Affinità e divergenze tra il compagno Civati e noi

3 Marzo 2015

L’ultimo libro di Pippo Civati (Il Trasformista, con prefazione di Stefano Bartezzaghi, Indiana 2015) batte sin dall’incipit sulle due dimensioni fondamentali che compongono il fenomeno del trasformismo: quella politica e quella spettacolare. Anzi, proprio la dimensione spettacolare è messa in risalto come matrice di quella politica. La formidabile figura di Leopoldo Fregoli, nota attrazione Fin de Siècle e Houdini nostrano capace di cambiare abito a velocità impensabili, dà al libro un tocco di ironica “retromania”, in linea con l’immagine del suo autore: giovane dissidente velatamente hipster. Il passaggio dal Leopoldo alla Leopolda rappresenta un salto temporale da un passato mitico, burlesco e protospettacolare, al laboratorio sfavillante e ipermoderno della nuova politica, in cui però la vocazione trasformista pare mantenersi immutata. La seconda dimensione, quella politica, è esplorata attraverso lo sguardo dello storico Giovanni Sabbatucci, ma anche del Carducci che storico non è ma qui viene usato a mo’ di Nostradamus, con i suoi versi che sembrano alludere al nuovo trasformismo di Matteo Renzi, ancor più diabolico e turbolento di quello depretisiano.

 

 

Se il punto di vista degli storici ha raccontato tale fenomeno come un vizio squisitamente nazionale, Civati lo ascrive specificamente alla sinistra, e ancor più a quella sinistra che da un periodo relativamente recente ha smesso di fare la sinistra, sforzandosi d’inseguire una modernizzazione: che è solo un modo diverso per raccontare valori e pratiche intrinsecamente “di destra”. Tale aspetto è reso ancor più antipatico dalla sostanziale asimmetria tra destra e sinistra nel senso che, se la sinistra fa di tutto per diventare destra, alla destra basta e avanza rimanere ciò che è (p. 23). L’autore passa in rassegna le fasi dolenti della storia recente in cui la sinistra s’è sostanzialmente alienata da se stessa (p. 25), rinunciando alla sua matrice ideologica ma anche banalmente a un orizzonte etico o semplicemente di buon senso: dall’alleanza con il centro “per sconfiggere Berlusconi” all’accettazione supina della cosiddetta “agenda Monti”; dal voto del pareggio di bilancio in costituzione al crack elettorale del 2013 dovuto all’ascesa del Movimento 5 Stelle; per chiudere con la questione giustizia su cui non è ancora chiaro se “la sinistra ha perso più voti per avere difeso i magistrati (molto tiepidamente) o perché ha avuto suoi autorevoli esponenti tra gli imputati” (p. 25). La rinuncia della sinistra italiana a voler occupare una posizione netta, riconoscibile e alternativa alla destra è stata preparata nel corso dell’ultimo ventennio e ha condotto al partito del “tutti dentro”.

 

Civati recupera e cita ampiamente un articolo di Nadia Urbinati secondo cui la sostanziale depoliticizzazione della visione “da sinistra” e il conseguente orientamento verso temi e fette di elettorato tipicamente di destra, ricorda il modello Macy’s: i grandi magazzini americani in cui merci provenienti da ogni dove sono esposte nel medesimo spazio omogeneo e impersonale che annulla la “tensione competitiva” (p. 35) tra gli stessi produttori ma anche tra venditori e consumatori, mentre il consumo scivola in uno spazio liscio e aproblematico. Allo stesso modo il partito del “tutti dentro” sarebbe in grado di fondere le rappresentanze e di confondere l’elettore, lasciandolo partecipare al gioco della politica in maniera acritica. Sebbene personalmente condivida un simile approccio che lavora sui punti di contatto tra politica e consumo, considero il modello Macy’s troppo antico e troppo condizionato dalla società e dai consumi di massa per poter rendere conto di un fenomeno tanto complesso quanto profondo e attuale quale è il renzismo. Come ho evidenziato altrove, molto più che il grande magazzino, il brand è il dispositivo di comunicazione che consente di glissare la fattualità, gestire la molteplicità e di dare senso all’incoerenza.

