Fase 2 / Italia, Pronti via!
L’Italia riparte. Il 4 maggio è il momento della “riapertura” o come scrive un grande quotidiano, della “ripresa”. Ripresa di cosa? Della vita di tutti i giorni? No, quella ancora non c’è. Ma almeno si può uscire di casa, per varie e giuste ragioni: lavoro, parenti, necessità mediche, eccetera. Riapertura? Non del tutto. Scuole e università chiuse, tanti negozi ancora serrati, molte attività in attesa di ricominciare. Abbiamo chiesto ad alcuni dei redattori, collaboratori e amici di doppiozero di raccontare brevemente com’è andata in questa giornata di maggio. Le risposte sono ordinate per città, dalle grandi metropoli ai piccoli paesi, là dove vive gran parte della popolazione italiana, realtà che abbiamo raccontato in uno speciale e poi in un ebook, I tempi del virus, che si può scaricare gratuitamente dal sito. Quindi ecco qui 24 brevi istantanee, scatti quasi fotografici di questa “riapertura”, ma con tutto il carico di prima, di quello che è accaduto in due mesi in casa.
Bergamo
Nunzia Palmieri
In questi ultimi due mesi non c’è stata una sola delle mie amiche che non abbia pubblicato su Facebook o su Whatsapp una fotografia delle sue piante, scrivendoci sotto che mai come quest’anno i colori dei fiori sono stati così splendenti e così belli. L’ho notato perfino io che sul balcone, a parte le aromatiche per cucinare, tengo tre vasetti di ciclamini e quattro di quelle piante semigrasse con i fiori gialli che bontà loro campano da sole anche se mi dimentico di dare l’acqua per una settimana. Questa dei fiori spettacolari potrebbe essere una leggenda che non fa male a nessuno, anzi, è una di quelle leggende che fa bene al cuore e quindi propongo di dotarla di un’evidenza scientifica aggiungendo che nei mesi scorsi sono drasticamente diminuite le polveri sottili anche in città, e così si spiega l’assenza di quella patina grigetta che ricopre le nostre piante da balcone e da giardino nelle normali fioriture di primavera, quando le auto viaggiano a pieno regime e il rumore che si sente venire dalla strada fin dal primo mattino è un ronzio continuo, interrotto di tanto in tanto dai decibel più prepotenti dei camion e delle motorette.
Stamattina dopo molte settimane il ronzio è tornato, un po’ meno intenso per la verità, intermittente, spezzettato. Ho letto un articolo qualche giorno fa dove si diceva che un gruppo di scienziati ha provato che il Coronavirus rimane sospeso nell’aria, trasportato dalle particelle di PM10. Quindi oggi, 4 maggio, in giro per le vie di Bergamo con la cagnolina Ginni, non devo limitarmi a scansare i padroni di cani senza mascherina, come ho fatto nei giorni scorsi, o i bambini senza mascherina che ora possono uscire per strada a passeggiare con mamma e papà o le signore con la borsa della spesa che la mascherina ce l’hanno di traverso o i fumatori con la mascherina giù, i telefonisti con la mascherina giù, gli edicolanti con la mascherina giù, perché le nuvolette tossiche sospese sul PM10, salito sicuramente di parecchio con tutte le automobili che hanno ripreso a circolare, ci tolgono anche la salvezza dello spartitraffico, dove abbiamo camminato nei giorni scorsi per metterci al riparo dai rischi di contagio. Certo, perché insieme alle anatrine in fila dietro la mamma anatra di Montebelluna, insieme al lupo di Sesto Fiorentino, insieme ai cervi di Villetta Barrea, al fenicottero di Cagliari, al canguro di Adelaide, agli elefanti di Chachoengsao, alle caprette di Raglan, sullo spartitraffico, fino al 25 aprile, c’eravamo anche noi, la cagnolina Ginni ed io, sole o quasi nella città deserta a zigzagare indisturbate da un marciapiede all’altro senza nemmeno doverci girare indietro per controllare che non ci fosse in agguato l’insidia di qualche ciclista silenzioso. Serate in solitaria lungo Via Palma il Vecchio al tramonto con tutti i prunus fioriti di rosa e in fondo il verde inconcludente del semaforo scattato per dare il via libera a che cosa non si sa, nessuno in strada, a parte le rare macchine della polizia.
Stamattina invece nella passeggiata delle undici siamo in buona compagnia. Le novità più visibili sono i genitori con i passeggini e le coppie di mezza età con il sacchetto del pane e il carrellino della spesa. Il bar qui di fronte ha riaperto i battenti, per i cibi d’asporto mi viene da pensare, e dentro c’è Willi con i guanti azzurri che sta passando la spugna sul bancone. Mi fermo davanti alla vetrina, gli faccio un cenno con il pollice e il mento all’insù per chiedergli se tutto va bene e lui fa segno con la testa di sì, tutto bene. Passo oltre. Qualche persona in più nelle code davanti ai negozi, non molte a dire il vero, parecchie biciclette nelle aree pedonali, un muratore con il giubbotto giallo che ripara una buca nella strada, un bambino con il pallone sotto il braccio e la mano nella mano della mamma, che porta la mascherina sotto il chador. Il parco aperto con tutta l’erba tagliata di fresco che sa di fieno. Ginni parte a razzo sul prato più lungo, scarta di lato, fa una curva larghissima e torna indietro saltando come una capra di montagna. Mi accorgo che sotto la mascherina ho gli angoli della bocca voltati all’insù. Il negozio di Via Previtali ha messo di nuovo i vasi di fiori sul marciapiede. Mi sono fermata. Non ci ho pensato nemmeno tanto e ho comprato un Kumquat. L’ho messo nell’angolo del terrazzo che dà su città alta, vicino al tavolo da pranzo con intorno le sedie che ho recuperato ieri dalla cantina. Ci sta bene un bel po’. Mai visto un Kumquat di un arancione così spettacolare.
Bologna
Massimo Marino
Quasi tutto quello che vorremmo, ancora non si può fare. Continuiamo a scoprire un senso al vuoto, alla paura, a pensare e immaginare. Non basta il tacchettio della signora del piano di sopra che alle 6:40 sembra promettere un inizio fase due vorticosamente lavorativo. Il principe non ha ancor baciato la bella addormentata: la semi-libertà vigilata scorre abbastanza uguale alla reclusione. Per strada nella semiperiferia di Bologna c’è poca gente. Scarso traffico di auto sotto la Regione. Nel parco ora entri senza la paura di essere pizzicato dai carabinieri: non ci sono più forsizie o alberi di Giuda fioriti, ma un tappeto simile a neve formato dai “piumini” dei pioppi, questa la differenza con prima. Siamo sette o otto, non più dileggiati per le corsette, con qualche volto nuovo, a girare, a girare nella supposta riacquistata libertà.
Gli autobus a mezzogiorno sono vuoti. Nelle strade camminano in pochi, scansandosi, mascherati. La zona universitaria è desolatamente priva della solita vita. Una fila alla parrocchia di San Giacomo Maggiore che distribuisce generi alimentari a chi ha più bisogno. C’è una manifestazione in Piazza Maggiore: saranno forconi o Fratelli d’Italia, con cartelli che nominano i settori chiusi e articoli della costituzione e dicono “Siamo stanchi”, “Il popolo si ribella”, come se il virus fosse un’invenzione.
Mercato con pochi avventori, librerie semivuote (alla Coop Ambasciatori, aperta per il primo giorno, dicono che c’è stato movimento e che, insomma, è l’inizio…).
La gente resta in casa ancora. Per paura o per disciplina. Non so che segno sia, ma i balconi del mio popoloso condominio, nelle settimane fase uno pieni di bandiere, canzoni, studentesse, bambini, casalinghe ossessionate dalla pulizia, signore opulente al sole in due pezzi, sono semivuoti.
Stasera giocherò l’asso nella manica “visita congiunti”. Per vedere gli amici bisogna fingere che siano parenti. Vietati viaggi e persone care oltre i confini del “territorio”, della regione (ma cosa c’entriamo noi col posto in cui abitiamo?). Italia esplosa. Italia deserto: i bambini dalle mie parti non si sentono; biblioteche, sale da concerto, cinema, teatri chiusi, non si sa ancora per quanto. I soldi promessi ad artisti e tecnici rimasti senza lavoro continuano a tardare ad arrivare. Di streaming (e di televisione) si vive o si muore? Si aspetta che accada qualcosa.
