Speciale

Calvino e Carpaccio

19 Febbraio 2024

Scrutare [dal lat. scrutari “frugare, rovistare”]. – Guardare, esaminare attentamente, per scoprire o comprendere ciò che non si manifesta o non si capisce a uno sguardo o a un esame affrettato e superficiale: s. il viso di una persona (e s. una persona in viso, o negli occhiper conoscerne i sentimentiindovinarne le intenzionis. l’orizzonte nella speranza di vedere apparire una naves. la natura per comprenderne i segreti

Si potrebbe partire da questo verbo: scrutare, per definire – ammesso che sia possibile – il tipo di sguardo di Calvino sul visibile. Scrutare non si riferisce solo al testo intitolato La giornata di uno scrutatore ma al modo – attentissimo e allo stesso tempo esitante – con cui Calvino cerca di appostarsi sul visibile, di perlustrare quello che sta dentro le immagini nella speranza di vedere comparire qualcosa sul loro orizzonte.

Come Picasso (pittore-mondo, lo definisce Marco Belpoliti in “Italo Calvino: L’arte, gli artisti e le immagini”) Calvino è uno scrutatore cubista: le sue prospettive sono multiple, i suoi punti di vista squadernati sulla pagina. L’esigenza del cubismo è un realismo integrale: non l’oggetto rappresentato frontalmente nell’astrazione della prospettiva ma nella sua possibile realtà con lo sguardo che ruota intorno alla cosa e prova a restituirla nella sua apertura-sfrangiamento di bordi nello spazio. 

Picasso odiava tanto la morte da rifiutarsi sempre di fare testamento, – ricorda Sophie Calle nella straordinaria mostra parigina: Picalso. Calvino con la stessa forza, rifiuta, scrive Gianni Celati – “il buco nero dell’anima, le viscere”. A questo aggrovigliarsi, a questo entenglement risponde attraverso la linea retta, l’osservazione e insieme l’osservazione della mente che guarda, scrutandone l’orizzonte. 

Per Calvino guardare (l’unica cosa che pensa di poter insegnare) coincide con “un modo di essere in mezzo al mondo”. Questo cercare un modo è quello che guida Calvino verso un pittore come Vittore Carpaccio. In Carpaccio Calvino vede un maestro e spiega il motivo in un testo inedito (Album Calvino, 1973): “Carpaccio”, scrive “appartiene alle opere d’arte che si tornano a rivedere innumerevoli volte e ogni volta hanno qualcosa di nuovo da dirci. Carpaccio non ha mai smesso di pormi dei problemi” e aggiunge “sento continuamente il bisogno di tornare a consultarlo”

Consultare è un verbo metà magico e metà medico. Si consultano le carte, si consultano i tarocchi, ma si parla di un consulto per decidere quale strada prendere per una cura. Consultando Carpaccio, Calvino mette in rilievo due necessità del consulto: la concentrazione e il distacco. A queste si aggiunge un altro termine (scientifico): verificare. Calvino sente il bisogno di tornare a Carpaccio “per verificare se l’avevo capito bene, se non ha da dirmi qualcosa che non avevo afferrato”.

Qui si apre una voragine sul concetto stesso di ekfrasis che non è mai una semplice descrizione. Descrivere è descrivere e descrivere. Lo stesso dubbio “qualcosa che non avevo afferrato” apre la porta non solo a un’indagine ma risveglia l’elemento dormiente del quadro, immette la possibilità di un suono nel suo silenzio.

