Dusi & Grignaffini, Capire le serie TV / To be continued

6 Febbraio 2021

Stretta tra le mura domestiche, assillata dalle varie gradazioni di colore assunte dalla mia regione e dalle alterne – pur sempre modeste – possibilità di spostamento, dopo una conference call, una riunione su Teams e una dad su Meet, non mi resta che tuffarmi sul divano e farmi assorbire dai confortevoli mondi che Netflix & co. quotidianamente mi propongono. Trovando riparo tra una regina degli scacchi e una regina Elisabetta, tra uno stupefacente colpo alla zecca di stato e una aspirante comica americana di fine anni Cinquanta.

Poi sollevo la cornetta – si fa per dire – e chiamo un amico, che, dopo aver commentato gli oscuri dati sul Covid e aver dunque assolto come tutti al ruolo di virologo improvvisato, mi comunica a gran voce che ha letto su internet che gireranno un’altra stagione di Dexter – hai sentito?! Sì, Dexter. Nel frattempo arriva un messaggio whattsapp da parte di un’altra series addicted, mi chiede se ho qualche nuovo titolo da consigliarle: è in astinenza e non sa che guardare. Allora cerco su Instagram quella pagina che seguivo (ma come si chiamava?) per farle uno screenshot di un post in cui sono riassunte le ultime novità. Subito dopo è la volta di mia madre che vuole informazioni su come poter guardare The Crown nell’altro televisore di casa sua: si è appena appassionata alle serie, ci sta prendendo gusto, e ha bisogno anche lei di un posto tutto suo. Infine, ingaggio una lotta con i bambini, vedremo chi la spunterà e se alla fine sullo schermo ci sarà una puntata di Power Rangers o una di Sanpa. Power Rangers. Vabbè, leggo un libro: parla di serialità.

 

Si chiama Capire le serie TV (Nicola Dusi e Giorgio Grignaffini, Carocci 2020, pp. 198) e propone un giro intorno al mondo delle serialità televisiva. E la prima cosa che capisco è che quelle che solitamente pensiamo siano le unità di contenuto – le puntate – occupano in realtà una posizione intermedia nel sistema seriale. Gli episodi, a monte, derivano da un’operazione di montaggio, che traduce una sceneggiatura, che è a sua volta l’espansione di un concept; ma, a valle, sono anche legati tra loro in una stagione, in insiemi di stagioni, da cui derivano ulteriori testi destinati a girare su più media. Proprio come avviene alle parole – generate da sillabe, composte da fonemi, a loro volta scomponibili in tratti, ma anche articolabili in frasi, messe in successione a formare testi – nel sistema linguistico. Mi sembra dunque interessante cercare di comprendere più che il senso di un singolo episodio della mia serie preferita di turno, come esso, articolandosi con altri contenuti, produca significati che lo trascendono.

E inizio a pensare che la serialità funzioni un po’ come il mondo della cucina.

 

Perché fermarsi al piatto bellamente impiattato (gli episodi), e non allargare lo sguardo a come esso è stato concepito, realizzato nella preparazione, e poi commentato dai degustatori, riprodotto da altri cuochi, variato e tradotto in altre culture alimentari? La sceneggiatura è allora l’equivalente della ricetta, un testo che Greimas avrebbe definito programmatore, poiché contiene le istruzioni da seguire per realizzare un qualcosa (la sceneggiatura è destinata a tradursi in puntata, la ricetta in piatto). Il montaggio, grazie al quale si tessono le fila della narrazione, si chiariscono le connessioni tra le diverse linee narrative, si semplifica o si complica la fabula corrisponde all’assemblaggio del piatto, in cui convergono e trovano senso le diverse preparazioni culinarie. Seguendo questo cammino, entro, grazie al libro, nel dietro le quinte delle serie, in tutto ciò che sta “a monte” di quello che solitamente guardo sullo schermo, e mi si apre un mondo affascinante e complesso, presentato su un doppio binario, tecnico e semiotico, con un costante tentativo di tradurre il metalinguaggio di un campo in quello dell’altro, con categorie che sono in rima, si rafforzano e si chiariscono a vicenda.

 

A valle delle puntate stanno invece tutta un’altra serie di produzioni che ben illustrano come le serie, specie quelle di ultima generazione, si configurino sempre più spesso come brand, sapientemente gestiti secondo le più avanzate tecniche di marketing: possiamo acquistare tazze, portachiavi e magliette di Games of Thrones; travestirci per carnevale con la tuta da laboratorio di Walter White o con il vestito di Eleven di Strangers Things (fare un giro su Amazon per credere); acquistare giochi da tavolo ispirati a Narcos o a The Marvelous Mrs. Maisel; organizzare una cena a tema Dexter con sedie schizzate di finto sangue servendo come dessert pasticcini a forma di dito mozzato (letteralmente un finger food) e torte decorate di rosso con la tecnica del dripping (da Pollock al cake design è un battito di ciglia). 

 

 

Per non parlare di tutte le campagne unconventional realizzate in occasione del lancio delle nuove stagioni dei prodotti più noti: La casa di carta, per promuovere la terza stagione, ha messo sotto teca in molte piazze italiane un pupazzo vestito con l’ormai iconica tuta e maschera di Dalì, ponendo un interrogativo su quale sarebbe stato il nome della città scelto come pseudonimo dal nuovo componente della banda (“Torino è dei nostri. O forse no”, “Milano è dei nostri. O forse no”, “Palermo è dei nostri. O forse no”).