Cosenza
Mauro Francesco Minervino
È la prima volta che resto così lontano, e per tanto tempo, mancante della vista del mare. Al mare sono nato, e ho sempre avuto una casa che guardava il mare, un orizzonte magnifico, sconfinato. Il mare è anche nei miei viaggi, quasi tutti. È sempre stato un conforto, il mare. Indispensabile anche per pensare, un mio punto archimedico. Ho sempre creduto che fosse impossibile allontanarsene, e invece. Adesso il mare non lo vedo. Resta distante dal posto dove vivo adesso. È da qualche parte lontano, dietro la cresta dell’Appennino, separato dal grigiore irregolare dei filari di quartieri nuovi tirati su alla meno peggio, i labirinti di cemento di una città di provincia del Sud. Per me l’esperienza della segregazione domestica con l’isolamento diurno e notturno imposto dal virus, di fatto ha coinciso con un cambio di vita radicale, e con un trasferimento improvviso di residenza e di domicilio. È accaduto dopo un lungo periodo di guai, e di malattie, a cui ho provato a sopravvivere. Certe cose nella vita accadono, non sono disposte. E si cambia, tutto, con urgenza. Da qualche mese una casa nuova dove sono andato ad abitare, da solo. Un appartamento popolare, il più a buon mercato disponibile in agenzia. Un posto in cui ho messo insieme quello che mi resta dalla mia vita di prima. Molto poco. Non è la prima volta che mi succede, ma stavolta è tutto così diverso, amplificato, nuovo, spaesante. Sono andato ad abitare in una “periferia residenziale”. Ho casa in un condominio di città, in una borgata anonima, un po’ malfamata, in mezzo a casermoni vecchi e nuovi. Una necessità più che una scelta. Un posto dove non conosco nessuno, e nessuno mi conosce. Un altro mondo. Così, a parte le poche spese fatte al supermercato più vicino, la quarantena è trascorsa in una specie di isolamento da deserto. Dentro il bozzolo di questa borgata polverosa mi sono sentito a un certo punto come in un Oriente mentale. Una specie di monaco stilita. Pensieri involuti e dolori solitari, visioni e cavallette a pranzo e cena. In mezzo solo le lezioni da remoto ai miei studenti del corso di Antropologia Culturale e Sociologia dei Nuovi Media. Dopo più di un mese e mezzo che non mi rado ho la barba di un monaco-santo bizantino, un sembiante degno di apparire in un mandylion del Monte Athos. Uno di questi ultimi giorni, al mattino, sono uscito a prendere aria dal balcone, e ho guardato fuori. Finora nella fretta del trasloco non avevo quasi mai buttato lo sguardo ai paraggi del mio casermone di periferia, al paesaggio oltre le gru e i cantieri interrotti. Per l’aria c’era l’odore che si spande dalle cucine in cui si prepara il pranzo di buon’ora, come si usa al Sud tra le case di un quartiere popolare. Un rumore di stoviglie, i balconi spalancati, le stanze che si affrettano al riordino. C’era un vecchio in pigiama nel cortiletto di un casolare rimasto in piedi per miracolo in mezzo ai palazzoni, era sceso ad annaffiare un vaso di basilico cresciuto in una grossa latta di conserva. Qualche risata arrivava da lontano, una voce giovane di donna rimprovera un bambino in un dialetto che sa di cantilena. Sullo stradone una macchina passava correndo via con lo stereo acceso forte sulle canzoni di un cantante neomelodico. Alla fine devo aver pensato che una casa sembra poter avere un senso per conto suo, e dare un senso alle cose, al tempo; e sembra possedere una regola e un ordine, una vita sua e un suo posto nel mondo, già prima di coloro che vi abiteranno. La notte dopo ho sognato che dormivo cullato da un dondolio lento che mi pareva il mare, e che la mano che nel sonno mi stava accarezzando la guancia e il mento barbuto, non era mia. Era l’apporto miracoloso di una santa anatolica delle Meteore. Ed era ἀχειροποίητα, achiropita, non dipinta da mano umana. Il giorno dopo era la domenica, e il mattino lì fuori nel quartiere sembrava di festa. Di nuovo.
Cusano Milanino (Milano)
Chiara De Nardi
Ogni mattina esco alle sette per portare fuori il cane. Negli ultimi mesi il tragitto intorno all’isolato si è concluso quasi sempre senza incrociare anima viva.
Senza distrazioni è più facile guardarsi intorno, e in due mesi ho potuto contemplare l’orizzonte tra le case basse riempirsi della luce di un sole sempre più alto e la primavera invadere il Milanino con la tracotanza del verde chiaro sugli alberi non potati e del profumo dei glicini e dei gelsomini.
In questa zona residenziale di villette e viali alberati le siepi straripano oltre i cancelli, i sempreverdi e gli ippocastani allungano i rami vecchi fin quasi a terra, i tronchi dei tigli sono rivestiti da cuscini di foglie fresche. La nostra assenza – o reclusione – si misura anche in questo disordine della natura che esce dai confini imposti dal decoro urbano.
Niente si è veramente fermato, a parte il nostro muoverci, il nostro fare; lo vedo in questo pezzo di città che butta germogli da ogni parte e mi sento uguale a queste foglie e a questi rami pesanti, e mi commuovo per questa vita che straborda, da cui non riesco a sentirmi esclusa, nonostante mi si dica di stare ferma, di non uscire, di non essere più parte di quel mondo di fuori, che cresce e palpita e respira.
Senza distrazioni è più facile guardarsi dentro, e riconosco che più del virus mi spaventa il non saper uscire da quest’aria sospesa, cosa sarà di quel che si è fermato, come ritrovare i gesti, le parole, i progetti di prima.
Questa mattina, fuori da Cusano Milanino, sul breve tratto della Rho-Monza che devo percorrere per andare al lavoro, le macchine sono già aumentate e verso l’uscita della Provinciale mi sono accorta di aver percorso quasi tutta la strada sulla corsia di sorpasso.
Fuori da quel mondo di piante, dalla lentezza di quelle minuscole passeggiate all’alba, mi sono trovata già dentro un’accelerazione.
Oggi le voci si sono moltiplicate tutte insieme: ogni richiesta rimasta in bocca, ogni diritto sospeso, ogni voglia frenata adesso chiede il conto. Ma non si è riaperto nulla, c’è solo uno spiraglio nella porta e una folla di voci che vuole forzare i cardini.
Senza distrazioni suona più forte il proprio pensare. Forse anche per questo, da subito, ci siamo lanciati sui balconi a cantare, a fare baccano, a urlarci che tutto andrà bene e che tutto tornerà come prima. La voce che sento, in quest’aria sospesa che comincia a diradarsi, dice che non c’è più un prima a cui tornare, c’è un adesso da attraversare, che diventerà un dopo in cui ritrovarsi e in cui ci sarà poco tempo per riabituarsi alla corsa, per riprogrammarne la direzione, il senso e magari anche la velocità.
Fara Gera d’Adda (Bergamo)
Luigi Grazioli
Al mio paese, 8.000 abitanti, forse perché di contagiati rispetto al resto della bergamasca non ce ne sono stati molti, almeno quello dichiarati (una cinquantina), così come i morti (una decina, cosa vuoi che siano?, anche se per ognuno, e per i suoi familiari, come per tutti in Italia, uno è già troppo), la fase due è cominciata per molti con largo anticipo. Mentre la maggior parte della cittadinanza rispettava le regole, e la paura, in modo rigido, costoro li si vedeva in giro a coppie o gruppetti, specie giovani, ma anche adulti schiavi dei cani a passeggio o semplici stupidi arroganti, senza mascherine, a ogni ora del giorno, tenendo raramente le distanze, soffiandoti addosso il fumo delle loro sigarette nelle file e guardandoti con disprezzo se ti allontanavi appena li scorgevi, oppur che facevano il barbecue o chiacchieravano a gruppi nei giardini, e dalle mie parti, che sono un po’ isolate, limitrofe alla campagna con le sue belle stradine tra gli alberi, anche abbracciati, ragazzi che si baciavano, e quanto al resto non so. La gioventù! Io non esco oggi, mi spiace, quindi non posso dire che cosa c’è di diverso. Le fabbriche hanno riaperto, con grande sollievo di tutti, perché qui stare con le mani in mano è peccato, senza contare che se poi chiudono, le mani in mano rischiano di anchilosarsi, la vita di svuotarsi davvero, come il portafoglio, alla faccia degli altri rischi. Di sicuro le panchine saranno di nuovo popolate, le file ai negozi saranno più lunghe, qualche persona in più ardirà di entrare in chiesa e soprattutto ci sarà assembramento sulla passerella sul fiume, la cosa più bella del paese, oggi riaperta, da cui poi partono percorsi nel bosco e lungo le sue sponde e quelle dei vicini canali che sono la meta dei passeggiatori, runner, ciclisti, cani di ogni taglia, a volte inversamente proporzionale al cervello degli umani all’altro capo della loro corda, senza contare l’esercito dei pensionati e fannulloni locali, di cui faccio parte anch’io. La giornata è bella, il tempo tiepido, quasi caldo, si può uscire in maglietta e bermuda, vene varicose permettendo, la voglia di evadere, di sprecare energie per il puro fatto di esistere, non più trattenibile. Immagino tutto facilmente. E testimoni me lo hanno già confermato. Quindi per i prossimi giorni ancora non esco. Al fiume sono stato l’altrieri, uscito a prendere il giornale. C’era un silenzio meraviglioso, solo i suoni della natura, le nuove famigliole delle gallinelle che sguazzavano per il canale, con i piccoli appena nati, grossi come il pugno di un bimbo, che lanciavano i loro richiami, il fogliame che stormiva al vento, papere, cormorani, svassi e gabbiani che si alzavano in volo da lontano, i cigni che nuotavano regali, nessuno che gettava cibo o scrutava l’acqua, i profumi che trapassavano la mascherina come pugnali. Se c’è la morte, è da un’altra parte; se ai funerali non si può andare, si piange da soli nelle case (l’ho fatto anch’io). Non andrò a vedere il ponte e le sponde del fiume ripopolate. Tra qualche giorno, forse. Oggi al massimo giro un po’ in campagna, sperando di non disturbare qualche coppietta di fidanzatini, o deviando al largo, anche se poi rischio di incontrarne altri, senza contare che, comunque, a casa ci devo tornare, imbarazzato e un po’ voyeur come il signor Palomar sulla spiaggia, sperando che oggi non abbiano sparso il letame. Quindi non so, magari non vado nemmeno lì. Oppure esco lo stesso, vado in paese a vedere, a distanza, la gente, con l’idea che mi incazzerò, ne penserò peste e corna, e poi li guarderò tutti con affetto, allarmato, forse addirittura commosso.
