Un saggio di Paolo Bertinetto / Arti dell’improvvisazione

28 Novembre 2021

Improvvisa la vita

Ottieri

 

Quando ripariamo un ventilatore con un pezzo proveniente da un altro elettrodomestico; quando cerchiamo di cavarcela in una situazione sociale inaspettata; quando immaginiamo un percorso alternativo, forse non sappiamo di stare facendo qualcosa di simile al sax di Coltrane che inanella uno sull’altro, con incredibili grazia e violenza, i propri taglienti sheets of sound. Non stiamo ovviamente facendo la stessa cosa, ma di certo qualcosa di imparentato con l’azione artistica improvvisata.

Questo e altro il lettore può apprendere dal saggio di Paolo Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione (Bologna, il Mulino 2021), che si prefigge di elevare a dignità estetica una modalità dell’arte per cui l’Estetica moderna ha sempre mostrato una certa diffidenza: laddove, invece, gli ultimi due secoli hanno visto in generale, in molteplici contesti culturali, un rilancio dell’improvvisazione nelle diverse prassi artistiche. Se il secondo capitolo è dedicato a delineare il concetto-base dell’intero saggio: la «grammatica della contingenza; il primo e l’ultimo, rispettivamente La nascita dell’arte dallo spirito dell’improvvisazione e Un’estetica della riuscita: improvvisazione come filosofia dell’arte, ne affrontano le implicazioni estetico-filosofiche; il quarto esplora per così dire fenomenologicamente il concetto-base passandolo al vaglio delle sue incarnazioni nelle varie arti. Esse vengono distinte secondo una loro più o meno stretta adesione al concetto di performance o a quello di «prodotto», cioè un artefatto ‘risultante’ da precedenti pratiche improvvisative (Arti dell’improvvisazione).

(Avendo già dedicato un libro al jazz e alla musica improvvisata – Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione, Il Glifo, 2014 –, Bertinetto sceglie di non parlarne; tuttavia questa recensione vi farà riferimento data la sua importanza.).

 

 

L’autore decostruisce innanzitutto alcuni miti. Da un lato abbiamo l’esaltazione dell’improvvisazione da parte dello ‘spontaneismo’ di matrice romantica, che arriva a ben vedere fino ai surrealisti e oltre. Croce, ricostruendo la storia di tale pratica nella poesia d’Ancien Régime, la condannò come una sorta di parodia della «vera» ispirazione. Infatti: «per la particolare impostazione della sua estetica [...] [Croce] non poteva apprezzare il carattere embodied di questa pratica» (Estetica dell’improvvisazione, Laterza 2021, p. 101. D’ora in poi indicato con la sigla EI). In realtà la ‘tecnica formulare’ che gli aedi antichi o le torrenziali macchine-da-poesia settecentesche usavano con sapienza, si reincarna oggi in fondo nella cassetta degli attrezzi del free (!) style rap.

 

La svalutazione dell’improvvisazione come meccanica applicazione di formule – nella quale la necessità di non interrompere il flow andrebbe a discapito proprio dell’euristica del nuovo – si esemplò nella condanna da parte di Adorno del jazz quale musica di massa, perfetta colonna sonora per i ritmi macchinistici della vita americana, divisa tra produzione e consumo.

Il terzo pregiudizio esaurisce il tema estetico dell’improvvisazione nell’«imperfezione», vista come valore positivo. In effetti, se si pensa alla ruvidezza eccitante di alcuni assoli jazzistici si potrebbe essere tentati di dar ragione agli «imperfezionisti». Ma essi ricadono nel «categorialismo» estetico dal quale vorrebbero fuggire, in quanto l’elezione a tema estetico centrale dell’imperfezione comporta necessariamente l’attribuire dignità ontologica a un’ipotetica arte perfecta, esattamente congrua al suo modello/paradigma ideale. La rozzezza, il funk di una performance improvvisata è bensì un valore estetico, ma lo è all’interno di un preciso contesto situativo, di una rete di pratiche e di aspettative. Un atteggiamento molto ‘laico’ dimostra pure Bertinetto rispetto alla questione dell’autenticità dell’improvvisazione (cui l’idea dell’imperfezione è legata) e della relativa aura che la circonda. L’autenticità eventuale può essere solo attribuita ex-post, cioè in parole povere quando l’improvvisazione è davvero riuscita.

