Bloody Jane e la Grande Madre

19 Febbraio 2023

Gli amici la chiamavano Bloody Jane, lei di sé parlava come di una ker, un odioso demone infernale; all’anagrafe era Jane Ellen Harrison, nata nelle campagne dello Yorkshire nel 1850, a una manciata di mesi da Sir Arthur Evans, lo scopritore di Cnosso. 

Già queste poche notizie basterebbero a dipingere l’affresco di una vita formidabile e a giustificare la riedizione della traduzione italiana di Themis. Uno studio sulle origini sociali della religione greca, con la curatela di Giuliana Scalera McClintock, che firma anche una bella introduzione (IISF Press, p. 728).

Themis esce una prima volta nel 1912, una seconda del 1927. Nel mezzo la Grande Guerra e la morte di colleghi, amici, sostenitori, ma anche di detrattori. Nel 1912, Jane Harrison ha già sessantadue anni, nel ’27 settantasette: una carriera non certo precoce la sua, disseminata di svolte cieche, in un mondo in cui per le donne lo studio poteva essere tutt’al più un hobby, una disposizione alla conversazione elegante, da sfoggiare a un tè in giardino.

La passione di JH per la ricerca non ha, invece, nulla di dilettantesco e transitorio, anche se solo a quarantotto anni le viene finalmente concessa una cattedra al Newnham College, a Cambridge, dove aveva studiato. Siamo nel 1898 e pare che da quei giorni non abbia mai lasciato il Newnham e si aggiri nei chiostri, in forma di fantasma, come era pronta a giurare al tempo anche Virginia Woolf.

Finalmente libera di poter fare il suo mestiere, Harrison approda a una condizione quasi paradisiaca per uno studioso: il Newnham la vincola soltanto a poche lecture all’anno e per il resto la lascia libera di pensare e di viaggiare. 

Nel 1901 è a Cnosso ed è passato solo un anno da quando Arthur Evans, fortunato rabdomante, ha immerso la pala nella collina d’ulivi di Kephalà e ha riconsegnato all’Europa e al mondo un pezzo importante delle sue origini: la civiltà minoica. Harrison è lì al momento giusto, nei giorni in cui Isadora Duncan scende a passo di danza lo scalone del palazzo reale di Cnosso e Creta è il posto in cui perdersi, e poi ritrovarsi, per una parte non piccola della crème intellettuale d’Europa e d’Oltreoceano.

Themis è figlia del viaggio cretese, così come Prolegomena to the Study of Greek Religion (1903), il libro forse più famoso di JH: uno di quei casi in cui la vita si innesta nell’arte e non la lascia più andare. 

JH scova le origini del culto dionisiaco nella selva di braccia levate dalle damine impresse sui sigilli minoici e dipinte sugli affreschi dei palazzi. In una stagione in cui a dominare è l’idea di un Dioniso straniero, JH riporta il figlio di Zeus a casa, lo fa nascere dal ventre di un’antica dea madre cretese. 

I minoici alla maniera di JH sono non solo très chic ma anche proto-femministi. Anche se a dire il vero in Themis la fascinazione del nume tutelare del matriarcato, Bachofen, è solo un’eco lunga. E persino il termine, matriarcato, viene scartato a favore di matrilineare, meno compromesso con l’idea di «potere», di arché che invece matriarcato conserva incapsulato nella parola. 

L’ambizione di JH è quella di ricreare, fin nei minimi dettagli, il rituale minoico dedicato a Dioniso: un’ossessione, non solo un progetto d’indagine scientifica, come testimonia un aneddoto che coinvolge Gilbert Murray, sparring partner di JH nel cerchio magico dei ritualisti di Cambridge, e il filosofo Beltrand Russell. Molto preoccupato per l’amica, Murray aveva scritto a Russell pregandolo di convincerla dell’impossibilità di fare a pezzi un toro vivo a mani nude, pratica a cui, almeno nella ricostruzione di Murray, JH era convinta che si dedicassero le donne cretesi, ancora agli inizi del secolo scorso.

