Banchetto à Parigi 2024: suprematismo dei glitter o suscettibilità?

8 Agosto 2024

Per la prima volta nella storia dei Giochi Olimpici estivi, la cerimonia inaugurale di Parigi 2024 non si è tenuta all’interno di uno stadio bensì lungo la Senna. Una celebrazione maestosa, così era stata preannunciata anche dal comitato organizzativo, in cui le delegazioni di atlete e atleti – ognuna su una barca – hanno sfilato in un percorso di sei chilometri che si è concluso davanti al Trocadéro (fig. 1). Guardando a questo spettacolo, sorta di naumachia contemporanea, è possibile riconoscervi senza troppa fatica una sfacciata fascinazione per il mondo classico. Niente di troppo eclatante, in realtà, se pensiamo a quanto già successo nel corso del Rinascimento (fig. 2) e ricordando, insieme ai fasti tipici degli ingressi trionfali, quell’interesse tutto italo–francese le rappresentazioni degli antichi greci alla base delle arti performative moderne come l’opera e la danza. 

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Cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Parigi 2024.
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Corteo di Nettuno e il suo seguito, illustrazione da Il preludio felice, 1685.

All’interno di questa cornice scenografica che strizza l’occhio alle sorgenti del mito, non avrebbe dovuto troppo stupire la comparsa, a un certo momento delle oltre quattro ore di celebrazione, di tableaux allegorici dalle rievocazioni paganeggianti. E invece non è proprio così che è andata la faccenda. 

“La cerimonia del suprematismo gay è stata la festa d’addio dell’Occidente” (La verità), “Ultima cena queer, l’ira di vescovi e destra: Cristianesimo deriso” (La Repubblica), “I pagliacci di Macron: La ridicola cerimonia di apertura di Parigi fa infuriare Stati e Chiesa” (Libero). Questi solo alcuni dei titoli delle prime pagine dei giornali italiani che i giorni scorsi hanno accompagnato il frame 

della performance Feast (Fig. 3) ideata da Thomas Jolly, direttore artistico di Parigi 2024. Una rappresentazione di gruppo dal gusto camp, additata come gesto d’offesa alla comunità cristiana, o meglio cattolica, da parte di chi vi ha riconosciuto una rielaborazione dell’Ultima cena in drag

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Feast, momento della cerimonia inaugurale di Parigi 2024.

Insieme alla Conferenza episcopale francese che ha condannato tale momento come una “scena di derisione e di scherno del cristianesimo”, numerose le voci politiche (e non solo) che hanno preso parola su tabloid e social media: Victor Orban lo ha definito come l’emblema di un “vuoto morale”, Marion Maréchal ha tenuto a ricordare a tutti i cristiani del mondo, “insultati dalla parodia drag dell’Ultima cena”, che “ciò non è l’espressione della Francia ma di una minoranza di sinistra pronta a ogni forma di provocazione”. Arringhe a cui hanno fatto eco il nostrano Salvini (“Aprire le Olimpiadi insultando miliardi di Cristiani nel mondo è stato davvero un pessimo inizio, cari francesi. Squallidi”), Elon Musk (“This was extremely disrespectful to Christians”), finanche ad Andrew Tate – l’ex-pugile sotto processo per tratta di esseri umani e stupro – che con suo fratello Tristan hanno ben pensato di protestare davanti all’ambasciata di Francia in Romania (fig. 4).

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Andrew e Tristan Tate davanti all’ambasciata di Francia in Romania.

Un clamore mediatico così forte, quello attorno a Feast, che ha portato Jolly e Anne Descamps – portavoce di Parigi 2024 – a fornire scuse ufficiali a esprimere la non intenzionalità della performance inaugurale a offendere nessuna comunità religiosa, nello specifico appunto quella cattolica. 

Se questo, in breve, è quanto è successo in questi giorni di canicola estiva, prestanze olimpiche, fedi nuziali perse nella Senna e proposte di matrimonio in live–streaming, può valere la pena tentare di capire quali sono state le condizioni di lettura di quest’immagine che hanno determinato tutto questo marasma.