Firenze
Rodolfo Sacchettini
Per le città d’arte i giorni della quarantena non sono stati solo tristi o difficili, noiosi o tragici. Per le città d’arte, come Firenze, i giorni della quarantena sono stati il salto in un'altra dimensione. Passeggiare furtivamente per piazza Duomo o piazza Signoria e osservarle completamente vuote poteva sembrare triste, ma era soprattutto straniante. Il confronto non è tra il vuoto e il pieno, ma tra il vuoto e lo strapieno. Piazza Signoria, via Calzaiuoli, piazza Duomo… senza le orde di turisti che spingono di solito a percorrere le stradine laterali, come si volesse evitare un ingorgo in tangenziale, sono una visione commovente. E il vuoto non è neppure così angosciante perché le strade, le piazze, i palazzi, le architetture ci ricordano uno spazio umano, plurisecolare, non contingente. Quasi una patria perduta, dimenticata per usura, consumo, fretta… Nelle micro passeggiate intorno a casa, in centro, non s’incontrava davvero nessuno. E tutto era chiuso, a parte la Basilica di S.S. Annunziata che, in quanto santuario, è rimasta a lungo aperta. Qualche vecchio fiorentino si rifugiava il pomeriggio nel Chiostrino dei Voti a osservare gli affreschi di Andrea Del Sarto, Franciabigio e Rosso Fiorentino. Poi un gran silenzio. Qualche canto, qualche applauso, gruppetti di tossici, sbandati e vagabondi, molti cani…
La quarantena a Firenze di fatto è finita il primo maggio, con l’ordinanza del governatore della Regione che ha permesso l’attività motoria in tutto il Comune. Lungo l’Arno, per le strade, verso il piazzale Michelangelo era pieno di mascherine dignitosamente a passeggio. Un sollievo educato e cordiale che si è manifestato in piccoli gesti, come ad esempio fermarsi un attimo per lasciar scattare una foto, farsi da parte per mantenere la distanza di sicurezza senza atteggiamenti pestilenziali o cafonaggine. Addirittura una nota gelateria ha riaperto per mantenere le distanze la sua bocchetta del vino, cioè un’apertura sulla strada che in antico serviva a vendere piccoli fiaschi. Un salto nella Firenze medievale, che riaffiora ironica e naturale, senza paccottiglie turistiche. Le persone quasi si salutavano, senza nemmeno conoscersi. La quarantena è stata molto lunga e passeggiare tranquillamente in città assume un piacere davvero speciale. Eppure non è solo questo. Oggi, con la riapertura ufficiale, c’è meno gente per strada. Il mercato all’aperto è abbastanza affollato, qualche negozio è riaperto e l’impressione complessiva è davvero cambiata. Eppure continua a esserci poca gente.
Tutta questa storia ha scoperchiato alcune verità ben note, ma sempre tenute in secondo piano. E invece cruciali per il futuro della città. In centro, a Firenze, ci vive sempre meno gente. Se si tolgono gli studenti fuorisede, se si chiudono gli airbnb, i bed&brekfast, gli hotel… improvvisamente ci si accorge non solo che le strade sono vuote, ma anche che moltissime persiane rimangono chiuse, così i portoni e i bandoni. In questi anni, in una crescita vertiginosa del turismo, pezzi interi di centro storico sono stati drammaticamente mangiati. E adesso quale futuro? Ora che si parla di riapertura, e di attività utili e inutili vien voglia di fare la conta. Nel silenzio delle strade sembra di sentire biasciare un «redde rationem». Ma senza turismo chi è ci andrà negli orridi paninari fast food, nelle gelaterie di plastica, nel minimarket a comprare un po’ di alcool per la serata? E infatti, per adesso, molti luoghi rimangono chiusi, come sospesi.
Iseo (Brescia)
Silvia Mazzucchelli
La mia “Fase due” è iniziata in riva al lago. Sono cresciuta su un’isola in mezzo al Sebino e se c’è una cosa che mi manca è l’acqua. Mio padre dice che se stai dinnanzi al lago non puoi sentirti solo. C’è sempre qualcosa che si muove e per osmosi ti muovi anche tu.
Quindi sono uscita con la mia mascherina da “saldatore”, come ha detto un amico che mi ha vista in video, e sono immediatamente andata a vedere quel tratto di lago che preferisco, anche se adesso abito sulla terraferma, a Iseo. Non è certo famoso come quel “ramo” che tutti ricordiamo, ma io lo adoro perché si vede Monte Isola che galleggia e mi ricorda la schiena di un dinosauro, o di un mostro marino.
L’acqua era così trasparente che mi sembrava di essere al mare. Forse è per questo che non mi ci sono buttata. E non ho nemmeno bagnato i piedi. Ho guardato queste piccole onde trasparenti, luccicanti di sole, senza pensare a nulla. Mi sono limitata a scattare alcune fotografie, quasi per ricordare a me stessa di tutte quelle volte che avrei potuto tuffarmi e non l’ho fatto. Anche se io non riesco a tuffarmi. Semplicemente scivolo silenziosamente in acqua, come un’anguilla.
Di solito passo da qui anche quando esco per correre. Un piccolo rito. Quando la corsa è quasi finita, e sono sudata, so per certo che proprio in quel punto, una leggera brezza sul viso mi farà provare dei brividi di sollievo. E ci porto anche gli amici. Fortunatamente non devo spiegare nulla perché la natura parla al mio posto. C’è anche chi mi ha fatto mille domande: quanto è profondo il lago in questo punto? Come si chiamano i monti che si vedono proprio dietro a Monte Isola? Faccio finta di non sapere, il rumore delle barche nel piccolo porto lì vicino e il calore del sole distraggono anche i più insistenti.
Un amico mi ha scattato una foto, in estate, qualche anno fa, con l’isola dietro di me. Davvero un bel ricordo. In questo posto ci vengo anche quando devo fare qualcosa di difficile. Mi siedo e guardo verso la fine del lago, in direzione di Pisogne e Lovere. Ora che ci penso, proprio qui ho recensito un’antologia di giovani narratori. Un momento magico. L’acqua era più alta di oggi e usciva fuori dal bordo del muretto, arrivava quasi ai piedi. Intorno c’erano i pescatori che parlavano sottovoce e pranzavano insieme. Ci ho portato anche un’amica. Con lei non ho detto molte parole, non c’è bisogno, stare in silenzio non è affatto fastidioso.
Sapevo che tutto sarebbe ricominciato da qui.
Merano (Bolzano)
Alessandro Banda
Qui da noi (chez nous o, più teutonicamente, bei uns) tutto dev’essere sempre un po’ diverso, quindi la riapertura c’è in effetti già stata, qualche giorno fa; e adesso le forze produttive scalpitano per riaprire tutto il riapribile, che al momento è rimasto ancora chiuso, un po’ prima dei tempi dettati da Roma; anche solo qualche giorno basta a differenziarsi dall’“odiata” capitale centralista e centralizzatrice e accentratrice.
Usciamo tutti in maschera, naturalmente, o con dei variopinti “scaldacollo” tirati sul naso. La tenuta del rapinatore potenziale o del contestatore violento. Solo la tenuta, eh.
Se già prima, a Merano, salutarsi era un fatto eccezionale, oggi lo è ancora di più. La distanza sociale viceversa è mantenuta con la massima naturalezza. Nessuno ha mai fatto fatica, qui, nemmeno prima del virus, a tenere gli altri alla larga. Alla larghissima. Vade retro, concittadino nonché potenziale untore!