È quello che fa Williams Carlos Williams quando nel poema “Immagini da Brueghel” (1962) “descrivendo il Ritorno dei cacciatori nella neve ci restituisce con l’immagine di un cespuglio anche il troncarsi del ramo invernale: “a winter struck bush”. Nel quadro l’occhio che ha dipinto ha seguito la discesa dei cacciatori, ha tradotto per chi guarda il loro crinale che s’inabissa, le loro sagome nere sulla neve. La poesia di Williams rilegge il quadro. A cominciare dall’attacco: “In tutto il quadro è inverno”, che prepara la descrizione come il pittore prepara la tela. Williams registra i pattinatori in lontananza, l’insegna della bettola oscillante, il tentativo delle donne di ravvivare il fuoco sferzato dal vento. Ma proprio da questa rilettura e riscrittura-descrizione emerge un dettaglio che, liberato dal suo contesto, arriva fino a noi. Williams traduce una sorpresa, prova a dire l’inatteso che si annida nell’immagine. Bruegel mette in primo piano il dettaglio di un cespuglio spoglio, carico di neve, come i cacciatori sono carichi dei loro bagagli. Williams descrive l’immagine e descrivendola, trova anche un suono. Dice – attraverso il dettaglio, il senso di freddo, fatica, precarietà dell’intera scena: il suono di un ramo spezzato appunto: “a winter-struck bush”. La poesia capta ciò che il quadro lascia intravedere attraverso il ritmo del disegno e del colore. Tra l’immagine e il linguaggio scatta la rivelazione di un resto. Ma se la poesia, la scrittura possono dare sonorità all’immagine è altrettanto vero che anche l’immagine può restituire alla lettura il suo silenzio. Se il commento migliore a un quadro è come dice Baudelaire un sonetto o un’elegia, potremmo sollevando gli occhi dalla pagina (o dallo schermo) mettere in moto il suo cinema muto. L’ambizione di Calvino: insegnare a guardare, significa imparare di continuo, non smettere di porsi dei problemi significa essere vivi, essere in mezzo al mondo nel senso di essere tra le cose, gli oggetti, distanziandosi dalle viscere, per vedere meglio, appunto privilegiare l’esterno. 

Franz Kafka “Tra te e il mondo vedi di scegliere il mondo”.

Calvino: “Come scriverei bene se non ci fossi. Se tra me e il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona

Distanziarsi, eliminare il diaframma della persona significa – disappropriarsi. Il termine (ricorda Silvio Perrella nel suo romanzo-biografia su Calvino) è quello che utilizza Giorgio Agamben per parlare del tardo Caproni ma è perfetto per quello che Calvino insegue tutta la vita e cioè la tensione verso una espropriazione progressiva del proprio io.

Descrivere è una strategia cognitiva. Descrivere è descrivere è descrivere. Nella ri-descrizione – lo hanno dimostrato gli interventi di Giulio Paolini e Andrea Cortellessa alle Scuderie del Quirinale – si trova sempre una risposta ulteriore, un chiedere ancora e ancora all’opera riprodotta e a chi la rilegge. Ripetere (è il tema che Camilla Miglio indaga parlando di Paul Celan in Vita a fronte) è chiedere ancora a un testo, a un’immagine, continuare a guardare non escludendo nulla dal campo visivo.

Carpaccio – scrive Giulio Carlo Argan – “non dipinge che miracoli eppure non vede mai una cosa, una persona, ma sempre un contesto; vede il miracolo o l’atto eroico, ma non esclude mai dal campo visivo la donna che stende il bucato sul balcone o il pescatore sulla sponda del fiume che scorre sullo sfondo». 

San Giorgio è l’eroe ostinato che con un gesto esatto e ben calibrato trafigge il drago. In un’ottica cubista è la regola che corregge l’emozione. Nessuno poteva essere d’accordo più di Calvino, ma c’ è un altro aspetto che lo poteva affascinare: la ritrazione.

Carpaccio, la cui biografia è scarna, da un certo momento in poi si ritrae dalla scena pittorica veneziana che vedeva trionfare Giorgione e Giovanni Bellini. Ritrarsi ovviamente non ha nessuna connotazione morale, per ritrazione intendo l’essere assorbito dai dettagli, concentrarsi dimenticandosi, fare sparire dietro anzi dentro i dettagli perfino il proprio talento, la pittura stessa: la scrittura stessa. Significa lasciare una possibilità alla variante della ritrazione, la reticenza. Reticenza significa continuare a porre dei problemi.