 

 

Tra i vari ‘errori‘ di cui Adorno forse cadde vittima, si potrebbe indicare la mancanza di «empatia», il non mettersi realmente nella posizione del produttore e del fruitore di jazz. L’empatia è non a caso uno degli ingredienti della «grammatica della contingenza» che Bertinetto prova a costruire. L’empatia sarebbe la condizione necessaria per l’avventura’ del fruitore, che può funzionare anche nel fraintendimento (il paradigma invocato è quello del «gioco che gioca i giocatori» di Gadamer). La meccanica del rapporto produttore-fruitore nelle pratiche improvvisative viene paragonato poi a quella del freudiano «motto di spirito»: la reazione a un Witz è infatti a propria volta creativa, dovendo rispondere a una mossa che apre una possibilità di senso, uno stato di eccezione nel processo.

 

A proposito del concetto di «imprevisto», l’autore deve affrontare dei paradossi. L’orizzonte di attesa del fruitore è generalmente marcato nella direzione dell’imprevisto che però, guarda caso, può anche non verificarsi. Ma proprio questo non accadere è a propria volta l’imprevisto!

Un altro concetto che sarà centrale nei paragrafi più filosofici è il «making sense of sense making», l’autoriflessione dell’invenzione che si attua nelle pratiche improvvisative. Essa invita lo spettatore ad abbracciare il dubbio sull’intenzione (e di riflesso sull’interpretazione) dell’operare artistico. D’altre parte lo spettatore dell’arte improvvisata ha spesso sviluppato un’expertise speculare agli indispensabili skills dell’improvvisatore. Tale «regola del gusto», dice Bertinetto, genera i propri contenuti in un modo «situativo».

 

Già il primo capitolo, infatti, dichiara la centralità della «presenza». L’improvvisazione trova il suo baricentro nella presenza e nel presente, in un punto fuggente del divenire dove produttore e fruitore devono abitare insieme con tutta l’intensità possibile. Anche il tempo ‘reale’ (irreggimentato da contingenze extra-estetiche) e il tempo della performance tracciano un circolo che può essere virtuoso, come quando Jarrett nel Köln Concert riprendeva nell’incipit del suo flusso pianistico il suono della campanella d’inizio (chi scrive ha assistito ad un’analoga performance di Bill Frisell a Clusone Jazz, dove il chitarrista si trovò a duettare con le famose ‘campane’ della Basilica).

Si racconta che Charlie Parker salutasse l’ingresso, nel club in cui si stava esibendo, di un amico soprannominato Woody Woodpecker suonando il refrain (a propria volta ispirato, dunque con intrigante myse en abyme, proprio allo stile bop) del cartone. Così facendo Parker non ammiccava solo ad un amico, o alla comunità ristretta degli hipsters, ma a quella relazionalità ‘ontologica’ dell’improvvisazione per cui ogni input diventa un output, e viceversa (d’altronde il gesto di Parker si ricollega alla pratica del signyfing, di cui ampiamente si disserta in D. Sparti, Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Bollati Boringhieri, 2007). Ciò (non solo nel jazz) si chiama interplay: il continuo ascolto degli altri e del contesto esterno che è alla fin fine la ricetta della creaturale e volatile bellezza dell’improvvisazione riuscita.

 

Il materiale di partenza rappresenta insieme il piano di consistenza e la salutare catena che imprigiona l’artista in modo che possa costruire il nuovo, anche quel poco di nuovo che si può ricavare dal più routinario set... Ciò che qualsiasi arte improvvisata ‘mette in scena’ è infatti l’«emergenza del senso nel prendere forma di un materiale» (Bertinetto). Ma questa è eminentemente esposta al rischio del fallimento e mostra – altro paradosso – la condizione di (im)possibilità della grammatica della contingenza cui l’improvvisazione obbedisce nel suo farsi.

Affascinante è comunque l’idea della ‘kairologia’, studio dell’attimo propizio per mettere in atto quel movimento imprevisto, quell’uscita dalla scala o dall’accordo, quella parola che la formula non contempla: sempre che l’improvvisatore riesce a cogliere la fuggente Fortuna per i capelli (così gli antichi rappresentavano il Kairòs). Entrambi gli attori dell’esperienza (produttore e fruitore) sperimentano allora l’eccitazione della curiosità, del desiderio, della suspence: e talvolta quell’attimo supremo in cui qualcosa accade, in cui un piccolo Evento, o una sua scintilla, volge a noi il suo lato esperibile.

