Riti e miti del pallone / Augé e la religione del calcio

28 Giugno 2016

È una foto in bianco e nero: di spalle il portiere del Brasile Moacir Barbosa Nascimento in tuffo sul palo di sinistra, di fronte a lui l’attaccante dell’Uruguay Alcides Ghiggia. La palla si sta andando a insaccare dietro Barbosa, tutt’intorno gli spettatori del Maracanà. È il 16 luglio del 1950 e quella palla sancirà la vittoria dell’Uruguay, allenato da Lòpez Fontana e capitanato da Obdulio Varela, al Mondiale. La foto rende magistralmente il silenzio attonito e sbigottito dei tifosi brasiliani, convinti che il loro Brasile avrebbe vinto per la prima volta la coppa dopo esserci andato molto vicino nel 1934, e il clima surreale reso ancora più chiaro dal viso sorpreso di Ghiggia. 

 

Poi c’è tutto quello che la foto non può dirci e che succede dopo che l’arbitro George Reader fischia la fine della partita: sugli spalti decine di persone vengono colte da infarto e due spettatori si suicidano gettandosi dalle tribune. Il silenzio è spezzato solo dal suono delle sirene delle ambulanze che accorrono allo stadio per aiutare i numerosi spettatori che si erano sentiti male. In campo i giocatori del Brasile e quelli dell’Uruguay piangono, qualche anno dopo Obdulio Varela spiegherà che solo quel giorno, vedendo sugli spalti i bambini piangere, aveva capito cosa significasse la parola sconfitta. Quel giorno si è assistito alla tragedia di un intero popolo, che non può essere spiegata solo in termini psicoanalitici o sociologici. Il Maracanazo, termine spagnolo che si riferisce alla sconfitta contro ogni pronostico del Brasile contro l’Uruguay, ha una spiegazione che va oltre il mero dato quantistico; per essere capito non basta dire che si erano disattese le speranze e le rivendicazioni sociali di un popolo, c’è qualcosa di più primitivo e ancestrale, qualcosa che è legato alla fede e alla religione.

 

È proprio quello che ha fatto Marc Augé, l’antropologo del quotidiano e del non-luogo, svelando la dimensione religiosa e rituale del calcio. Così aveva scritto in un articolo uscito nel febbraio del 1982 sulla rivista Le Débat2 dal titolo significativo Football. De l’histoire sociale à l’anthropologie religieuse. Oggi questo breve saggio viene proposto per la prima volta in Italia dalle Edizioni Dehoniane di Bologna con la traduzione di Eleonora Montagner, poco prima dell’inizio degli Europei.

Il testo è stato scritto negli anni Ottanta e molte cose sono cambiate nel mondo del calcio, sicuramente è venuta meno quella poesia che ancora si può ritrovare nelle pagine di Augé, ma una cosa resta certa: il calcio è il vero oppio dei popoli. 

 

È un fenomeno religioso per diversi fattori, prima di tutto la sua valenza totemica: le squadre di calcio sono veri e propri totem, simboli attraverso i quali i tifosi si rappresentano e identificano, basti pensare ai gagliardetti o ai colori delle maglie. Questa rappresentazione comporta un fervore religioso nei confronti della squadra del cuore e, ancora più importante, una identificazione metonimica al gruppo: ci si sente parte integrante di una comunità. Proprio per questo motivo ci arroghiamo tutti il diritto di essere “allenatori”, perché condividiamo con la nostra squadra i suoi riti.

 

Questo è il punto fondamentale al giorno d’oggi: in un mondo che ha fatto dell’individualismo e del solipsismo il suo credo, il calcio dà ancora la possibilità di creare una comunità, di sentirsi parte di qualcosa, sia come tifosi, quindi pensando al calcio come spettacolo: del resto è un momento di grande convivialità e felicità quando ci si può sedere in poltrona con gli amici davanti al televisore per vedere giocare la propria squadra del cuore; sia nella pratica: quasi tutti gli uomini in età da matrimonio si vedono regolarmente una o due volte a settimana, per i più stoici, per giocare la partita di calcetto e sentirsi per almeno un’ora come i propri beniamini, provando mimeticamente a realizzare le loro prodezze.