 

E giù con indizi e supposizioni, punti interrogativi e sondaggi che hanno generato, sembra, un forte impatto sui social, oltre che un grande interesse da parte del pubblico (come è noto, alla fine, si trattava di Palermo).

A partire da questo presunto sviluppo lineare, che potremmo sintetizzare con la formula “dalla produzione al consumo” (ovvero dalla concezione della serie alla sua espansione transmediale), si innesta però una circolarità che genera più complessi effetti di ritorno. Le testualità “secondarie” dei testi seriali (dal recap al teaser, passando per la sigla, i videogiochi etc.), ci dicono Dusi e Grignaffini, non vanno intese come subordinate a un presunto testo fonte “primo”, ma come sue riprese, traduzioni, adattamenti e tradimenti che contribuiscono, tra l’altro, a trasformarlo. Banalissimo esempio: le nuove copertine del romanzo L’amica geniale sono illustrate dalle attrici protagoniste nella trasposizione televisiva. E in queste trasformazioni rientra a pieno titolo anche il pubblico, non più semplice audience ma prosumer, soggetto attivo, produttore di contenuti, in grado di determinare successi e insuccessi, nostalgiche riprese e tragiche fini di serie odiamate.

 

Mi viene ancora in mente un paragone con la cucina, dove ultima tendenza del delivery sembra essere quella delle cosiddette meal box (scatole con ingredienti predosati e semilavorati, che consentono in poco tempo di completare a casa propria il piatto), o dove, in molti ristoranti, è richiesto di fatto ai degustatori di completare a tavola il lavoro degli chef, per esempio aggiungendo una salsa. Anche il degustatore seriale è chiamato a completare e arricchire il senso di ciò che guarda, ora esplicitando citazioni e impliciti richiami ad altri testi che emergono dagli episodi, ora creando contenuti aggiuntivi ex novo. Dalla produzione al consumo, dunque sì, ma aggiungendo: “e ritorno”.

 

Raccontando il cambiamento dei mezzi di comunicazione, la trasformazione delle esigenze produttive, l’evoluzione nel sistema dei generi, in controluce, c’è spazio nel libro per una storia della serialità che mostra quanto questi prodotti si siano trasformati, diventando da meri riempitivi dei palinsesti, da prodotti di magazzino da sfruttare a più non posso, punte di diamante della programmazione televisiva e delle nuove piattaforme non lineari. Dalle prime stagioni alla “tenente Colombo”, con struttura episodica fissa e trama autonoma di puntata in puntata, si è passati, secondo diverse gradazioni, alle narrazioni multistrand, tipiche di quella Complex Tv che Mittel fa coincidere con la nuova epoca d’oro della serialità. Racconti in cui si intersecano le vicende di più personaggi co-protagonisti, in cui i generi si ibridano tra loro e in cui sempre più spesso compaiono tecniche e soprattutto nomi presi in prestito dal mondo cinematografico – attori, registi, produttori –, la cui fama sembra quasi autorizzare (quando non creare l’aspettativa) a innovare i canoni della serialità.

 

In questi continui passaggi da un testo a un altro, da un medium all’altro, i confini della serie sfumano, i suoi significati si ricostruiscono a cavallo tra più media, secondo prassi di consumo ormai abbastanza consolidate. Io stessa all’inizio di questa storia ho rimbalzato tra telefono, pc e tv senza soluzione di continuità. Del transmedia storytelling, d’altro canto, Jenkins aveva parlato anni fa, e ancor prima, in ambito semiotico, ci si era occupati di traduzione intersemiotica. Ma c’è di più. Non solo il senso della serie si costruisce unendo i puntini di testi disparati, ma esso tende a esondare rispetto al cosiddetto mondo finzionale. Ce lo aveva già raccontato Gianfranco Marrone a proposito di Montalbano, il quale, trasportando il suo ruolo di commissario nel mondo, era diventato opinion leader dei tristi fatti di Genova del 2001. Lo stesso Montalbano fattosi promoter turistico di una Sicilia inventata e struggente mostrata a cavallo tra romanzi e tv, testimonial di un certo modo di concepire la cultura alimentare isolana, critico gastronomico in grado di determinare le sorti di alcuni ristoranti legati alle sue vicende. E lo stesso è accaduto a Kevin Spacey, trasformato alla bisogna in opinionista politico pronto a dispensare pareri sulle elezioni americane del 2016, quando impazzavano sul web i paragoni tra Underwood e Trump e si azzardò persino una influenza di Claire Underwood sul look della neo-first lady Melania.

 

Non si tratta più dunque di tradurre una serie tv in fumetto, videogioco etc., ma di farla entrare nella vita di tutti i giorni, in una vertiginosa fusione di discorsi (turistico, culinario, politico, mediale). Una forma seriale sembra impazzare nelle nostre vite, fino a coinvolgere le nostre soggettività. Per esempio attraverso quel fenomeno che è stato definito da Giovanni Ragone e Donatella Capaldi come “autoserializzazione”, evidente nelle pagine social di tanti giovani e meno giovani impegnati a mostrare con le loro stories, giorno dopo giorno, la loro (serializzatissima) vita.

La puntata dei Power Rangers volge intanto al termine, meglio spegnere prima che diabolicamente nel giro di qualche secondo inizi in automatico la successiva. To be continued.

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