 

Secondo Civati anche il blairismo non è un modello adeguato a rappresentare il renzismo che lo indica come un riferimento autorevole solo per mascherare dietro la sbornia di “anglicismi” e di celebrazioni del “new”, un progetto gattopardesco e tradizionalmente italico: la fondazione di una nuova DC 2.0. Questo è il tanto deprecato “partito della nazione”, da altri chiamato “partito calamita” per la sua capacità di spaccare e attrarre componenti delle formazioni limitrofe, dunque quanto di più distante dalla logica del cambiamento, di critica alla gerontocrazia e alle incrostazioni metaburocratiche che avevano contraddistinto il renzismo ascendente.

 

 

In un certo senso l’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica, che non poteva essere indicata nel libro scritto prima di tale evento, confermerebbe la tesi dell’autore sul riaffiorare in forma palese e non più latente della vecchia balena bianca. Tuttavia la ricaduta politica di tale scelta va nella direzione contraria, incrinando il fantomatico “patto del Nazzareno” e facendo zoppicare alcuni tavoli su cui il renzismo modulare tentava di giocare le partite del governo e delle riforme.

 

La nuova “pappa monopolare” (p. 41) in cui si fondono visioni, interessi e appartenenze, dimostra una duplice proprietà: da un lato include e stempera ogni conflitto provando prima o poi ad accontentare le istanze che provengono dalle sue diverse anime, dall’altro invece esclude drammaticamente chi non aderisce al suo disegno. Cosicché al partito del tutti-dentro corrisponde mestamente il “partito del tutti fuori”, di coloro a cui è rifiutato il diritto al dissenso, su un modello che si avvicina, anche se non completamente, alle espulsioni del Movimento 5 Stelle. Di particolare interesse sono le pagine dedicate al problema chiave della “coerenza” che l’autore interpreta più come requisito etico o deontologico del politico, ma che riguarda anche le strategie di comunicazione e di gestione dell’identità pubblica e spettacolare del politico. In un regime comunicativo in cui le “parole diventano il loro contrario”, la coerenza perde la funzione di requisito su cui si basa la rispettabilità e l’affidabilità del leader politico. Dal momento in cui la reputazione da valore e dote della società borghese si è trasformata nella più anglofila reputation, lo stesso cambiamento di posizione, continuo e inarrestabile, può essere considerato come un elemento positivo. In questo “caos organizzato” (p. 45) tutto diviene “lasco” o ancora meglio “fuzzy” (p. 47), come ad esempio la metamorfosi nazarena in cui alchemicamente assistiamo alla “trasparenza che diviene segretezza” (p. 56).

 

Questi squisiti riferimenti alle teorie della complessità, che si sovrappongono a un impianto analitico classico, mostrano una notevole preparazione dell’autore ma indicano anche un limite dal punto di vista della riflessione e dell’azione politica. La volontà di contrapporre al finto cambiamento del trasformista la forza di una metamorfosi che (ancora) non c’è, ovvero “la trasformazione” (p. 58). Come anche, rispetto alla leadership, il tentativo di esplorare e criticare il “nuovo” cercando di svuotarlo del suo stesso significato, ovvero contrapponendogli un altro nuovo, sempre giovane, carino e preoccupato, ma non così cinico e disposto a tutto per perseguire le proprie ambizioni di potere. Tutto ciò andrebbe perseguito recuperando non solo il buon senso ma addirittura il principio di non-contraddizione fino a “pretendere il superamento dei plastismi, a volte servendosi dei requisiti minimi della logica aristotelica” (p. 101). Questa andrebbe poi conciliata con un pensiero della differenza per dare nuovo smalto alla funzione del “pensiero critico” (ib.), nella direzione d’una netta rottura con il modello culturalmente dominante della politica postmoderna (quando in realtà la Santa Alleanza tra Aristotele, Marcuse e Judith Butler è essa stessa un progetto postmoderno).

 

Indossando l’elmo di un aspirante Perseo, Civati vorrebbe tagliare la testa alla medusa nel tentativo di ritrovare “qualcosa che rimetta in moto il dibattito, che ridia fiato alle voci che hanno perduto ascolto, che riapra una battaglia di idee e una vera dialettica politica” (p. 103). Nel confronto tra la decostruzione al potere e il recupero del senso (della dialettica, della differenza, della critica) di una sinistra che torna a essere se stessa, solo un termine resta tagliato fuori dal libro come anche dall’orizzonte degli eventi della politica contemporanea. Un termine abusato come un mantra dall’avversario di Civati, che suona come trasformazione ma che, a volerlo usare in senso pieno, indica molto più che una semplice mossa tattica… si chiama rivoluzione.

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