Su Carpaccio Calvino proietta la sua passione per lo spazio, per cui va pazzo come Paolo Uccello per la prospettiva. Lo spazio è quello che “dilucida”, come scrive Andrea Zanzotto, quanto c’è di più “aggrumato” nella storia ma la storia più aggrumata è la propria, anzi quella che crediamo sia la nostra. Lo spazio permette una forma di spossessamento. Carpaccio sostiene Calvino in questo percorso attraverso la sua esattezza (esattezza è la seconda voce delle Lezioni americane), è esatto sempre, anche quando accende il fuoco per bollire in un pentolone il suo santo. Ogni tizzone è definito, i contorni sono ben delineati, la tortura (nel quadro ce ne sono due: il rostro e il fuoco) remota come nelle fiabe. Sulla pelle di Carpaccio, Calvino – queste pagine inedite sembrano confermarlo – inietta il virus della sua malattia: il condizionale, da ogni scena guardata, la scrittura ne potrebbe trarre molte altre, nella scrittura ogni possibilità è aperta dalla scrittura stessa.  

“Mi raccontavo” (Visibilità, Lezioni americane) “mentalmente le storie interpretando le scene in vari modi, immaginavo nuove serie\scene in cui i personaggi secondari diventavano protagonisti.”

La successione dei verbi: producevo, fondevo scoprivo, isolavo e collegavo, contaminavo (altro verbo medico) ribadiscono quale sia l’esigenza: fantasticare dentro le figure, scardinandole dal loro contesto, senza più gerarchie, inventando nuove serie\scene in cui i personaggi secondari diventano protagonisti, mescolando dunque le carte come nel Castello dei destini incrociati.

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Vittore Carpaccio foto Mauro Magliani San Giorgio che uccide il drago e quattro scene del suo martirio.

Augusto Gentili nei suoi grandi studi su Carpaccio usa il verbo “decentrare”. Se guardiamo di nuovo, o ricordiamo, il quadro esposto alle Scuderie, ci accorgiamo infatti che l’azione di San Giorgio invece di dominare la scena ci attira verso i dettagli, la figura solitaria di eremita a sinistra appollaiata sugli alberi potrebbe migrare nel gruppo a destra del quadro, il monte sullo sfondo potrebbe essere improvvisamente sommerso dalla nebbia. Le zampe del cavallo inquadrano resti umani. La figura troncata a metà – dimezzata – mostra viscere e sangue ma bloccati e senza umori.

Carpaccio è il pittore dello smembramento, che fa a pezzi nei riquadri sottostanti il trionfo del santo raccontando le sequenze delle torture a cui è sottoposto fino alla dichiarazione di fede e alla decapitazione che è uno smembramento.

Quella che va potenzialmente in pezzi è la stessa armonia della scena principale. Dentro la mente di Calvino che guarda Carpaccio piove la conferma che non esiste una trama, che la vita è fatta di pezzi e a pezzi. San Giorgio è circondato da un collage di mani, crani umani e di animale, braccia, visi e corpi già decomposti. Se il colore di San Giorgio, della sua azione geometrica è brillante quasi smaltato, quello dei resti, delle carcasse è invece livido, vira – come sa chiunque abbia visto un cadavere – verso il verde. 

Il quadro esposto alle Scuderie è una variante tarda – 1516 – dell’opera omonima a San Giorgio agli Schiavoni ma in entrambe c’è la stessa riflessione sui resti: alcuni sono stati appena divorati il drago, altri invece sono già scheletri, bestie e umani mischiati tra loro, già desertificati. 