Da sopra alle maschere e agli scaldacollo sgargianti dardeggiano sguardi trafiggenti.
Ho captato, passando di fretta, discorsi di persone che inneggiavano al caffè dei bar, al cappuccino, al macchiatone, all’espresso lungo e all’espresso ristretto: tutti sono felici di poterlo finalmente degustare fuori casa, non al banco, ché non si può, ma nella forma “da asporto”.
Anche del gelato, sempre da asporto, ci si rallegra parecchio.
Automobili in giro non ce ne sono tante. Nemmeno moto. Qualche bicicletta.
In una città abituata a un afflusso turistico perenne e a un conseguente traffico indiavolato, questo è quello che subito spicca: la loro assenza. Non ci sono forestieri. Niente ospiti. Mai essi mancarono da Merano, nemmeno un giorno. E ora è il vuoto totale.
In compenso l’attività dei cantieri ferve. Ovunque abbia mosso i miei passi mi sono fatalmente imbattuto in un cantiere stradale. Trapanano. Smartellano. Scavano. Asfaltano. Riscavano. Ritrapanano. Rismartellano. Riasfaltano.
Io mi domando: ma per chi lavorano? Ma perché? Questa strada non l’hanno aperta almeno quattro volte quest’anno?
Poi mi domando ancora: ma ai quasi trentamila morti che ci sono stati penserà qualcuno?
Milano
Gabriele Gimmelli
Sono uno di quelli che facevano una vita ritirata già prima della grande pandemia e che continueranno a farla anche dopo. Non posso dire, quindi, d’aver atteso con particolare trepidazione l’avvio della “Fase due”. O meglio: la trepidazione c’è stata, ma era dovuta soprattutto alle notizie allarmanti sulla continua crescita dei contagi a Milano, che ancora dieci o quindici giorni fa sembrava non volersi fermare.
Tolte le uscite per far la spesa, durante tutto il periodo di confinamento non mi sono allontanato da casa per più di un isolato. L’uscita più lunga – circa mezz’ora di cammino a piedi – è stata per cercare un negozio di telefonia che potesse ripararmi lo smartphone (benché rientrassero per decreto fra le “attività essenziali”, si direbbe che in pochi abbiano deciso di rimanere aperti: non li biasimo). Anche stamattina, nonostante l'allentamento delle misure di sicurezza, mi sono limitato ad allungare un poco la strada che da casa mia porta all’ortolano. Mi sono infilato nelle strade del vecchio quartiere: negozi chiusi (in quanti riapriranno dopo il confinamento?), strade semideserte, neanche una faccia conosciuta in giro.
Nell’eterno presente imposto dalla quarantena, seduto a lavorare dalla mia scrivania, ho cominciato a prestare attenzione alle ore di luce che aumentavano col passare dei giorni; all’aria che si faceva più tiepida, ogni volta che dovevo uscire per andare dall’ortolano o dal panettiere, armato di mascherina, guanti di lattice e giaccone invernale. Stamattina sono andato a guardare nell’armadio se per caso c’era qualcosa di più leggero da indossare: mi sono accorto che non abbiamo sostituito gli abiti invernali con quelli primaverili o estivi.
Una delle ultime volte che mi sono allontanato da casa per più di due ore indossavo ancora il maglione. Era il 25 febbraio. Avevo accompagnato la mia ragazza alla Stazione Centrale, per prendere il treno che l’avrebbe riportata a casa (non ci vediamo da allora). Erano pressappoco le cinque del pomeriggio, e più di un’ora dopo avevo un appuntamento in centro, non lontano da piazzale Cordusio, così avevo deciso d’andare a piedi. Non mi considero una persona amante dello sport e della forma fisica (sono un po’ pigro), né fortunatamente ne ho bisogno per motivi di salute. Mi piace camminare, tutto qui. È uno dei pochi piaceri che mi concedo. Uscire di casa con una meta molto vaga nella testa, e andare avanti così finché le gambe non cominciano a far male. Lo ammetto: la possibilità di camminare a lungo e liberamente è forse la cosa che mi è mancata di più durante il confinamento.
Piazza Duca d’Aosta, via Vettor Pisani, piazza della Repubblica, largo Stati Uniti d’America… Ricordo che era una giornata bigia, invernale, e il buio stava calando. Non posso dire che le strade fossero deserte, ma senz’altro si percepiva, camminando, un vago senso di minaccia, che serrava la bocca dello stomaco e che faceva sudare, nonostante il freddo. Oggi avrei voluto rifare quel percorso. Avrei provato le stesse sensazioni di quel giorno? Non lo so.
Monticello (Lecco)
Marco Belpoliti
Sulla statale che collega Como a Bergamo per tutto l’ultimo mese sono passati parecchi TIR, molti dei quali con targa straniera. Segno che le piccole fabbriche allineate lungo questa dorsale industriale del Nord non avevano mai chiuso i battenti. I camion in transito portavano i nomi di corrieri nazionali, aziende alimentari, catene di supermercati, distributori e imprese commerciali; passavano anche veicoli commerciali privi di scritte pubblicitarie. Scendendo una volta la settimana dalla collina verso la statale, per fare la spesa in un negozio che si trova a qualche chilometro di distanza, ho sostato nei pressi della rotonda che si deve superare per varcare la statale. Mi sono fermato sul bordo della chicane a osservare il traffico rarefatto. Ho fatto una piccola classifica delle targhe dei TIR sulla base della lontananza dall’Italia; il più remoto è stato un articolato proveniente dall’Ucraina, mentre più consueti erano quelli dalla Slovenia e dalla Polonia. Paragonato al traffico solito che percorre questa statale, in alcuni punti davvero stretta, nonostante l’allargamento programmato della Provincia di Lecco, con tanto di cartello di finanziamento orgogliosamente esibito, quello dell’ultimo mese e mezzo faceva impressione. Di solito prima della rotonda c’era sempre una lunga fila in attesa di smaltire il traffico da un lato e dall’altro. Ora i TIR scivolavano possenti e veloci, come brontosauri muniti d’ali. Questa rarefazione mi ha ricordato la via dove abitavo da piccolo negli anni Sessanta, asfaltata da poco, dove transitavano pochissime automobili ogni giorno, pur non essendo in periferia e la città che abitavo non proprio piccolissima. A destra della medesima rotonda dove mi sono appostato saltuariamente in queste settimane, c’è un bar-ristorante, “Lo scarpone”, e a sinistra, al di là della rotonda che imbocco per andare a Sartirana, “da Pinuccio” in automobile, c’è invece un florovivaista, che occupa una grossa porzione di terreno con le sue serre, le coltivazioni dei fiori, gli arbusti e gli alberi. Il suo nome un tempo era “Il gatto verde”, ma ora ha cambiato nome e tolto l’insegna che lo attestava. Ha chiuso appena dichiarata la pandemia e affisso un piccolo cartello in cui dichiarava la sua adesione alle misure emanate dalle autorità. Lì, il giorno prima della serrata generale del Paese, avevo portato una pianta grassa per effettuare un cambio di vaso con l’impegno a ritirarlo due giorni dopo. Si tratta di un Cacto peloso che mia figlia due anni fa aveva scelto nel medesimo vivaio senza sapere bene di quale pianta grassa si trattasse. L’importante era che non pungesse come le altre che possediamo già. Questa pianta, originaria della America meridionale, come mi era stato detto, ha avuto un notevole sviluppo verticale e durante l’inverno era spuntato accanto al tronco principale, di forma fallica, un altro cilindretto. Per tutto il periodo della quarantena, durato per me dal 7 marzo sino a oggi, ho atteso che riaprisse il florovivaista per poterlo riavere indietro, naturalmente pagando per il trapianto e il nuovo vaso. Mi sembrava di aver quasi abbandonato il Cacto peloso il cui nome scientifico, come ho imparato in questo lasso di tempo, è Espostoa lanata. Di questo confinamento trascorso per altro in campagna, senza difficoltà nell’uscire di casa e camminare in giro, vista la collocazione collinare, il cactus verticale è diventato il mio personale simbolo. L’ho anche sognato una notte. Aveva arrotondato la sua forma ed era cresciuto a dismisura e raggiunto le dimensioni di una piccola foresta; in più la pelosità era divenuta pungente, spinosa, e il nome del florovivaista dove l’avevo lasciato era: “Le piante magiche”. Ho pensato che tutto quello che ci è accaduto sino al giorno della riapertura, il 4 maggio, non era altro che un brutto sogno, che si sarebbe dissolto appena uno avesse pronunciato la formula giusta. L’attendevo ogni sera guardando nel web il bollettino dei contagiati e dei morti. Ma così non è stato, almeno sinora.
