Made in Italy / Boom 60. Bellezza italica

6 Dicembre 2016

Boom è una parola talmente remota nell’uso, rispetto alla vicenda economica italiana, da avere assunto ormai dei connotati mitologici. A questo lemma si intitola la mostra Boom 60! Era Arte Moderna, al Museo del Novecento di Milano, fino al 12 marzo prossimo, a cura di Mariella Milan e Desdemona Ventroni, con Maria Grazia Messina e Antonello Negri (catalogo edito da Electa). Il filo narrativo è l’elemento più efficace, nella ricostruzione del mondo della ricerca estetica attraverso i rotocalchi, che per tramite della grande industria mediatica, portavano la ricerca estetica nei tinelli e nelle sale da pranzo di un’Italia sedotta dalla televisione. In mostra, quindi, non ci sono solo le eccellenze, che hanno resistito al tempo, e spesso anzi sono state comprese appieno solo dopo la loro epoca creativa, ma molte voci, centrali nel discorso all’epoca, e poi dimenticate, o rimosse, o messe tra parentesi, come vogliono i corsi e i ricorsi del mercato del gusto. I periodici a larga distribuzione davano volentieri spazio all’arte, era il momento di riprendere il filo, dopo la produzione di regime, e i disastri della guerra. Il boom delle forme nuove, non necessariamente veniva riconosciuto subito, anzi. Come dichiara con chiarezza Gianni Monnet, afferente al movimento MAC sulle popolarissime pagine di “Epoca”.

 

 

“L’artista, lo studioso straniero, arriva a Milano con gli indirizzi scritti sul notes, e viene immediatamente a contatto con questo mondo ignoto alla grandissima maggioranza dei milanesi”. Quindi il nuovo si formulava in laboratori oscuri, distanti dallo sguardo collettivo, in raggruppamenti instabili dagli acronimi misteriosi, mentre il quadro generale era dominato da figure onnipresenti e poi destinate a mutare sorte, in primo luogo Renato Guttuso, figura chiave della complicatissima relazione del PCI con le estetiche nuove. Altrettanto dimenticate sono alcune signore in voga in quegli anni, come Novella Parigini, con i suoi infiniti dipinti di gatti, ricordata per aver ispirato a Federico Fellini la scena della fontana di Trevi de La dolce vita, o Anna Salvatore, spesso presente nei programmi televisivi come emblema della “signora che lavora nel moderno”. Alla stampa piaceva particolarmente parlare del valore delle opere, nel momento in cui l’arte non godeva più del sostegno massiccio dello stato, come era accaduto al tempo del Fascismo. Ugo Moretti su Epoca nel 1952 ci informa che L’arte italiana vale meno di un centrattacco, con sapide notazioni su chi e perché stabilisce i valori del tempo. Nell’epoca in cui il consumismo veniva offerto come palingenesi, e Betty Curtis furoreggiava cantando Soldi, soldi, soldi, l’insistenza su questo tasto era continua.

 

Ai giornalisti piaceva molto l’idea dello sguardo “candido”, applicato al mondo delle nuove forme, ritenuto lontano dal sentire comune, quella linea che si conclude con il memorabile episodio de Le vacanze intelligenti (1978) di Alberto Sordi (dal film collettivo Dove vai in vacanza?) in cui Augusta Proietti (l’attrice era Anna Longhi), abbattuta dal caldo, si assopisce su una sedia e si ritrova esposta alla Biennale come il ragazzo down della celeberrima e contestatissima performance di Gino De Domicis del 1972. Lo riassume perfettamente l’articolo di Paolo Monelli, che sarebbe l’ora di riscoprire per la sua penna pungente nella divertente cronaca Un profano alla Biennale (Tempo, 1954). Come sempre tutto va preso cum grano salis, visto che il nostro le mostre le frequentava regolarmente visto che era il compagno di Palma Bucarelli, algida regina della Galleria d’Arte Moderna di Roma, spesso criticata per le sue scelte di avanguardia con tanto di interpellanze parlamentari. Anche più sensazione faceva la scelta di Peggy Guggenheim di trasformare Cà Venier dei Leoni in museo del nuovo tra i due lati dell’Atlantico, fornendo un facile bersaglio di humour, come ben spiega un esagerato servizio di “Gente”, nel 1957.

