Anteprime / "Un paese in ginocchio" di Luca Scarlini
Che cosa hanno in comune gli italiani, dal Piemonte alla Sicilia, dal Molise alla Sardegna? Il cattolicesimo. Nel suo ultimo libro, Un paese in ginocchio (Guanda, pp. 152, € 13, in libreria dal 31 marzo) di cui presentiamo qui in anteprima un capitolo, Luca Scarlini parte dal fatto che, lo vogliano o no, gli italiani non possono non dirsi cattolici. Il saggista e drammaturgo fiorentino ci racconta, attraverso una serie di esempi, parlando di sesso e religione, di senso di colpa e cultura vittimale, di politica e società, in che modo l’identità italiana si sia fondata, e ancora si fondi, sulla forma esteriore della religione, che è per gli abitanti del Bel Paese una pratica prima ancora che una fede. Scarlini ricorre a una scrittura corrosiva, ironica e sarcastica, attenta ai dettagli, polemicamente sapiente. Come nei libri precedenti, vi racconta storie che ha recuperato da recessi ignoti, grazie dalla sua onnivora curiosità di lettore bizzarro e coltissimo. Il suo metodo consiste nel mettere insieme aspetti solo in apparenza distanti e irrelati, facendoli dialogare attraverso la propria spumeggiante scrittura. Alla pari del libro precedente, Sacre sfilate (Guanda 2010), vero excursus sulla moda d’Oltre Tevere, e primo tassello di un’epopea antivaticana, anche questo lo si legge tutto d’un fiato, trascinati dalla vis polemica e dal modo inatteso di palesare mediante l’umorismo la propria disdetta verso un paese che è immorale nel profondo, lo sa e se lo nasconde. Anticipiamo qui le prime pagine dell’introduzione.
La storia d’Italia è legata in modo inestricabile a quella della chiesa di Roma. No, più esattamente e fuori di ogni equivoco: la storia della chiesa è a tutti gli effetti la storia d’Italia, visto che in sostanza alla sua ingombrante presenza si deve la peculiarissima, e spesso non felice, situazione nelle vicende e perfino nella geografia del Belpaese, che da sempre ha con il santo soglio una relazione esclusiva, tormentosa e soffocante. Ciò vale tanto nei momenti di perfetto accordo (non moltissimi sul filo dei secoli), quanto nelle fasi di scontro frontale con il corpo della nazione, come è stato evidente a tutti i viaggiatori stranieri, perplessi di fronte a uno stato delle cose in cui gli “uomini con la gonna” sono stati alla fin fine il baricentro dell’esistenza. Una realtà evidente nelle moltissime opposizioni su fatti singoli o su una generale concezione del mondo, secondo dinamiche esplose nelle infinite diatribe di guelfi e ghibellini che hanno insanguinato l’Italia per secoli, durante il Risorgimento, al tempo dei referendum sul divorzio e sull’aborto negli anni Settanta, o in altri momenti nevralgici della storia di uno stato che proprio non ce la fa, se non a prezzo di lotte spietate e per tempi brevi, a diventare laico. La vita, in Italia, resta sempre squisitamente cattolica, in ogni suo aspetto, anche quando meno ce lo aspettiamo, e questo viene dimostrato perfino da parte di chi si dichiari ateo, comunista o positivista fanatico, o addirittura invasato del primato della scienza.
Eredi unici dell’Impero Romano, secondo la ormai classica lettura, benissimo ripercorsa da Paolo Prodi ne Il sovrano pontefice (1982), i papi ne hanno perpetuato non poche tradizioni e cerimonie e hanno conservato vivo il senso di potere assoluto che da quella struttura promanava. I pontefici hanno sempre avuto tutto l’interesse a tenere il paese dove il sì suona, bello quanto problematico, litigioso quanto inventivo, separato in blocchi tra loro non coesi, gestendo il proprio potere come ostacolo a qualsiasi unificazione, che non fosse sotto il vaticano comando. Malgrado i sogni di un dominio assoluto, l’idea cesaropapista fu infine destinata a infrangersi, soprattutto per intervento delle potenze straniere che si divisero la penisola, ma restò un chiodo fisso per il santo soglio, fino ad oggi. Lo dimostrano le opere di tanti apologeti, i quali avrebbero voluto i cittadini come altrettanti chierichetti ubbidienti al padre loro, che ovviamente non può non volere il bene del popolo e della nazione, purché l’uno e l’altra preghino in buon ordine.