Themis è quindi nata dalle stesse dita con cui JH immaginava di fare a brani un capretto, un agnello, un toro? Seguace partigiana del credo nietzschiano, l’«ellenista» ammette, nella prefazione alla seconda edizione di Themis (1927), di aver dichiarato con troppa leggerezza la sua violenta antipatia per gli dei olimpici. Forse meglio riconoscere, con Sigmund Freud la funzione biologica (del dio olimpico), che non potrebbe mai essere adeguatamente riempita dal daimon (p. 4 prefazione alla seconda edizione).

E tuttavia il daimon è il perno del compasso di JH e il demone dell’anno, eniautos, la sua formidabile invenzione. Un demone vegetale, figlio della vigna, soggetto ai cicli di morte e rinascita della natura: Dioniso per JH appartiene anche ai wild gardens popolati di draghi, uccelli, rampicanti e creature del verde che in quegli anni ornavano le tapisserie di William Morris e della sua Fabrics (p. ΧΧΧ). 

In quanto origine di ogni credo religioso, il daimon precede il dio, come la Grande Madre viene prima delle divinità maschili (p. 5). Un credo unitario e selvaggio di cui persino il politeismo antropomorfo degli dèi olimpici sarebbe gemmazione. Così, alla fine, per JH, anche il monoteismo cristiano è un ritorno all’idea antica del daimon, a un’unità originaria che è un po’ l’anima del mondo, come ora direbbero Eduardo Viveiros de Castro o Philippe Descola. Rispetto a questo gigantismo vegetale, persino Apollo è un parvenu e un woman-hater, mentre Zeus un bourgeois conservatore. 

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E se anche, ancora nella prefazione alla seconda edizione di Themis, JH dichiara che l’umanità dopo tutto ha bisogno non solo dell’intossicazione del demone Dioniso, ma anche, e forse persino di più, della «pacificazione della forma» dell’olimpico Apollo (p. 4) in verità  non fa sul serio: la mia pericolosa Themis, come lei stessa la chiama, è uno studio di suggestione di massa in cui la simmetria delle proporzioni olimpiche viene scossa alle fondamenta dal dilagare tellurico del dio misterico che si origina dagli istinti, dalle emozioni e dai desideri che permeano ed esprimono la vita (p. 9). 

Un progetto rivoluzionario pensato per le nuove generazioni, un esperimento, anche, di scrittura, alla maniera in cui lo era stato, anni prima, il Ramo d’oro, quel libro in grado di trasformare gli uomini in liberi pensatori, come la stessa Harrison ricorda, riferendo le parole di un ufficiale di polizia in visita a Cambridge che ne era stato folgorato. È sempre lei a istituire, con quella spavalderia luminosa che le era propria, un paragone diretto fra il Ramo d’oro e Themis, a lanciarsi oltre la cortina del tempo, «saltando» verso il futuro con lo stesso passo rapido del suo kouros, protagonista del cosiddetto Inno dei Cureti, una misteriosa preghiera scolpita su una tavola di marmo azzurrognolo, ritrovata nella parte orientale di Creta, a Palakaistro, in un santuario dedicato a Zeus Ditteo, proprio negli stessi anni in cui JH aveva visitato Creta (1902-1905).

È quest’inno a dare inizio a un imprevedibile repertorio dell’immaginario greco, come lo definisce Scalera McClintock, dipinto a piccole pennellate furiose che creano un affresco a tutta parete, ricchissimo e complesso. Lungo, forse troppo, come la stessa Jane Harrison dichiara, quando riconosce che di Themis si sarebbe dovuto tagliare più del novanta per cento. Naïf anche, a tratti, soprattutto nell’entusiasmo esagerato con cui la sua autrice permette a nuove architetture ermeneutiche di scuoterla dalle fondamenta, almeno all’apparenza: Henri Bergson e la sua idea di durée applicata al misticismo dionisiaco, Émile Durkheim e l’importanza delle rappresentazioni collettive nella credenza e nel rito. 