 

 

Rileggendo i documenti, è evidente che questa è l’epoca delle donne, attivissime nella definizione di nuovi percorsi e nella loro comunicazione, come sintetizza magistralmente Michelangelo Antonioni nel suo classico film Le amiche (1955), tratto da Tra donne sole di Cesare Pavese, in cui brilla il personaggio di Nene (Valentina Cortese), ceramista e gallerista, che opera negli spazi della Galleria La Bussola, luogo capitale di questi anni. Secondo il detto capitale di Coco Chanel, la moda nella sua necessità di bruciare tutto nell’istante, spesso ha saputo far giungere al grande pubblico quello che nella ricerca estetica restava distante. Nella mostra ha giustamente una sala Germana Marucelli, la “sarta intellettuale”, genio del mix tra abiti e artisti, che trasformava in patterns per abiti da sera motivi del pittore Piero Zuffi (negli anni ’50 alla Triennale) e poi con maggiore oltranza dei protagonisti del momento optical, che le fornivano linee e spirali da trasformare in una ipnotica produzione di segni. Madama Marucelli di cui Fernanda Pivano scrisse la biografia nel dimenticato (e notevolissimo) Le favole del ferro da stiro (1964), con grafica di Ettore Sottsass per i tipi della loro casa editrice di famiglia East 128, che produsse anche il memorabile esperimento di grafica pop-beat “Pianeta Fresco”, magistrale esempio di grafica pop.

 

Il lavoro degli artisti sulla stoffa, la presenza di tela e stracci (da Burri a Fontana, che tagliava i vestiti di Mila Schön di fronte all’obiettivo di Mulas), è il codice segreto di un’epoca che doveva tornare ai materiali umili dopo la marmorea orgia dell’Impero e l' infinita produzione statuaria che ne era derivata. Il Neorealismo regalava alle dive “prese dalla strada” l’allure di profetesse di un tempo nuovo. E giustamente Federico Patellani illustrava in un ampio servizio Sette metri di Sofia (Tempo, 1955), parlando di uno scultore bulgaro, con studio prevedibilmente a Via Margutta, che stava realizzando una monumentale icona dell’attrice, in attesa del lancio nella gran carriera internazionale a Hollywood. La bellezza italica fu di fatto la chiave della definizione, lenta e faticosa, del Made in Italy che giocava sempre con la tradizione artistica nazionale e con l’idea che tutti potevano avere la loro occasione nel gran movimento di segni che coinvolgeva quegli anni. Come ci hanno insegnato le Sorelle Fontana, gli abiti piacevano perché associati a monumenti romani (come nelle foto, magnifiche, di Pasquale De Antonis) e la moda nazionale arrivò al mondo sulla passerella della Sala Bianca di Palazzo Pitti, per l’invenzione geniale di Giovan Battista Giorgini. La mostra è specialmente raccomandabile per una visita lenta e rapsodica, guardando i touchscreens, che spiegano gli elementi del racconto.

 

Il mistero, la segretezza e il dialogo con il mondo esterno in modi e forme inediti sono anche centrali nella mostra di Carol Rama, a cura di Teresa Grandas e Paul Preciado che è ora alla GAM di Torino, proveniente dal MACBA di Barcellona, prima grande e importante retrospettiva per l’artista, nella sua città natale, dopo quella realizzata dalla Fondazione Sandretto Rebaudengo, insieme al MART di Rovereto, nel 2004, dopo il Leone d’Oro voluto da Francesco Bonami nella sua Biennale dei Ritorni e ritardi (all’esposizione si accompagna un volume, dal taglio più di libro che di catalogo, dal titolo La passione secondo Carol Rama, Cinisello Balsamo, Silvana, pp. 261, € 34). Nella visione data dalle curatrici emerge, tra interessanti interventi critici, “il “profilo ribelle” dell’artista rinchiusa nel suo studio-regno della soffitta di Via Napione, ma la signora della provocazione (“eroica, erotica, esotica” secondo l’azzeccata definizione di Lea Vergine che la rilanciò nel 1980 con L’altra metà dell’avanguardia) era ben dentro il mondo a lei contemporaneo, come spiegano le illustri amicizie, da Sanguineti a Warhol e il sostegno continuativo di illustri galleristi. Già nel 1951 compariva su “Marie Claire” come autrice di arredamenti nelle case torinesi, e firmava magnifiche stoffe (per tovaglie e bavaglini), e coperte, donate al suo estimatore Felice Casorati. Non per caso “La Stampa” la inseriva, a inizio anni ’70, nelle sue indagini sul tema “donna e lavoro”, come simbolo di un estremo rigore estetico capace, sia pure con non poche difficoltà, di parlare autorevolmente con il suo tempo. 

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