Il potere temporale ecclesiastico, come è noto, riposa su una documentazione traditrice, opera fittizia il cui svelamento è a tutti gli effetti la gloria dell’Umanesimo. Le parole di Lorenzo Valla ne La falsa donazione di Costantino (1440) pesano come un macigno e riassumono magistralmente i termini della questione. “Io sostengo che non solo Costantino non concesse tante possessioni, non solo il pontefice romano non poté tenerle per prescrizione, ma che anche se fossero vere l’una e l’altra cosa, tuttavia entrambi i diritti sarebbero estinti per via dei misfatti dei possessori, quando vediamo che la rovina e la devastazione di tutta l’Italia e di molte province è fluita da questa unica fonte”. Un verbo chiaro e trasparente, di cui nessuno ha mai messo in discussione l’autenticità nemmeno nelle sacre stanze, eppure tutto si è sempre svolto come se quella citazione antica fosse un dettaglio improbabile e in fondo insignificante, che dava soltanto, caso mai, un po’ di pepe a qualche discussione oziosa sul potere della fede. Non molti, del resto, hanno messo in discussione la liceità del dominio assoluto del santo soglio, ribadendo anzi il potere, incontrovertibile nella forma per quanto spesso mutevole nella sostanza, di quello che Gregorovius chiamava lo stato-tempio, indiscutibile perché portavoce di Dio. Già Guglielmo d’Ockham, anticipatore dell’empirismo e sempre in prima linea contro il prepotere della chiesa di Roma, aveva messo i puntini sulle i. Dopo essere fuggito insieme ad altri francescani da Avignone, riparando presso l’Imperatore in cerca di protezione, nel suo opuscolo An Princeps (1339) scrisse: “Nego che il Pontefice abbia un’autorità assoluta in ambito temporale e spirituale”, aggiungendo che tale pretesa avrebbe potuto essere tacciata anche di eresia rispetto al dettato evangelico.
La sacra corona di Pietro viene vista dai religiosi comunque con occhio teologico, al di fuori delle consuete responsabilità terrene del governo. In sostanza a essa non spetta rendere conto delle proprie azioni, che sono sempre motivate ad maiorem gloriam Dei. Come puntualizza in modo autorevole Franz Overbeck, amico e biografo di Nietzsche, nella sua conferenza acutissima su Le origini del monachesimo (1867), la brama di potere e di vantaggi materiali è stata una costante della vicenda cattolica dall’inizio e uno dei suoi punti di maggiore forza e debolezza allo stesso tempo. “Che il clero non offrisse sufficienti garanzie di essere in grado di resistere alle tentazioni connesse con la trasformazione della chiesa da perseguitata in dominante dello stato, ce lo dimostra in modo molto efficace la mancanza di dignità tristemente esibita nel momento in cui numerosi vescovi cristiani si gettarono tra le braccia di un despota geniale, ma del tutto privo di scrupoli, come Costantino”. Le proteste francescane al tempo misero i semi di una contestazione a largo raggio destinata ad avere impatto nei secoli seguenti, nel vasto quanto frammentato disegno della Riforma, in cui confluivano vari filoni di protesta eretica antiromana.
Lutero, al tempo delle ricerche di Valla, era infatti già nell’aria, la contestazione alla chiesa sempre più frontale. Essa si era originata, in definitiva, proprio nelle molteplici radici di dissenso che dichiaravano il bisogno della povertà in ecclesia, ritornando a un mondo di maggiore spiritualità. Stava per giungere in Italia la devastante rivelazione delle teorie di Bernardino Ochino, che decise infine di fuggire presso Jean Calvin a Ginevra, dopo che le sue prediche avevano attratto l’attenzione dell’Inquisizione. Erano in circolazione anche gli scritti di Juan de Valdés, pubblicati per volontà della bella Giulia Gonzaga Colonna, ma nessun cambiamento valse a mutare l’assetto della chiesa romana, malgrado il protestantesimo e le guerre di religione. Anzi, le volontà tridentine non fecero che ribadire come unica legge possibile l’assoluto privilegio papale, insieme al suo compagno inseparabile l’arbitrio, quando non anche il capriccio. In azione era una volontà evidente di cancellare i nemici con un tratto di penna, quando non di spada, mentre la corruzione nell’amministrazione pontificia regnava proverbialmente sovrana. Il disastro apocalittico per lungo tempo vaticinato in un intenso movimento di profezie e visioni si avverò infine con la calata dei lanzichenecchi e la violenza del Sacco di Roma nel 1527. Eppure, nemmeno questo epocale evento sanguinoso fece mutare stile, al contrario esasperò le posizioni della chiesa. Il dogma dell’infallibilità del pontefice giunse molto più tardi, quando Pio IX nel 1870, con l’arrivo dei Savoia, era ormai solo papa e non più re e aveva addobbato a nero i suoi possedimenti, come disperato colpo di coda per ribadire un concetto di sovranità almeno nell’immaginario, visto che la realtà decisamente lo tradiva. Tanto nessuno ha mai messo in discussione culturalmente in modo radicale un’autorevolezza pontificia che la storia ha di per sé invece messo mille volte in crisi.