Isole
La prima lezione delle isole è che non puoi andartene a piedi. Acqua e aria. Vento e onde, niente treni. Devi prendere una nave o un aereo. Corde, bitte, sartie, un autobus che sbanda. Devi correre in cerchio come un cane. Conosci la protezione ma anche il massimo dell’esposizione. Nei giorni di bufera ti bruceranno lingua e occhi. La lingua sarà secca, gli occhi pieni di sale, la voce troppo bassa per chiedere aiuto come succedeva da piccoli. Circondata da un elemento instabile, il mare, l’isola coincide con le forze opposte del rifugio e della minaccia. Respira con il tempo atmosferico, è il tempo stesso, continuamente disorientata da nuvole, vento, uccelli che confondono le rotte, traghetti che per una tempesta improvvisa rischiano di sfracellarsi sugli scogli e non riescono ad attraccare. “Io sono il tempo” ha scritto l’artista statunitense Roni Horn raccontando il suo lavoro in Islanda. In quest’isola di ghiaccio costellata da sorgenti calde, geologicamente fragile, scossa da eruzioni vulcaniche, offuscata da fumi rossi, ha trovato lo spazio di un’ispirazione che ha come oggetto l’identità e il suo dissolversi. Lo testimoniano i suoi Autoritratti, serie di foto in cui viso dolce, molto femminile, quasi botticelliano di Horn viene perturbato, attraversato, da altre forme: maschili, infantili, vecchie, fino a confondersi e confonderci in bilico tra ritrovamento e perdita. L’Islanda è il luogo, anzi la figura di questo sguardo. “Ho scelto l’Islanda”, ha scritto Roni Horn “come un altro artista avrebbe scelto il marmo. L’Islanda mi ha dato il gusto dell’esperienza, il paesaggio mi ha ammaestrato”. L’ammaestramento del paesaggio di un’isola avviene attraverso lo spezzarsi continuo di ogni abitudine. Esattamente come per la poesia l’orizzonte deve essere ogni volta ridefinito, ogni volta il corpo deve modularsi su uno spazio e un tempo senza certezze. Non esiste consolazione, si è ogni volta in balia di elementi diversi, di diverse condizioni. Alcune parole che a volte usiamo per la meteorologia possono applicarsi agli stati d’animo: calmo, agitato, variabile. Dire “io sono il tempo” significa vedere se stessi come fenomeno. La prima persona non è diversa da una nuvola, l’io diventa un paesaggio. Becoming a landscape era il titolo di un’installazione di Horn a Zurigo del 2001: il viso di una ragazza fotografato più volte, ritmava sulla parete bianca alternandosi a ingrandimenti delle piscine di acqua bollente che si trovano disseminate in Islanda. Un ammaestramento, di solitudine. Osservati a lungo i lineamenti della ragazza, si sfaldavano, sempre più fragili, non resistevano davanti alla forza delle immagini di quella materia, di quel paesaggio, dovevano arrendersi, essere inghiottiti. Come l’Islandese di Leopardi, chi guardava capiva di assistere a una lezione di insignificanza.