In realtà, Themis è un esperimento “narrativo” ben più audace di quello che JH dichiari, impegnata com’è a saldare i debiti contratti con le sue fonti d’ispirazione. E per quanto la forma sia quella di un lunghissimo saggio scientifico, in realtà il medium della scrittura, questo tipo di scrittura, in cui riti, miti, immagini si accumulano come i piani della torre di Babele di Bruegel, è essa stessa il fine della ricerca: è il sobbollire dell’irrazionale e dell’emotivo, nella partitura del rito e del mito, che non è trattenuta neppure dalle maglie rigide del saggio scientifico. 

Chiamata a tagliare qualche pagina della sua lunghissima Themis, l’autrice non sopprime un rigo e rilancia invece con ulteriori aggiunte, negli stessi anni in cui anche James Frazer deponeva le armi e si arrendeva all’idea di ridurre a un libro di medie dimensioni il gigantismo a cui era approdato il Ramo d’oro nell’edizione del 1911-15.

Perché quindi leggere ora un libro troppo lungo, ormai quasi sconfitto da nuovi progetti ermeneutici? La risposta risiede solo in parte nel suo contenuto che pure sopravvive come un atlante della memoria, alla maniera di Aby Warburg: una miniera di intuizioni guizzanti, di fonti letterarie, di immagini, con intere sezioni di grande potenza immaginifica, basti pensare a quella dedicata alla lettura dell’ornitocosmo come universo simbolico sapienziale o alla festa ateniese delle Antesterie.

Le ragioni per riprendere in mano questo libro fisicamente e metaforicamente pesante, anacronistico quasi, vanno ricondotte a lei: a Jane Ellen Harrison, la paladina del pensiero debole che si scusa prima di iniziare a scrivere, che ammette fin troppo i suoi presunti errori ermeneutici, che porge il fianco ai detrattori, arrivando fino al punto di mettere in dubbio la genesi di ogni mito da un rito non più correttamente inteso, l’unico vero “credo” dei ritualisti di Cambridge; anche se su quest’ultimo punto andrebbero riletti con mente sgombra tutti i suoi lavori, perché una vera abiura non c’è. JH dichiara apertamente il proprio debito nei confronti delle sue fonti d’ispirazione, ben oltre il reale impatto che il pensiero altrui ha avuto sul suo lavoro, spesso increspato da correnti superficiali, ma al fondo originale fino alla provocazione.

Themis è di fatto sparita dalla circolazione fino agli anni Sessanta, quando, come ricorda Scalera McClintock, viene ripubblicata in America, in una collana specializzata in occultismo e spiritualità (p. XIV). L’oblio quindi, ma non per lei a cui Virginia Woolf deve in parte la sua stanza tutta per sé e T.S. Eliot qualche zolla della sua Terra desolata

Basta leggere la lista dei convenuti al suo funerale per farsi un’idea: Sir James Frazer e Sir Arthur Evans, Leonard e Virginia Woolf, Franz Cumont, Roger Fry, Paul Valéry, André Gide, per citarne solo alcuni.

In una stagione di grandi individualità e individualismi intellettuali, solo lei viene ricordata sempre in compagnia del suo gruppo di amici e colleghi: i ritualisti di Cambridge.

È stata la prima donna “ellenista” a cui in Inghilterra sia stata concessa una cattedra e uno status accademico; femminista, ma al suo modo: modernissimo e divergente. Quando nel Regno Unito si scatena la battaglia per il suffragio alle donne, che verrà concesso a tutte solo nel 1928, anno della sua morte, Jane Harrison ammette di aver poco interesse per il voto, ma molto per un’idea di umanità condivisa e originaria in cui tutti possano avere, semplicemente, gli stessi diritti. In un pamphlet intitolato Homo sum rivolto a un generico antagonista del suffragio da parte di un’antropologa, critica bonariamente le donne che si comportano come uomini, sperando irragionevolmente di ottenere così privilegi identici. La libertà delle donne per Jane Harrison non è la recita della mascolinità, ma l’essere se stesse in tutti i modi possibili: do not ape the man, “non imitare l’uomo”, suggerisce Jane Harrison alle donne della sua e della nostra contemporaneità. E questo ha più il sapore dell’avanguardia che dell’anacronismo.

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