Napoli
Patrizio Esposito
Napoli. Quattro maggio equivale a sfratto. È il giorno fissato nei contratti o negli accordi a voce tra proprietari e inquilini per liberare gli spazi in fitto: si va via dalle case, dai negozi, dai bassi, si trasloca. Si va da qualche altra parte. Un castigo o un augurio attende la data.
In casa, al telefono oggi: G., anziano pittore di strada, dal dormitorio comunale: «Da qui no, non ci riesco. Voglio dipingere in strada, appena mi fanno uscire. Parole sì, ma niente disegni al chiuso. Nelle stanze siamo in quattro, prima di più. Restiamo numeri, la nostra esistenza è bloccata, non so quando saremo salvi». F., fabbro ai quartieri spagnoli: «Dopo l’incidente alla mano l’officina diventerà un garage: sto svendendo le morse, i tondini, i trapani, i ricordi. Mio figlio non farà questo lavoro, vuole aria». A., gruppo operaio E Zezi di Pomigliano d’Arco: «Avimma turnà a nascere, ’a fabbrica nun ha maie funzionato. Tenimmo sulo ’a voce, comm’ ’e schiave». G., rilegatore del centro antico «Dopo due mesi sono stordito, tocco la colla e la carta come carezzassi un amico. Mi trema la mano».
In strada, ieri e oggi. Nei dintorni del duomo barboni e migranti, stesi su cartoni e coperte. Dormono, mangiano da contenitori di fortuna, guardano i passanti come fossero fantasmi. Nello stesso modo sono guardati. Estraneità, diffidenza reciproca, distanza assunta prima dei decreti. In via Roma, in via Costantinopoli, al Museo Nazionale, barboni e migranti. I poveri antichi, i nativi, con loro. Un silenzio esteso ai vicoli del centro. Anziani rimpiazzati nei bassi, da giovani venuti dall’altra parte del mondo con uguale miseria. Bassi rimessi a nuovo per ospitare anche chi, come merce, può superare le frontiere avendo oro in tasca. Inutilmente lucidati, i bassi divenuti B&B restano vuoti, comprati da imprenditori o malavitosi erano in attesa di turismo e danaro. Viaggiatori fermi, meno guadagni in città. La malavita presta soldi, ne ha molti nei bunker e nelle banche, i traffici non rallentano, anzi. Buona vita congiunta a mala vita, il nodo si stringe rinnovandosi. L’usuraio che picchia in pubblico ha un doppio nel picchiatore nascosto elegantemente a Posillipo. L’aristocrazia del crimine, amministrativa e non, abbraccia il sicario analfabeta. Il contagio in corso apre molte speranze lassù.
Sui muri del Conservatorio da oggi compare un avvoltoio disegnato con perizia: sostituisce l’aquila della Confindustria e ne storpia il nome, Covidindustria, dal 1910 il profitto prima delle persone. Tutti i militanti delle organizzazioni di base che hanno manifestato in questi giorni alle porte della Prefettura o della Confindustria sono indagati, l’urlo disturba la quiete del perpetuo.
Sessanta giorni, nulla dal cielo. Jessie White Mario, al seguito di Garibaldi, trascriveva la voce delle donne che affollavano le grotte nel tufo di monte Echia: «Siamo noi le infelici. Non c’è una goccia d’acqua da dissetarci, quando per due mesi la Vergine maledetta non ci manda un filo di pioggia».
Ostra (Ancona)
Claudio Piersanti
Disgraziatamente da un paio d’anni sono tornato a vivere in un bellissimo paese delle Marche, per stare vicino a mio figlio che ora è andato a lavorare all’estero. Mi si chiede cosa succederà il 4 maggio ma qui non lo sa nessuno. Le Marche sono una non Regione da sempre. Ci ho abitato da giovanissimo e non ne avevo un buon ricordo. Ogni volta che ci sono tornato ho avuto problemi. Lettere anonime alle autorità, un ridicolo processo conclusosi con la condanna di chi mi aveva denunciato. Recentemente sono stato processato da sconosciuti burocrati del sedicente Ordine dei giornalisti, che mi accusavano di indegnità. Volevo scrivere alcuni pezzi all’inizio della pandemia (anche per questa testata) ma non avendo più lo stupido tesserino non ho potuto lavorare. So che la Regione, per la imminente campagna elettorale, sta costruendo una sorta di gigantesca terapia intensiva che resterà deserta. Priva di personale e di strutture sanitarie essenziali (come la TAC) e distante da un grande ospedale Regionale che avrebbe potuto essere ampliato razionalmente. Ma qui non si fa nulla di razionale. Molti anni fa hanno costruito una enorme e costosissima facoltà di medicina all’ingresso di Ancona, in una località chiamata da sempre FRANA BALDUCCI. Infatti l’intera struttura è franata. I lavori per la superstrada verso Roma durano da quando avevo i capelli lunghi. Per avanzare due chilometri impiegano vent’anni. Su quella strada sono fallite decine, forse centinaia di ditte. La ferrovia per Roma è ancora con due soli binari come all’inizio del secolo scorso, e i tempi di percorrenza sono eterni e teorici. La magistratura è impotente o assente. Non credo si sia mai svolto un concorso pubblico regolare dal dopoguerra ad oggi. Questa Regione non ha alcun senso di esistere, è una pura espressione geografica. E credo che in generale l’istituto stesso delle Regioni sia una delle cause strutturali della grande crisi italiana. La sua classe dirigente è del tutto incapace di riaprire alcunché. Nelle RSA falcidiate dall’epidemia sono intervenuti i ragazzi di Médecins sans frontières, per insegnare ai dipendenti l’uso delle attrezzature sanitarie: non è mai stata fatta una esercitazione generale e non c’era assolutamente nulla di pronto per affrontare una qualunque epidemia. Va segnalata l’abnegazione di tutto il personale sanitario esistente, questo voglio dirlo, che come dovunque ha certamente operato con il massimo impegno. Ma se l’Ospedale Regionale ha un discreto livello di efficienza la struttura sanitaria sul territorio è stata completamente distrutta negli ultimi anni. La Germania è lontanissima da qui. Anche la democrazia.
Se sopravvivrò cercherò di tornare, dopo tanti anni, verso Nord, tra la mia amata Laguna e la Madonnina.
Palermo
Gianfranco Marrone
Nella mattinata del 4 maggio bisognava andare a Mondello. Località balneare palermitana, Mondello era infatti un ottimo punto di osservazione per comprendere come la cosiddetta Fase2 viene vissuta dalla gente del luogo: forze dell’ordine da un lato, cittadini dall’altro. E, soprattutto, per aver ben chiaro il sottilissimo discrimine fra esigenze di sicurezza sanitaria e potere biopolitico sui corpi.
Era abbastanza evidente come le misure contenute negli ultimi decreti governativi che hanno predisposto libertà e costrizioni si basassero su un criterio implicito: vietare l’intransitivo (tutto ciò che è fine a se stesso, supposto inutile, sfizio) e consentire il transitivo (ciò che è funzionale, strumentale, finalizzato). Passeggiare no, puntare verso un posto preciso sì. Andare a zonzo no, correre per allenarsi sì. Incontrare amici no, parenti sì. Eccetera.
A Palermo questa odiosa logica utilitaristica ha assunto una forma particolare: andare al mare per fare il bagno sì, stare sulla spiaggia per la tintarella no. Come dire che va bene entrare in acqua per nuotare (attività sportiva, dunque transitiva), non va bene stare al sole per abbronzarsi (attività estetica, dunque intransitiva).
Dinnanzi alla stupidità del provvedimento, i palermitani, corsi comunque a Mondello (come fanno sempre appena hanno un attimo libero), si sono organizzati di conseguenza. A osservare il litorale, si coglieva una curiosa maniera di articolare e di vivere lo spazio la battigia. A distanza di dieci o quindici metri uno dall’altro si era sistemata una teoria di gruppetti di bagnanti, ognuno comprendente quattro o cinque persone; monadi autosufficienti e isolate. Stavano lì in costume a godersi il sole e il mare, si chiacchierava rilassati, radio accese, qualcuno arrischiava un frettoloso bagno primaverile. Con una regolarità stupefacente, lungo un paio di chilometri di spiaggia.
Ecco un messaggio collettivo che la comunità locale indirizzava alle forze dell’ordine e al governo: d’accordo stiamo distanti, ci raggruppiamo in buon ordine solo fra congiunti o chi ne fa le veci; ma decidiamo noi che cosa fare, di cosa abbiamo voglia, e perché no bisogno. Per noi, il superfluo è vitale.
Auto di polizia e carabinieri percorrevano la strada che costeggia la spiaggia, rallentavano, osservavano, andavano via perplesse. Che abbiano capito?