 

 

Lasciando di esplorare al lettore curioso o specialista i bei paragrafi che Bertinetto dedica al cinema e al teatro improvvisati (nonché, molto più a malincuore, quelli sulla multimedialità digitale) mi soffermerò sulla letteratura. Chi ha visto il film che Cronenberg ha tratto dal Pasto nudo di Bourroughs, ricorda la scena in cui i giovani Ginsberg e Kerouac discutono di letteratura al tavolo di un diner. Se Ginsberg dichiara la sua volontà di correggere e ricorreggere le sue poesie fino a raggiungere l’espressione assoluta, Kerouac è un sostenitore della scrittura come flusso ininterrotto, soggetto solo al ritmo della macchina da scrivere: unica procedura che consente di non perdere i propri migliori e più autentici pensieri.

Bertinetto, se seduto a quel tavolo, avrebbe redarguito Kerouac: l’ostentata spontaneità della scrittura letteraria è un effetto propriamente retorico, simile alla «sprezzatura» di Castiglione. L’effetto di spontaneità della pretesa improvvisazione totale nella scrittura (o nella fotografia) si lega anche alla volontà di creare un effetto di autenticità: quanto quest’ultimo infesti la «letteratura circostante» di oggi è inutile sottolinearlo (Il mio richiamo è ovviamente a G. Simonetti, La letteratura circostante: narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, il Mulino, 2018.). La riflessione prosegue:

 

Si potrebbe così dire che l’improvvisazione poetica ha valore estetico quando la poesia non è solo descrizione dell’esperienza e rappresentazione della realtà – in sé contingente, effimera e metamorfica –, ma essa stessa (produzione di) esperienza contingente, effimera e metamorfica.

 

A un livello superficiale si potrebbe rispondere che anche la letteratura come descrizione-rappresentazione ecc. può essere modo di produzione di esperienza (si pensi se non altro ai grandi monumenti del Modernismo). Ma sullo sfondo avvertiamo la presenza del grande problema della Rappresentazione e sua eventuale clôture, auspicata con poca speranza a suo tempo da Jacques Derrida per il teatro (Cfr. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968, pp. VII-XXXV).

Chi ci si è avvicinato di più, sembrerebbe arguirsi dalle argomentazioni di Derrida che però non lo cita, è stato forse Carmelo Bene e, prima, Artaud. Non a caso l’esempio di una scrittura «veramente» improvvisata, nella cui esistenza Bertinetto ha fede, è quello di Robert Walser. Col quale però ci si addentra nei territori di una scrittura che ha superato la soglia dell’Altrove, o almeno ha abitato a lungo nella «crisi della separazione tra arte e vita e vita e realtà» (p. 129), che invece l’improvvisazione o il readymade dada e duchampiano hanno soltanto ‘messo in scena’. La metafora (ricorrente) appare non del tutto impregiudicata (se soltanto si pensi all’ossessione di Bene per il ‘togliere’ di scena.). Ma ipotizziamo pure che attraverso i suoi riti scenici l’improvvisazione nelle sue multiformi ipostasi si sforzi non solo di esorcizzare la rappresentazione, ma anche di celebrare un adorcismo per un possibile al di là di quella.

 

 

L’intero testo di Bertinetto è volto a ribaltare l’assunto che l’improvvisazione sia un fenomeno ‘minore’ della creatività artistica; al contrario: «l’improvvisazione offre il modello della dinamica trasformativa dell'arte» (p. 152). Ciò comporta innanzitutto la decostruzione del mito (ennesimo) dell’onnipotenza autoriale: «La riuscita e il significato di un’opera, responsabili della sua identità ontologica come costrutto culturale, non possono dipendere unicamente dalle intenzioni dell’autore» (p. 153). Inoltre (qui la critica della ricezione plaudirebbe): «[...] la formazione di un’opera non termina quando l’artista smette di lavorarci ed espone pubblicamente quanto ha fatto» (ivi). Negli ultimi paragrafi del libro Bertinetto torna alla sua critica del categorialismo, «secondo cui l’identificazione ontologica di un’opera d’arte è condizione per la sua valutazione (non evaluation without identification), dev’essere rovesciato nel principio contrario: non esiste identificazione senza valutazione (no identification without evaluation)» (ivi).