 

Ma non solo, come tutte le religioni anche il calcio ha le sue sette, che si esprimono nelle diverse visioni che si hanno del gioco. C’è chi ha una visione individualista, in cui domina il dribbling e le potenzialità del singolo giocatore, e chi invece ama un sistema basato sui passaggi e il superamento della difesa attraverso il gioco di squadra. Ma non solo, c’è chi ama il bel calcio anche se si perde, chi invece preferisce vincere anche giocando male; poi c’è il caso di chi (penso a noi interisti) gioca male e perde. Negli ultimi anni esempio perfetto di calcio “nobile” è stato il tiqui-taca del Barcellona, calcio di una geometria paradisiaca alternato da giocate singole sublimi, ad opera soprattutto di Lionel Messi. Anni prima c’era stato il calcio totale della grande Olanda del compianto Johan Cruijff, che però non ha mai vinto nulla. Pochi giorni fa abbiamo assistito a uno scisma di tipo religioso durante la finale di Champions League tra i fedeli del cholismo, calcio feroce e molto muscolare, e quelli che invece prediligevano lo zidaneismo, gioco basato sulla capacità dei singoli. C’è un motto religioso, di stampo manicheo, che sintetizza questo discorso: “Dimmi come giochi e ti dirò chi sei”.

 

 

 

I calciatori sono semi-divinità, il calcio non può che essere una religione politeistica e pagana, e noi spettatori siamo come gli dei di Omero che li vediamo dall’alto battersi. Ogni tanto ci sono giocatori che entrano nel pantheon delle divinità perché hanno fatto da collante tra cielo e terra, veri e propri angeli caduti che tornano da dove erano venuti: penso a Garrincha, che nonostante la poliomielite è stato la più grande ala destra di tutti i tempi, dotato di una creatività tecnica sconcertante; a Franz Beckenbauer che nella semifinale del 1970 contro l’Italia, persa ai supplementari 4 a 3, rimase in campo con un braccio fasciato per una spalla slogata; oppure al gol di mano di Maradona contro l’Inghilterra nei mondiali del 1986, ribattezzata giustamente “la mano de Dios”.

 

Nel suo libro Marc Augé parla soprattutto del calcio inglese di fine Ottocento inizio Novecento per suffragare le sue tesi, citando la monumentale opera di Tony Mason sulla storia sociale della Football Association. Venendo dalla Francia non ha certamente la stessa passione per il calcio che si ha nei paesi mediterranei o in Sud America, come tutti i francesi, è un amante degli sport individuali, e si esalta maggiormente per una demi volée al Roland Garros o per no stacco in salita durante una tappa dolomitica al Tour de France. 

 

Si dovrebbe cercare di capire come sta il fenomeno religioso calcio in un paese come l’Italia, dove nella Capitale ci sono emittenti radiofoniche che parlano di calcio 24 ore su 24, nel 2014 si fecero due interrogazioni parlamentari contro l’arbitraggio di Rocchi in Juve-Roma, e dove in quasi tutti i bar ogni discorso sulla politica finisce sempre e comunque sul calcio. 

In un momento da “caduta dell’Impero romano”, per usare un eufemismo il calcio non nuota in buone acque. Il Presidente della FIGC Carlo Tavecchio, degno erede di “Bongo bongo bongo stare bene solo in Congo”, ha apostrofato il giocatore della Juve Paul Pogba “Opti Pobà”, rincarando poi la dose dicendo che prima di giocare nel campionato italiano “mangiava le banane”. Gli stadi, più che a cattedrali assomigliano a chiese assassinate o a rovine di templi aztechi e inca: edifici fatiscenti ormai nelle mani di pochi tifosi che sfogano durante la domenica la loro perdita di speranza e di reali possibilità di realizzazione personale. All’urlo renziano di “rottamazione”, il prossimo c.t. della Nazionale italiana sarà Giampiero Ventura, età 70 anni. Dulcis in fundo, la nazionale che si appresta a giocare gli Europei è forse la più scarsa degli ultimi trent’anni. 

 

Alla fine del suo saggio Marc Augé chiede al lettore: “Forse l’Occidente sta anticipando una religione e ancora non lo sa”? Si potrebbe rispondergli: “Il Dio del pallone è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”. Al Dio del calcio si è sostituito quello del denaro, così come al dribbling si è sostituito il fair play finanziario. Il calcio come fenomeno religioso rischia che i suoi fedeli si disincantino, secondo le parole di Max Weber, ma ci potrebbe essere un colpo di reni come nel 2006, quando l’Italia vinse i Mondiali dopo la tragedia Calciopoli.

L’Italia, così come gli italiani, dà il meglio di sé nei momenti peggiori, mostra il suo spirito agguerrito di squadra: non ci sarebbe da meravigliarsi se una vittoria agli Europei cancellasse gli ultimi anni di profonda crisi del calcio italiano, perché come tutti i fedeli del mondo, anche gli italiani hanno una memoria corta e molto influenzabile. 

 

Ma anche questo sperare nella vittoria agli Europei come riscatto sociale del calcio italiano e in fondo del paese stesso non è forse una fede totemica bell’e buona? Direi proprio di sì, e anche per questo motivo il saggio di Augé, benché uscito più di trent’anni fa, può dire ancora molto sulle dinamiche di questo sport tanto amato e più in generale sulla specie umana, del quale bene o male anche l’italiano fa parte.

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