Panicale (Perugia)
Gianni Agostinelli
Qualche settimana fa, non saprei collocarla nel tempo di questi sessanta giorni nemmeno sforzandomi, mentre ero fuori casa che camminavo spingendo mio figlio nel passeggino ho visto farmisi incontro una macchina. Stavo percorrendo una strada stretta tra distese di campi lavorati e mi sono bloccato sentendo la furia dei colpi di clacson. Ho capito che erano rivolti a noi quando si è fatta più vicino e il tizio alla guida col braccio ci mandava saette e da dietro la mascherina partivano offese piuttosto chiare. Non c'era l'hastag ma si capiva chiaramente che il suo invito era: restate a casa. Così ci siamo girati, abbiamo guardato le finestre di casa, il tetto di casa, la porta di casa. Brum brum ha commentato mio figlio. Oltre a quelle offese per una sessantina di giorni non ho ascoltato altre parole dalla viva voce di una persona, se non quelle arrivatemi tramite i telefoni. Fino a che stamani abbiamo provato a far ripartire qualche vecchia abitudine e ho portato i bambini dai nonni. Sono salito in macchina ed era tutto come avevo lasciato l'8 marzo scorso. La spia degli pneumatici sgonfi, la polvere di due mesi sulla carrozzeria, l'acqua per i tergicristalli che mi sono dimenticato anche oggi di rifornire e la canzone dell'asilo che è partita dall'inizio, predisposta come sempre. Jarvis Cocker che canta Black Magic e i bambini che provano ad imitarlo nel percorso da casa all'asilo. Oggi però erano tesi e felici di rivedere i nonni, quindi non ha cantato nessuno e ho approfittato del percorso per ricordare le regole del gioco alla più grande. Le ho detto di tenersi la mascherina attaccata alla testa bella stretta come fosse l'elastico delle mutande. Che qualcosa fosse diverso anche nel mondo circostante me ne sono accorto salendo in paese dove ho visto un uomo senza mascherina. Mi ha fatto l'effetto di un uomo armato, anche se stava sorridendo. Ecco, vediamo quanto tempo impiegherò a cancellare dalla mia testa quest'errore, a togliermi quest'ansia, sperando di non averla trasmessa ai figli, insieme allo stress, alla fatica, alla tensione, alla delusione, e ai dolori, piccini ed enormi che in questo periodo, indipendentemente dalla quarantena, ci sono capitati. Almeno le macchine da oggi non fanno più paura. Sfilano via, più frequenti ma senza fretta. E poi ad accompagnare il verso dei maledetti piccioni e del resto degli uccellini e della natura tutta sono tornate le motoseghe. Un canto liberatorio, un ruggito all'inizio. Quasi commovente. A un certo punto da lontano ho sentito alcune falciatrici, pareva quasi una gara di potenza. Una smania meravigliosa.
Ravenna
Marco Martinelli
Attenzione!
Sono trapelate notizie
dalla ricerca di un laboratorio top-secret
situato in una piccola isola del Pacifico
dove due autorevoli scienziati
lo statunitense Walt Whitman e il cinese Lu Hsun
(mirabile esempio di lavoro interoceanico)
sono arrivati a una conclusione certa
sull’andamento del virus
nei prossimi 15 anni.
Pare sicuro che il covid-19
riuscirà sì a diffondersi in tutti i continenti
ma la sua corsa maligna
si spegnerà entro il 2020
per poi andare a fondo e scomparire
nei primi lieti mesi del ‘21.
A quel punto si verificherà
una catastrofe inaudita:
in un angolo remoto della foresta amazzonica
avverrà uno “spillover” impensabile!
Un delfino rosa del Rio delle Amazzoni
sarà l’incolpevole vettore
della prossima terrificante pandemia!
Attenzione!
In questo caso il delfino
non trasmetterà il virus dormiente all’uomo
ma infetterà i computer di tutto il pianeta!
Tutti i computer!
Una strage che non guarderà in faccia a nessuno
Apple, Microsoft e ogni forma di smartphone
diventeranno inservibili nel giro di 30 secondi.
La previsione di Whitman e Lu Hsun
ha un margine di errore
(detto anche “intervallo di confidenza”)
dello 0, 0000001 per cento
quindi pressoché inesistente.
La notizia è già arrivata
sui tavoli dei presidenti di tutto il mondo
e mentre le masse continueranno
ignare e diligenti
a indossare guanti e mascherine
(come in questa soleggiata mattina di Ravenna
dove con discrezione ci si aggira nella fase 2)
politici e scienziati studieranno
i rimedi per una simile sciagura.
Provate a immaginare!
Il mondo sarà privato all’istante
di ogni connessione
skype, facebook, instagram et cetera
lasciando in vita solamente
gli arcaici, timidi, superati telefoni a filo
che verranno recuperati dalle cantine e dai solai
spolverati e coccolati
e oltre a quelli l’unica connessione possibile
sarà l’antica tecnologia del corpo!
Baci e abbracci e feste danzanti
tenteranno di supplire, incerti
alla perdita di connessione della rete
allo strazio, alla depressione, alle paure
di miliardi di cittadini digitali
privati della loro “energia” quotidiana.
Provate a immaginare!
Processioni e cortei
festosi assembramenti
diventeranno necessità quotidiana
e il lutto per la perdita dei “like” e dei “selfie”
verrà elaborato da un flusso incessante di
CAREZZE!
E non avendo più psicologi ed esperti
che insegnino on line il “come”
gli umani dovranno arrangiarsi da sé
e reinventare l’alfabeto antico e aptico
del Tatto generatore del Mondo.
Ironia della Storia!
Dopo aver passato i mesi del covid-19
a interrogarci come sarà la nostra vita “dopo”
nell’era del distanziamento sociale
politologi so-tutto-io e filosofi fai-da te
dovranno malinconici stracciar le loro analisi
cambiare il “file” nella testa
e chiedersi se le carezze
basteranno a tenerci in vita
nella nuova era del delfino rosa.
Quel che è certo, a tutt’oggi
è che Whitman e Lu Hsun ci guardano:
sul viso un sorriso impenetrabile.
Reggio Emilia
Vanni Codeluppi
Il sociologo Georg Simmel, in quel breve ma illuminante saggio che era intitolato La moda, ha sostenuto alla fine dell’Ottocento che gli esseri umani sono guidati nei loro comportamenti da due spinte contrapposte operanti congiuntamente: quella che ricerca l’imitazione (o uguaglianza) e quella che muove invece verso la differenziazione (o mutamento). Cioè quella che tende a portare all’imitazione degli altri e quella che cerca di soddisfare il bisogno di cambiamento e distinzione. Perché le persone sono rassicurate dal sentirsi appartenere a una collettività sociale che si comporta nello stesso modo e condivide i medesimi ideali, ma, nel contempo, sono anche gratificate se riescono a esprimere qualcosa di nuovo e originale. Con l’epidemia da coronavirus siamo stati costretti a sperimentare forzatamente e in maniera estrema entrambe quelle spinte di cui parlava Simmel: prima è arrivata l’imposizione dell’uguaglianza, il sentirsi come tutti gli altri, annullando la propria individualità, e poi, dal 4 maggio, con la fine della quarantena, ecco la libertà e la possibilità di essere di nuovo se stessi, di esprimere una personalità differente e specifica.
Abituati a rimanere chiusi a lungo in casa, però, non tutti ne hanno approfittato subito, anche per l’effetto dei ripetuti inviti alla prudenza ricevuti dalle istituzioni. Così, anch’io non ho sperimentato direttamente il piacere della libertà della fase 2. Oggi ho preferito aspettare e vedere come la praticavano gli altri. Mi sono limitato a guardare le immagini nei telegiornali giornalieri del “ritorno alla normalità” e ne ho ricevuto la sensazione che probabilmente i due mesi di quarantena non hanno soltanto cambiato i nostri comportamenti. Hanno anche modificato il nostro modo di pensare. Siamo animali sociali e dovremmo essere naturalmente portati verso gli altri. Ma, dopo la quarantena, vedere delle immagini di folle che si accalcano per le strade o nelle stazioni ferroviarie risulta disturbante. Come sono stati disturbanti nelle scorse settimane i programmi televisivi che erano stati registrati prima dell’epidemia da coronavirus e avevano un pubblico plaudente in studio. Perché la quarantena forzata ci ha portati a pensare che la socialità dev’essere considerata un male. Avvicinarsi ai corpi degli altri è sbagliato. Insomma, per noi adesso cercare la vicinanza è un comportamento immorale. Riusciremo a liberarci di quest’idea?
