno fa l’ossessione gentrificante della giunta Veltroni – proprio mentre con sussiego inaugurava Case della Memoria e della Storia – ha pensato bene di stendere, su quel muro, una mano d’oblio.
La performance-installazione della giovane artista torinese Paola Monasterolo, Lettere da un fronte, cortocircuita in una scritta-immagine potentemente dialettica, in un singolo gesto iconico di straordinaria efficacia, tutti questi stimoli concettuali. Che riesce a tradurre in un grandissimo impatto emotivo. Sui muri del cortile del Museo Diffuso della Resistenza di Torino, a Corso Valdocco 4/A, questa mattina alle 11.00 si potrà leggere in formato gigante il finale di una delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, quella spedita dal ventitreenne Pietro Ferreira ai compagni del Partito d’Azione di Torino il 22 gennaio 1945, alla vigilia della sua esecuzione da parte dei fascisti della R.S.I. È una lettera di sorprendente serenità, dal tono di grande fermezza e lucidità, che però nel finale s’impenna in una lampeggiante immagine del futuro: “Tra poco le armate alleate spezzeranno l’ultimo baluardo difensivo tedesco, anche l’Italia tutta verrà liberata e terminerà per voi questo lungo periodo di lotta cospiratoria che tanto ha assottigliato le vostre file; e allora sarà per voi la vita, l’aria, la luce, il sole, la gioia di aver combattuto e di aver vinto e l’esultanza della libertà raggiunta...... siate felici..... Addio... un abbraccio a tutti vostro Pedro”. L’Italia liberata, oggi lo sappiamo bene, quel futuro d’aria e di luce non lo conoscerà mai davvero. Ma quell’aria e quella luce sono state: una sera, a Torino, nella mente e nella lingua di Pedro.
Paola Monasterolo ha scelto di gigantografare queste righe utilizzando una tecnica particolare, desunta dai racconti dell’ex partigiano Enzo Pettini, il quale ha rievocato una forma di resistenza che, seppur minima, ha lasciato tracce nella memoria orale e sui muri di alcune case del quartiere operaio di Borgata Vittoria. Su questi muri slogan antifascisti venivano scritti da donne e bambini impiegandoun particolare inchiostroottenuto lasciando a mollo la calce spenta nell’olio di motore. E durante la giornata di oggi il pubblico verrà coinvolto in un canto collettivo da Marco Testa, e sarà invitato a proseguire e completare con le proprie mani il decoro murale.
È significativo che il Museo della Resistenza, qui a Torino, si definisca “Diffuso”; così come che il progetto d’arte per lo spazio pubblico che ha promosso il lavoro di Monasterolo si chiami “SITUA.TO”. Appunto situati, ce ne rendiamo sempre meglio conto, sono tutti i movimenti politici che negli ultimi tempi hanno assunto significato e valore: da Occupy Wall Street a No TAV al Teatro Valle. Tutti incentrati su un luogo, un sito storico e simbolico che si fa segno di riconoscimento: proprio perché tutti noi, nel nostro quotidiano, subiamo la virtualizzazione della nostra esistenza in non-luoghi telematici nei quali s’è da tempo polverizzata qualsiasi idea di società. La sfida di questo spatial turn anche politico sta allora nel trascendere la miseria di un localismo identitario – che ha prodotto negli ultimi vent’anni più o meno gravi catastrofi politiche, dalle carneficine balcaniche alla fiera dell’intolleranza dei leghisti – per elevare questa concretezza di situazione a paradigma idealmente universale. Questa sfida del pensiero e della volontà ha un nome: si chiama politica.