Un primo aspetto da chiarire riguarda la questione della proprietà e dell’appropriazione di un motivo iconografico come quello dell’ultima cena. Per far ciò guardare alla storia e alla teoria delle immagini può essere un buon punto di partenza. In questo senso, la lezione del capostipite della moderna storia dell’arte può venirci in aiuto. Il riferimento è ovviamente al progetto iconologico di Aby Warburg che di fatto, allargando i confini della disciplina storico-artistica a una più ampia storia della cultura, ha sottolineato fin dagli albori del XX secolo l’importanza di tenere conto delle condizioni filosofiche, politiche e religiose in cui le immagini sono prodotte e circolano all’interno di una determinata società. Il richiamo al modello warburghiano, prodromo di quanto oggi potremmo chiamare antropologia visiva o cultura visuale, può esserci di un qualche aiuto per comprendere come un collettivo, a tavola, porti con sé un senso di comunità che inevitabilmente ri-attiva il portato simbolico tanto di un’iconografia cristiana, come la già ricordata Ultima cena leonardesca, che dei ben più antichi baccanali dionisiaci del mondo classico. 

Pensare alle immagini in senso dialettico è quanto lo storico dell’arte amburghese sottolineava parlando di migrazione dei motivi, la quale si configura come la caratteristica strutturale e consustanziale a tutta la storia dell’arte. Ne è un esempio – presentato dallo stesso Warburg in una conferenza il 19 gennaio 1929 alla Biblioteca Hertziana di Roma – l’intrusione di una figura della civiltà classica come la Gradiva del bassorilievo della Roma imperiale in La nascita di s. Giovanni Battista di Domenico Ghirlandaio come ninfa danzante. Un processo di appropriazione del patrimonio artistico antico, una forma di sopravvivenza di forme simboliche – per dirle à la Cassirer – che incorporate nell’universo figurativo di un’altra epoca sono in grado di realizzare specifici universi di senso che riflettono le idee, i valori e le aspirazioni di una società (Figg. 5, 6).

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Bassorilievo della Gradiva "Donna che cammina", iv sec. A.C., Musei Vaticani.
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Domenico Ghirlandaio, Nascita di san giovanni battista, Cappella Tornabuoni, Firenze, 1486-90, dettaglio.

Queste intrusioni e cortocircuiti di memorie figurative sono alla base della configurazione del senso delle immagini secondo un processo che non è genetico bensì generativo. Un esempio di ciò in relazione alle ultime cene è Il festino degli dei di Jan van Bijlert (Fig. 7) ricordato più volte nei giorni scorsi come la “vera” ispirazione del direttore artistico Jolly. Si tratta di un’opera seicentesca, realizzata dal pittore olandese in pieno periodo riformista, in cui la narrazione sacra dell’ultima cena viene in qualche modo celata facendo ricorso al motivo mitologico della celebrazione bacchica in cui compaiono Nettuno, Apollo, Diana o Marte, al posto di Giuda. 

Un gioco di relazioni intertestuali tra opere appartenenti a tempi e a geografie differenti è altrettanto prolifico nella contemporaneità in cui è possibile constatate la sopravvivenza del motivo dell’ultima cena in rappresentazioni laiche come quelle di Vanessa Beercroft, Renato Cesaro o del caro e vecchio Homer Simpson (Figg. 7-9). Un gioco di intrusioni di memorie figurative che rievocano il banchetto fondativo della cristianità senza, tuttavia, aver suscitato lo stesso clamore del momento performativo nel corso della cerimonia di apertura di Parigi 2024. 

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Vanessa Beercroft, VB65 performance al PAC di Milano, 2009.
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Renato Cesaro, Biglietto d’intivo all’apertura della mostra “Painted Movies”.

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Sulla scorta di quanto detto, un secondo momento di queste brevi considerazioni ci impone di riflettere sulla funzione seduttiva delle immagini, sulla loro forza ed efficacia nel momento in cui entrano all’interno di un flusso di discorso come quello politico o giornalistico. Le immagini come si sa, non sono mai insignificanti. Al contrario, possono cooperare alla produzione e al rafforzamento di retoriche e ideologie. 

Per far chiarezza di ciò può venirci in aiuto la lezione semiotica di Umberto Eco e di quella distinzione avanzata già in I limiti dell’interpretazione (1991) tra tre tipi di intentio: la intentio autoris, la intentio operis e la intentio lectoris. La prima di esse riguarda ciò che l’autore vuole dire; la seconda fa riferimento alla coerenza testuale e al messaggio che un’opera può trasmettere in relazione al proprio sistema di significazione; la terza – l’intenzione del lettore – permette invece di sottolineare il portato del sistema di valoriale del destinatario di un testo (sia esso un libro, un’immagine o un film) nel momento della sua fruizione. Se per quanto riguarda l’opera Feast si è già tentato di far chiarezza circa le condizioni che ne permettono l’interpretazione, vale allora la pena soffermarci sulla questione dell’uso di questa immagine che può giungere fino a forme di decodifica aberrante della rappresentazione. Aspetto che merita di essere sottolineato a proposito di quest’Ultima cena-gate dato che da ciò è esplosa l’ira e la denuncia di ministri religiosi e secolari in difesa di sensibilità spirituali “profanate” da quest’operazione artistica. 