Roma
Andrea Pomella
Oggi è il 4 maggio, e la prima cosa nuova sono i rumori: il traffico nell’androne, il fruscio dei motori, il mormorio di qualche voce umana che proviene dalla strada, ombre acustiche in movimento fin dal primo mattino. L’impressione è che sia tornato il genere umano, il factum, la realtà. Negli ultimi cinquantacinque giorni avevo preso l’abitudine di svegliarmi presto per sentir cantare gli uccelli. In certe mattine ho avuto l’illusione di poterne apprendere la lingua pigolante, il significato dei loro suoni a volte ascendenti a volte discendenti, di poter diventare io stesso uccello. Oggi è il 4 maggio, dicevo. Ma l’unica possibilità di conservarmi in vita è far finta di avere una vita. Perciò non uscirò neppure oggi, ormai la mia routine è tutta interiore e il meccanismo di difesa è collaudato. Mando gli auguri di compleanno a un amico, rispondo a una telefonata di lavoro, annaffio le piante, preparo la colazione, sveglio mio figlio. Fare queste cose dimenticandomi che non c’è un altrove è diventato una specie di sollievo. Eppure non posso negare a me stesso la novità dei rumori: il suono di una smerigliatrice in azione, il cicalino acustico di una serranda che si apre, un antifurto che suona. Ultimamente la sensibilità della mia corteccia uditiva si è affinata. Ora ho la ricettività dei ciechi. Così la mia nuova chiarezza mentale, e lo sguardo inventivo sobillato dai rumori, mi mostrano questa realtà. E all’improvviso ho un’immagine netta e chiara delle strade di Roma là fuori, invase, come nei ciechi di Bruegel, da una processione di derelitti che avanzano annusando l’aria. Cieco io e ciechi loro. Ciechi tutti. C’è una domanda che incombe e che nessuno ha il coraggio di fare a se stesso – e se le domande avessero un profumo, oggi l’aria ne sarebbe infetta: eravamo come morti e ci siamo risvegliati, o ci stiamo risvegliando in un mondo di morti?
Sabbione (Reggio Emilia)
Claudio Franzoni
Il mio vicino dice che adesso si ricomincia daccapo, che ha capito così; intanto, però, torna nei campi con la mascherina sulla bocca. L’ha tenuta addosso dall’inizio di marzo, a potare le viti da solo. La certezza, insomma, è che il virus sia nell’aria.
Tanti in questi giorni dello star chiusi in casa, avranno pensato alla campagna. Sarei curioso di sapere che campagna hanno immaginato. Abito fuori città, a dieci chilometri dal centro, in un’area agricola. Vicino, una strada a doppia corsia verso le colline, una molto più piccola in direzione della via Emilia. La mattina – parlo naturalmente del tempo “prima” – le macchine passavano fitte verso la città, la sera in direzione contraria; negli ultimi anni, il doppio flusso è talmente aumentato che le auto (e i camioncini che raccolgono il latte dalle stalle) hanno smangiato il terreno da una parte e dall’altra della stradina d’asfalto.
È cominciata la Fase 2 (a proposito, è già qualcosa che non si sia trovata una parola inglese preferibile a “fase”), e qui gli spostamenti sono ripresi, ma di poco. Quello che non è cambiato è il movimento dei trattori, in ogni stagione i veri protagonisti del nostro paesaggio sonoro. Arancioni, alti poco più di un’auto, con scoppiettante motore monocilindrico, sedile in ferro con fori circolari: questi adesso sono nei musei della cultura contadina. I trattori di oggi sono ben altro: giganteschi, ruote posteriori alte quasi quanto una persona, potenza anche di 200 cavalli; rossi, gialli e ipocritamente verdi. Altissimi anche perché c’è la cabina: vetri e tettuccio apribile, sedili in pelle, comandi ad alta tecnologia e monitor touchscreen. Nelle pubblicità di tutte le marche la parola chiave è “potenza”. Non stupisce che ogni anno, qui vicino, ci sia una gara di trattori, una specie di gimcana, seguitissima.
I giri, quelli dei motori intendo, vanno anche molto in alto; in questi due mesi, mentre tutti gli altri suoni si sono spenti – compreso quel ronzio continuo che arriva dalla città – il rombo dei trattori non è mai diminuito, tanto più che i venti-trentenni alla guida (anche loro mascherina di prammatica) sgasano come fossero su una moto.
I trattori vanno e vengono, come al solito, vanno a spandere i liquami sui campi; in questo fiorire di ipotesi e congetture sulla diffusione del virus – siamo solo all’inizio – c’è anche quella che vorrebbe collegarla all’aumento del PM10, a sua volta presunta conseguenza degli spandimenti in aree di allevamento intensivo.
Intanto qui, a poca distanza dai garage dei trattori superaccessoriati, la natura riappare improvvisa. Si racconta di lupi che hanno sbranato un animale qua, un altro là.
Siena
Daniela Brogi
Abbiamo trascorso la “Fase1” a Siena, invece che a Firenze, perché con un balcone la vita a casa sembra meno costretta. Ogni sera, accanto alla Torre del Mangia luccica un drone, squilibrando l’illusione di un mondo medievale rimasto immutato. Di mattina, piccioni, gazze, cornacchie, passerotti, che, separati improvvisamente dalle tracce materiali lasciate in giro dalla vita umana, hanno accorciato, almeno loro, la distanza sociale. Sono animali affamati e siamo noi la loro natura. Intanto, scappando per il cielo, sono tornati gli stormi di rondoni. Nessun rumore di motorini o macchine, nessuna voce dalla strada, niente di niente intorno; di notte, il verso di un allocco in amore si alterna al rintocco delle ore scandito dal campanone. È stata una “Fase1” al di fuori delle vite degli altri, e dunque un esperimento di irrealtà. È sparito persino il tempo senese più tenace, quello del Tamburo – dei ragazzini che imparano a suonare nelle contrade.
Quando ho potuto, la sera dopo le otto, sono sgusciata verso la Piazza, per vederla da vicino, come se potesse scomparire. Perché la Piazza del Campo esiste se è piena di persone, di voci, di gente, di vecchi, di ragazzi che fanno corpo unico coi mattoni. Invece, in questi mesi così inimmaginabili, spesso mi sono trovata lì completamente sola, come se fossi arrivata in un mondo oltre la porta del mondo reale. Muovendomi come in un teatro chiuso perché lo spettacolo non si farà più, ho contato i colonnini, ho guardato l’erba alta, cresciuta come se davvero fosse un campo; da lontano, ho sentito – si percepiva come quando è notte fonda – l’acqua della Fonte Gaia. Cercavo dietro le finestre, tra le insegne dei Bar chiusi, provando una malinconia quasi insopportabile ai fantasmi della mia infanzia. Ho guardato in alto, tra i palazzi, come per chiedere ai muri: dove sono tutti gli altri? È così che mi sono confusa e commossa, per tutta la solitudine di questo scenario disumano. Molte volte, da giovane, nelle notti d’inverno, ho amato tornare a casa attraversando la Piazza del Campo, senza che passasse un’anima. Ma un conto è uno spazio deserto, un conto è uno spazio tolto a sé stesso. Perché la Piazza era diventata una piazza spiazzata.
Nel primo giorno della “Fase2” ho cercato ancora la Piazza. Una trentina di persone, voci di richiamo, guanti che salutavano, facce stropicciate dalle mascherine e capelli lunghi. Finalmente, però, ho trovato quello che non si vedeva da mesi e che, l’ho capito solo in quel punto, era insensatamente mancato più di tutto: le bambine e i bambini. C’era chi scappava, finalmente, con trenta centimetri di gambe, senza dover stare per mano a un genitore; quelli che si rincorrevano con un bassotto dagli occhi paranoici; e poi il bambino più bello di tutti, una piccola persona che stava imparando a andare in bicicletta, incurante di trovarsi proprio nella “Fase2”, quella del ritorno della Piazza.
Siracusa
Angelo Orlando Meloni
Ho visto le menti più paranoiche della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi sui balconi alla ricerca di un runner da denunciare, hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto con l’invettiva nel macchinario della Rete…
Spero che Allen Ginsberg non si rivolti nella tomba dopo quest’adattamento dei suoi versi, ma appare chiaro che finora la clausura da coronavirus ci ha offerto lo spettacolo nazionale della paranoia, imbellettata con le paillettes del patriottismo canzonettaro. Tutte le città uguali, compresa la mia Siracusa, dove vivo, tutte accomunate dalla caccia all’untore. Anche se le strade erano vuote, le percepivamo straripanti di folla. Se c’era una fila, erano tutti lì per diffondere il contagio. I posti di blocco li avremmo voluti a livello condominiale, a ogni piano, se possibile, tranne che nel nostro.
