Atelier d’estate / 1

2 Agosto 2013

L’Istria è un luogo di respiro, un luogo di riposo, un confine. Per Bora Ćosić, Mirko Kovač e altri scrittori belgradesi, durante gli anni di guerra di fine Novecento, è stato il luogo dell’esilio interno. Per molti intellettuali del melting pot jugoslavo anche uno spazio simbolico. Che gli smottamenti della storia e della politica non sono riusciti a distruggere. La sua multietnicità ricorda la Jugoslavia, la sua decadenza si nutre di un senso di nostalgia che condensa il mito mitteleuropeo jugoslavo e comunista.

 

L’identità spaziale dice quanto l’ambiente possa essere vissuto come un nemico e una minaccia, sentirsi in-place è l’obiettivo di ogni processo di integrazione, l’Istria riesce a trasmetterlo a chi viene da vicino e da lontano. È ancora recente la ricerca del rapporto che si stabilisce con il luogo come “uno spazio fisico che ha acquisito un significato soggettivo per l’individuo” (cfr. T. G. Gallino, Luoghi di attaccamento. Identità ambientale, processi affettivi e memoria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007) e con il quale dunque si instaura un legame affettivo. Le mete di vacanza sono un’occasione per scoprire le nostre tipologie di attaccamento ai luoghi –  emotivo-familiare, estetico, funzionale, socioemotivo, cognitivo-culturale.

 

Le mie due lingue croato-italiano qui sono una sola. In Istria sono bilingui quasi tutti, il 90% circa della popolazione usa l’italiano tutti i giorni (Il Piccolo di Trieste vende tremila copie con La voce del popolo). E dato che gli italiani oggi sono poco più di ventimila, in ogni caso una minoranza, è facile accorgersi, a Pola come a Fiume, a Motuvun come a Buzet, quanto la lingua di Dante sia “veicolare” per gli autoctoni e i turisti, gli scrittori e i camerieri. Il dialetto veneto dei più anziani, l’istriano ciacavo degli etnografi locali e l’istrioto dignanese delle poesie di Loredana Bogliun, così come l’italiano televisivo dei ragazzini, sono pezzi di storia e di memoria rimescolati dall’attualità. Così si produce quell’unicum di cui i locali sono così fieri, l’istrianità. La presenza austro-ungarica dopo il 1867, la dominazione fascista, l’esodo di 300, 350 mila italiani tra il 1945 e il 1948, i rovesciamenti della storia d’Europa che qui, ogni volta, ha spostato un confine, hanno reso gli istriani politicamente tolleranti. Il regionalismo è la linea della Dieta democratica istriana che ha lottato contro il nazionalismo del partito di Franjo Tuđman e ora fa parte della coalizione al governo. In Istria, dove i venti di guerra non hanno fatto breccia, le case del “nemico” serbo non sono state né saccheggiate né minate, politici e militari hanno scongiurato ogni violenza. “Appartenere alla cultura italiana” è stato, nel passato prossimo, un modo per fuggire tanto la miseria, quanto un’oppressiva croaticità. La questione del bilinguismo ripropone l’eterno scontro fra centro e periferia, fra i desideri di controllo territoriale della metropoli e l’insofferenza di un’area, divisa fra Slovenia e Croazia, che si sente da tempo una regione europea.  

 

In Istria mi ritrovo outdoor. Dal ritmo della stanza d’analisi, un regolamento spazio-temporale sospeso tra il senza tempo dell’inconscio e i calcoli minuti dell’ora, allo scorrere del ciclo di vita – le stagioni che non ci sono più nella nostra temporalità quotidiana. L’atelier istriano riattiva l’incrocio linguistico dell’incontro con l’altro, piaceri dal sapore d’infanzia. Il tempo dell’estate diventa il segno del limite umano.

 

“Luogo di accesso e sprofondamento della mente nella dimensione fisica del lavoro, l’atelier è un limen, una porta. Tutte le volte che vi si penetra, è come se ci si addormentasse rispetto al mondo circostante e ci si risvegliasse nell’opera, avendo unicamente l’opera per orizzonte e per lingua. L’atelier non è né il momento della veglia, né quello del sonno, quanto piuttosto il momento di transizione da una fase ad un’altra: la condizione piuttosto inafferrabile del cambiamento”

(in Elisabetta Orsini, Atelier. I luoghi del pensiero e della creazione, Moretti&Vitali 2012).

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