 

Citando Joseph Margolis, l’autore afferma che «le interpretazioni valutative» sono «performative»; le opere stesse sono trasformative perché «intervengono sulla realtà: modificano “l’arredo del mondo”» (p. 157). Uno dei nodi concettuali per impostare esattamente la questione è elaborare una definzione soddisfacente di creatività. Questa non è solo il saper realizzare qualcosa di originale e pregevole: «la creatività richiede un “vuoto” causale tra gli antecedenti della mossa creativa e il momento della creazione». È necessario ‘fare il vuoto’ perché qualcosa emerga: concetto non scontato. D’altronde «non esiste un meccanismo generale della creatività. Perciò, sebbene possa derivare da una preparazione lunga e accurata, l’azione o l’opera creativa ha qualcosa di sorprendente: è inattesa e imprevedibile, ma anche liberata dall’improvvisazione» (p. 161). Dunque, un’idea di creatività artistica dotata di «un carattere esplorativo», che «stabilisce i suoi obiettivi in corso d’opera» (p. 162). Gli inciampi e gli imprevisti che l’artista incontra nella realizzazione del Progetto possono portare verso soluzioni nuove. «Incespicare, incepparsi | è necessario per risvegliare | la lingua dal suo torpore...» cantava l’Eusebio. Ma Bertinetto è più radicale: «L’opera creativa, pur essendo prodotta con abilità e intelligenza, eccede il controllo e le intenzioni dell’artista» (ivi). La ‘libertà condizionata’ dell’improvvisatore smitizza l’onnipotenza dell’Auctor. In questo senso i portati del post-strutturalismo vengono qui rideclinati in un senso pragmatistico. Il presupposto dell’‘arte come attività umana’ (giusta il titolo del libro di Bertram che Bertinetto cita all’inizio) accorcia la distanza tra arte e artigianato. Tra i due, appunto, c’è di mezzo l’improvvisazione. 

 

 

Intersoggettivo e continuamente negoziabile, il giudizio estetico come inteso da Bertinetto evoca la beckettiana «company», la ‘brigata’ che mette insieme gli artisti (scrittori, ma non solo) e noi. Inevitabile dunque il formarsi di «comunità di gusto», cioè soggetti raggruppati intorno a preferenze, attribuzioni di valore ecc.; pertanto anche le famigerate ‘nicchie’ in cui si frantuma l’esperienza dell’arte del mondo contemporaneo. L’autore, si badi, non abbraccia qui una sorta di relativismo estetico per cui tutti gli artefatti sarebbero validi se soltanto incontrino il gusto di qualcuno (ivi compresi i prodotti quasi uguali, imbottiti di cliché nauseabondi, fatti in base a un data mining che l’industria ad esempio cinematografica o musicale applica sempre più di frequente).

 

Le comunità di gusto dovrebbero tendere a riunirsi? O, meglio, ogni artefatto artistico, se autentico, dovrebbe avere la forza di convocare sempre un popolo, non un alveare di nicchie? Magari un popolo a venire, non ancora esistente, come dice Deleuze nel suo splendido libro su Kafka.

Insomma l’«estetica della riuscita» invocata qui non significa riuscita a tutti i costi. Proprio l’incerto palcoscenico sul quale l’improvvisazione si presenta come vivo simulacro di ogni esperienza artistica, insegna a non avere paura del fallimento. Troppo facile tirare in campo il già citato Beckett: ‘fallire ancora, fallire meglio’. L’improvvisazione diviene simbolo della costruzione di un (eu)topia: termine che l’estetologo preferisce a ‘utopia’, troppo legata al paradigma astratto d’una società perfetta.

 

Un buon luogo e un buon tempo – quelli dell’arte – da creare insieme con sempre nuovi accordi e produzioni, complessi e oscillatori rispetto ai valori e alle pratiche: con modestia e prudenza. Il che pare una buona e umile terza via rispetto all’alternativa binaria, letale, in cui ancora l’arte è implicata: da un lato la museificazione, l’imbalsamazione anche accademica, spesso priva di contatto con l’esperienza; dall’altro la mercatizzazione, la trasformazione delle arti in valori finanziari ‘autogenerati’. Un’idea dell’arte più vicina a quella continua improvvisazione cui tutti siamo costretti dalla vita, ivi ‘gettati’ senza manuale di istruzioni.

(Improvvisare, io direi, come esercizio di autovigilanza e plasticità, ma nell’attesa che una nuova idea di mondo, meno distruttiva e autofagica di quella che abbiamo fino ad oggi sperimentato, appaia: anche solo per un’istante, magari per speculum et in aenigmate).

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