Quale ulteriore conseguenza di quest’agenda a base di morti, malattia, disorganizzazione e disordini mentali, abbiamo sperimentato la desertificazione della città turistica. Un’Ortigia postatomica che i notabili locali, insieme ai sodali della middle class protetta da uno stipendio statale, hanno potuto vagheggiare compiacendosi dei vicoli privi di vita e soprattutto di turisti. Gli odiatissimi turisti rei di portare un po’ di soldi in una città i cui figli sono scappati a migliaia per trovare un lavoro. Quei turisti che osano camminare per le antiche vie già solcate da Platone. Che osano godere di quei tramonti nostri per diritto divino. Che osano prendere il sole lì dove solo noi discendenti degli antichi greci possiamo adagiare le nobili terga. Il coronavirus, flagello dello spazio sociale e dello spazio interiore, ha fotografato una città raggelata, nel momento del suo abbandono, in cui l’umanità si ritrae. Immagine speculare, forse, agli spazi mentali di quelli che si oppongono fieramente ai “barbari” turisti e che, grazie a un’epidemia che ha messo in ginocchio il pianeta Terra, hanno potuto realizzare i loro sogni. Ma da oggi si cambia registro, inizia la fase due, si spera un po’ meno tetra e paranoica della precedente. Mi raccomando, allora, laviamoci le mani, indossiamo la mascherina, rispettiamo gli altri e noi stessi e in attesa che i turisti tornino a regalarci ossigeno e gioia di vivere, cerchiamo di ricominciare, oggi un po’ meno abbrutiti e sospettosi di ieri. Come si dice, anzi, come si urla da queste parti durante la processione della santa: “Sarausana jè”.
Torino
Enrico Manera
Sarà per i numeri terribili dei morti, sarà per il consueto ottimismo locale, ma dalla Fase 2 non sapevo cosa aspettarmi.
Fin dal mattino c'è più rumore per la strada e un po' più di traffico attorno a corso Regina e via Rossini ma, anche a causa del fatto che in città la ristorazione (asporto) non ripartirà fino al 9 maggio e che molti non apriranno comunque, quasi tutte le serrande del mio quartiere, negli ultimi anni molto vivo e dinamico, rimangono giù. Tanti studi di grafica, architettura, comunicazione continuano a lavorare in remoto, alcuni stanno pensando di mollare lo spazio e ritoccare verso il basso l'attività.
Non riesco a sentire la ripresa del lavoro per molti, se non dalla maggior disponibilità di parcheggi e dalla minor coda ai negozi di alimentari di prossimità.
Esco di casa, dopo le lezioni di scuola e dopo pranzo, per un giro in bicicletta con mia figlia Caterina (undici anni). La nostra prima uscita su strada dopo due mesi è un misto di entusiasmo, ebbrezza del sole sulla pelle e codini al vento, e di preoccupazione e sottile disagio per l'imprevisto in uno spazio altrimenti familiare.
Nel pomeriggio la spinta delle persone che si ritrovano, pur con mascherine e distanza interpersonale, si fa sentire maggiormente. Nessun assembramento, molta esitazione e sguardi con le diverse tonalità dell'incredulo. A colpire l'attenzione sono ragazzi e ragazze che ritrovano gesti e parole in una diversa bolla d'aria: gruppetti di amiche e coppie di varia età, ritrovatesi dopo settimane di espulsione dallo spazio pubblico.
Con la bici mi spingo fino a piazza Castello, piazza San Carlo, via Roma, via Po. Il centro città splende di sole e sembra prepararsi senza troppa convinzione alla nuova fase di cauta apertura, in cui sono moltissimi a non credere. Chi in maglietta, chi con il piumino. Come tutti, sono diviso tra la libertà di fruire liberamente dello spazio aperto e la preoccupazione di quelle che potranno essere le conseguenze di quella presenza. Sembriamo gatti domestici in un giardino pubblico.
Passo per le strade abituali, davanti alla mia scuola e all'università, cerco suoni e tracce della consueta animazione, senza trovarle. Incontro una vecchia conoscenza che, dopo diverse ore di tele-lavoro, può andare dalla ragazza, non convivente, in un altro quartiere. Sono diverse le carrozzine, giovani madri con ombre pesanti attorno agli occhi. Una voce femminile rompe il silenzio per vezzeggiare il figlio di un'amica, cresciuto molto nel frattempo.
L'ultima tappa del mio giro è in libreria, dove compro per mia figlia un atlante delle lingue del mondo. Probabilmente, deve ancora tutto succedere.
Venezia
Enrico Palandri
Qui non è finita. Stamattina i commercianti hanno manifestato ma già nel pomeriggio Venezia era di nuovo vuota. Ci siamo rapidamente abituati a cambiamenti così profondi nella vita sociale che è difficile capire quali di questi resteranno anche quando non sarà più pericoloso abbracciarsi e baciarsi. Gli sguardi che si scambiavano gli sconosciuti, i non congiunti e i non amici, sono quello che oggi manca di più. C’è desiderio di tornare insieme? Chi lo sa, forse la paura degli altri, su cui ha tanto lucrato negli ultimi anni un sentimento xenofobo e paranoide, non si oppone più a nulla e siamo diventati tutti stranieri, tutti contagiabili, e per uscire da questa paura non basterà un decreto. Non si tratta tanto di riaprire al turismo e al commercio, ma di guardarci in un altro modo. Ho un ricordo triste dei sentimenti della generazione più vecchia della mia, che aveva vissuto il fascismo e la guerra, tanta morte e quello che l’accompagna, la paura, la fame, la forza minacciosa di chi pensa di essersela cavata, di essersi lasciato il peggio alle spalle. Questo era lo sguardo che trovava incredibile che i figli dei fiori credessero davvero all’amore e ai fiori nei cannoni. Accusavano i giovani di rivoluzione sessuale come fosse una malattia o una licenza lasciva. Per me le piazze piene erano soprattutto un abitare il mondo sentendolo pieno di incontri possibili, di speranza di incontri possibili. Di sguardi che si cercavano e che erano pronti a incontrarsi. La notte a camminare e parlare. Per ritrovare questo ci vuole una vitalità che non è data dal commercio o dalla fine di un’epidemia, è piuttosto la voglia di essere insieme. Uscire con una mascherina e i guanti sperando di non morire, chissà per quanto, non basta. Saremo capaci di ridare alla Fondamenta degli Ormesini, negli ultimi anni così ricca di locali e gente che parlava, la forza di portarci fuori da noi? Di attrarci e farci parte degli altri? Speriamo che l’esperienza così diffusa di temere ed essere temuti ci abbia insegnato che cosa orrenda è mettere qualcuno in quella posizione, e che se non domani dopodomani le città ritornino a fiorire di quello che gli umani vogliono vivere insieme.
Villa d’Ogna (Val Seriana, Begamo)
Giorgio Mastrorocco
Il problema è che finché non riaprono i bar sarà difficile farsi un’idea del cambiamento in corso, è quello il posto dove puoi capire qualcosa: fatemi fare due chiacchiere con le bariste, per favore, ne ho bisogno io e ne hanno bisogno loro. Non siamo in città, dove lo sferragliare più frequente dei tram e delle serrande alzate dei negozi ti segnala che è iniziata una mattina diversa. Da noi, in paese, solo qualche macchina in più di passaggio, qualche ragazzo in bici, voci meno timorose rispetto all’altro giorno.
In piazza, davanti al monumento ai Caduti, sono state piantate sul prato diciannove bandiere tricolori, stamattina le ho fotografate. L’analogia suggerita coi morti di tutte le guerre è fuorviante, lo sappiamo: qua nessuno è andato a combattere volontario o per chiamata. Forse non c’era uno spazio che garantisse al ricordo la stessa visibilità, non so. Per dare l’idea di quanto è successo, sarebbe come se a Bergamo, nel capoluogo, si dovesse cercare un posto per milleduecento bandiere. Queste cose funzionano, a modo loro, solo nei piccoli paesi.
In piazza comunque, davanti al Municipio, ho viste parecchie macchine in sosta, la coda davanti all’ufficio postale, la farmacia con le porte spalancate. A Clusone, m’hanno detto, è tornato il mercato all’aperto, in dimensioni e a orario ridotti, ma anche lì coi clienti costretti all’attesa per il distanziamento. Là un terzo degli anziani dell’RSA non ci sono più. Là solo quattro giorni fa un cittadino s’è buttato dal balcone di casa: era tornato da più di un mese dall’ospedale, ma senza tampone, in “sorveglianza domiciliare”. Così, abbandonato dai ”sorveglianti” e angosciato dall’idea di rappresentare un rischio per la famiglia, ha tolto il disturbo: ultima vittima di un sistema sanitario cieco e sordo, e quindi gravemente inadeguato.
L’altro giorno ho trovato una busta nella cassetta delle lettere, me l’ha lasciata una signora che non conoscevo, voleva farmi leggere qualcosa di suo: come fai a dirgli di no? Qualcuno dal terrazzo del cimitero di Bergamo recita un monologo rivolto a Dio o all’umanità, non so, che dopo un paio di pagine manoscritte su foglio di protocollo a righe si conclude “al suono di Amara terra mia” di Domenico Modugno. Ho pensato che ai primi del ‘900 la cantavano i migranti abruzzesi, e che anche qui c’è da riflettere.
La riapertura permette infine di tornare nei boschi, mia moglie non ha aspettato e già da un paio di giorni ha cominciato a portare a casa mazzi di mughetti, che per me hanno da sempre il profumo della primavera. Io da domani cercherò di raccogliere qualche spugnola, se ne sono rimaste, se non è troppo tardi.