In una pagina di Corpo Celeste, pensando al San Michele e il drago di Raffaello, Anna Maria Ortese parla con compassione del drago e in effetti siamo di fronte a una bestia trafitta dal muso simile a quello di un’iguana che suscita più compassione che orrore. Ma Carpaccio coincide con le esigenze del suo tempo. Il drago è figura della lussuria e dei suoi effetti, visto la diffusione della sifilide a Venezia, ma il drago era raffigurato sulle bandiere dei turchi nemici di Venezia e il drago era – come testimonia un disegno in un manoscritto conservato nella Bodleian Library di Oxford – la forma delle macchine da guerra del tempo: stesse fauci quadrate ali-artiglio e orecchie arricciate, e come bocche di fuoco di drago erano percepiti i cannoni turchi. Sconfiggere il drago, tenendo a memoria un altro dei teleri agli Schiavoni, trascinarlo sulla pancia come un lucertolone, con la schiena che mostra pelle scura e pelo, con il cranio nudo e la coda viscida significa ammaestrare gli “infedeli” (per la Repubblica ugualmente anche se diversamente pericolosi: musulmani e ebrei), mandando loro un messaggio di ammonimento (Gentili) diversamente violento.

Calvino era probabilmente consapevole di questi rimandi iconografici, ma alla sua iconologia fantastica interessa qualcosa di sghembo: un modo come quello che, usando come guinzaglio la cintura della principessa salvata, suggerisce la possibilità di controllare l’apparentemente incontrollabile attraverso il dislocamento del terrore, il suo assottigliarsi in una striscia di rosso.

Ogni volta le opere di Carpaccio rivelano un nuovo particolare, ogni volta hanno qualcosa da dirci.”

Possiamo guardare Carpaccio con gli occhi di Calvino e possiamo rileggere Calvino a fronte di Carpaccio fino a trovare per ogni particolare della sua scrittura un luogo fatto di erbe, acque, torri, alberi su cui potrebbe salire un eremita rampante. Tra tante storie si può provare a seguirne-immaginarne una suggerita dallo stesso Calvino: la lancia di San Giorgio si trasforma in penna, il drago si trasforma in un leone curabile. Una contiguità di storie. San Giorgio dice lo stesso lo stesso Calvino diventa di San Girolamo o Sant’Agostino, il guerriero diventa uno studioso “Mi vedevo come un monaco nel suo studio”. L’azione sconfina nella contemplazione, la dispersione nel raccoglimento. 

 Se avviciniamo lo sguardo allo sfondo dello studio di San Girolamo o sulla sinistra del quadro erroneamente intitolato (povere donne, entrambe) Le cortigiane, vediamo cose, oggetti, strumenti umani dentro scatole che disegnano una rotta su cui Carpaccio anticipa Joseph Cornell e Mark Dion. Dentro queste scatole studio, dentro queste conchiglie, ci sono pergamene, clessidre, astrolabi, oggetti schierati che sembrerebbero arginare l’ossessione ma la rendono invece più tangibile. Non è escluso che la calma di san Girolamo sia solo apparente, non è escluso, sono parole di Calvino che “l’ordine dello studio covi una catastrofe imminente, un annuncio di terremoto”. È un sisma che Calvino sperimenta nel suo linguaggio attraverso la lente dell’italiano “marmoreo”, anzi discreto (termine usato nella Spirale delle immagini da Andrea Cortellessa), della madre scienziata, botanica, abituata a discernere tra lingua e limba e il disordine, la passione, l’intrecciarsi di diversi linguaggi del padre. Questa infiammazione cronica viene fronteggiata con qualche dose di eroismo. Calvino sa che “ le cose si rivelano solo nello sfacelo” che la perfezione è accidentale, che l’essere umano è una possibilità del mondo, come dice in anticipo sulle prospettive anti-antropocentriche in un’intervista del 1967 con la quale chiudo e che potrebbe accompagnarci nella contemplazione non solo di Carpaccio ma di tutte le immagini come esercizio che condivido totalmente di disappropriazione: “Il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, l’essere umano è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare delle informazioni su se stesso”.

martedì 20 febbraio 2024 ore 11
Biblioteca Cornelia 

Narrazione
con Bruno Falcetto

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