Armando Minuz. Bosco e sangue
Davvero molto interessante l’esordio letterario di Armando Minuz (Ho portato sulle spalle mio padre), collaboratore della rivista La luna di Traverso e chitarrista nei Waldo Jeffers Quartet. È nato ai piedi delle Dolomiti, ma ormai da anni vive a Parma e proprio nella città emiliana, ma soprattutto sull’Appennino è ambientato questo racconto lungo, caratterizzato da una scrittura secca e senza orpelli.
Il protagonista è Emilio, professore di letteratura italiana presso l’Ateneo parmense, un uomo ferino che vive al limite del mondo. Il racconto comincia con un pugno che Emilio dà sul naso di un suo studente. Alla vista del sangue, che sgorga interminabile dal povero ragazzo, Emilio fugge sconvolto. Il sangue è sicuramente la costante di tutto il libro, che riflette sulle radici famigliari, oltre alla bestialità: la corporeità e la gestualità sembrano gli unici modi per comunicare. Minuz si inserisce in una linea narrativa che fa delle radici famigliari il proprio topos letterario, penso tra i tanti a Ovunque vai, proteggici di Elisa Rutolo e Nel tempo di mezzo di Marcello Fois.
Dopo il discutibile e drammatico fatto, Emilio decide di tornare nella casa paterna sull’Appennino emiliano, dove è rimasto a vivere il fratello maggiore Leone. Nella sua stanza Leone sta finendo di intagliare un’opera, riproduzione esatta dell’Enea, Anchise e Ascanio di Gian Lorenzo Bernini. Sì perché il padre Lando, che aveva ripudiato Emilio dopo la scelta di non seguire le sue orme e quindi di lavorare i campi, ha una malattia al cervello che lo porta ad immaginare di vedere un gruppo di mostri a seguito di un capobranco, che imperversano nel bosco antistante la loro casa. Da anni Leone lo aiuta nel duro lavoro e lo sorregge.
I rapporti tra i tre uomini sono assolutamente basici ed elementari, i verbi più utilizzati riguardano la bocca, le mani e il corpo in generale. Sembra che qualcosa aleggi sopra di loro, un’entità che spesso riverbera dalla luce profonda e quasi celestiale che tutte le mattine si intravede dalla finestra della stanza di Emilio. Questa assenza/presenza è in realtà il punto d’accordo tra questi tre uomini: la madre di Emilio e Leone, la moglie di Lando. È morta da tanti anni, ma come si capisce dalle pagine di Minuz ha lasciato un vuoto incolmabile, che non hanno riempito l’alcool di cui ha abusato il padre negli anni, neppure l’aver lasciato la casa famigliare da parte di Emilio e neanche la scelta di Leone di rinchiudersi, come un animale ferito e indifeso, nella sua piccola tana, fatta di false speranze e sogni irrealizzati.
Credo che il titolo possa deviare il lettore dal punto nevralgico del racconto: non si deve guardare tanto ai simboli maschili, come il lavoro nei campi e la caccia, di cui sono grandi esperti Lando e Leone, quanto a quelli femminili che più volte vengono messi in evidenza da Minuz: il camino, inteso come focolare domestico e soprattutto il bosco, simbolo fiabesco della Terra-madre. È proprio nel bosco che i tre protagonisti del racconto, come nelle tragedie greche – perché in fondo Minuz rielabora la tragedia antica – avranno la loro catarsi e quindi potranno rappacificarsi con il mondo.
Una notte il padre, fucile in spalla, decide di inoltrarsi nel bosco in cerca del capobranco che da anni lo tormenta – e chi è il capobranco se non la moglie? Lo seguono, preoccupati, Leone ed Emilio. Ed è proprio quella lunga notte in questo “tunnel materno” che cambierà per sempre le loro vite. Emilio e Leone, dopo aver deciso di accamparsi con una tenda, vittime dell’alcol si ricordano di un evento drammatico che aveva sconvolto la loro infanzia e li aveva legati in modo drammatico e indissolubile: la minaccia di morte che nella casa del Tugo Leone aveva fatto a un carabiniere, nascostosi per un’ora di intimità con una ragazza ancora minorenne. Il padre invece si addormenta in una grotta, dove anni prima si estraeva asbesto. Durante la notte Lando torna bambino e vede l’immagine del padre, che aveva lavorato in quella miniera: un vero e proprio ritorno all’infanzia.
Nel bosco, alla presenza della madre, tutti e tre, Emilio Leone e Lando, vengono trasformati e sembrano finalmente fare i conti con il proprio passato, con le proprie questioni di sangue. Ecco perché la chiave di volta è la madre, ed è grazie a lei che possono andare avanti nella vita. La mattina seguente Leone trova il padre, che pochi anni dopo morirà. Nel frattempo la statua in legno è stata terminata e ad Emilio non resta che lasciare in modo definitivo la casa paterna. L’immagine finale è emblematica: Leone guarda le spalle del fratello che si incammina all’auto per tornare a Parma. In quel preciso istante la Natura è in silenzio e in giro non si vede più nessun capobranco. Il racconto può concludersi, ma la sensazione che Minuz lascia al lettore è quella di un profondo ignoto, l’oscurità della vita stessa.