L’immagine in questione, iscritta all’interno del flusso mediatico, è stata non a caso soggetta a un condizionamento delle sue potenzialità comunicative che ne hanno ridefinito le condizioni stesse della sua leggibilità. Ciò che di questo processo alle immagini fa problema, allora, non è tanto l’accostamento di questo frame della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi alla rappresentazione di una ultima cena quanto gli effetti che tale montaggio di immagini è in grado di suscitare una volta data in pasto alle bacheche Facebook o Instagram. Una retorica persuasiva che incita alla reazione, fondata sulla volontà di una supposta preservazione identitaria oggi tanto in auge nel discorso politico delle destre europee. 

Additare come blasfema la rappresentazione di un banchetto conviviale è infatti il risultato di un processo di traslazione di valori, passioni e desideri specifici da parte di spettatori che vi riconoscono la perturbazione delle proprie credenze. Un fenomeno che ci permette di inquadrare i vari attori politici che hanno preso parola nei giorni passati sotto una nuova luce: quella della suscettibilità. È quest’ultima, tanto recriminata alle minoranze LGBTQI+ sia per quanto riguarda l’uso di un linguaggio ampio e inclusivo sia invocata parlando della cosiddetta cancel culture e accompagnata da cori da stadio che inneggiano al “eh… ma non si può più dire niente!”, che al centro della questione.

Un tale inneggiamento alla provocazione e all’attacco di sensibilità religiose segue infatti la ratio del saccheggiamento e della profanazione di immaginari che appartengono a collettività da difendere e tutelare rispetto a chi, in questo processo, è riconosciuto come l’altro e il nemico. Per smontare questo gioco discorsivo si può allora ricorrere proprio alla lezione che l’esegesi biblica ci fornisce a proposito della relazione tra gli eventi del Vecchio e del Nuovo testamento, e fondativi della macchina teologico-politica cristiana. Giochi di appropriazione di figure come quella del sacrificio di Isacco che ritorna intensificata nell’immolazione cristologica del figlio di Dio secondo una continuità degli eventi che legittimerebbe l’appropriazione cristiana del passato ebraico. Se d’accordo con quanto fin qui detto, viene allora da chiedersi: non è che in fin dei conti tutto questo trambusto andrebbe riletto proprio a partire dall’incapacità di accogliere l’inevitabile dialettica tra immagini che appartengono alla nostra memoria collettiva e le variazioni con cui nel contemporaneo possono circolare nella società? 

Tutto questo permetterebbe di inquadrare l’adiramento di stati e Chiesa come uno strano reflusso psicanalitico incapace di accettare che certi processi sono ineluttabili e anzi pienamente legittimati da operazioni mitiche e mitologiche fondative proprio dell’insorgenza di mistiche del potere ancora oggi estremamente longeve.

Se il clamore mediatico intorno a tale questione si è progressivamente attenuato con il passare dei giorni, c’è tuttavia un ulteriore aspetto di ordine più generale che vale la pena mettere in luce. Un aspetto che per certi versi è passato in sordina nello scontro di stati e Chiesa verso una supposta supremazia “queer” messa in scena nel corso della cerimonia inaugurale di Parigi 2024. Esso riguarda la funzione egemonica che la Francia si è arrogata in termini di avanguardismo e di modernità culturale riconfermando in modo riflessivo quel gauchismo à la Macron di stampo neoliberale. Perché in un certo senso sì, un’ultima cena laica con drag queen e glitter potrebbe anche offrirsi come segno dell’inclusione e di progresso repubblicano insieme alla Maria Antonietta decapitata, a Lady Gaga che ci dà il “Bienvenue à Paris” o Céline Dion che canta l’inno all’amore. Al tempo stesso, però, è opportuno ricordarsi come tale discorso in veste haute couture si presenti come l’orpello in grado di mascherare e continuare a perpetuare forme di esclusione come il divieto imposto dal ministro dello sport Amélie Oudéa-Castéra di indossare il velo ad atlete francesi di religioni musulmana; la presenza di oltre trentacinquemila forze dell’ordine incaricate di eseguire controlli a tappeto; l’erezione di circa quarantaquattromila barriere per le strade di Parigi, QR code per muoversi in città e biglietti del metrò aumentati a 4€ che di fatto incidono, e non di poco, sulla vita di persone queer – questa volta senza virgolette – costrette a forme di condizionamento sociale di non poco conto.

In copertina, Jan van Bijlert, Le Festin des dieux, 1630, olio su tela.

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