Capitalismo incontrastato

26 Giugno 2024

Cosa ne è della logica quando questa viene ridotta alla sua natura strumentale? Cosa accade quando i processi conoscitivi diventano essi stessi sintomi di quella strumentalità che, al tempo del capitalismo neoliberale, domina completamente i processi produttivi, lavorativi e tecnologici? E qual è, infine, il legame fra tale avanzare della ragione strumentale e il superficializzarsi delle nostre esperienze? O, detto in modo più novecentesco, come si è trasformata nel nostro tempo la relazione fra produzione, tecnica e nichilismo?

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Sulla scorta delle riflessioni della sociologia contemporanea, con Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe (Rogas, 2024) Roberto Finelli e Marco Gatto, rappresentanti di due diverse generazioni di hegelo-marxisti, intervengono su temi oggi assai dibattuti ricostruendo gli effetti politici, culturali e comportamentali che si diffondono a partire da un capitalismo divenuto universale. Il capitale, ribadiscono, resta il principale produttore antropologico della nostra società: un vettore di socializzazione capace di riprodurre non solo i rapporti sociali ma anche l’immaginario collettivo, riformulandolo nei termini di un’attitudine psicologica e conoscitiva che si pensa estranea alle prospettive euristiche, e si riformula invece sulla mera gestione ordinativa dello status quo. Il come prende il luogo del perché, e il logos stesso passa a operare all’interno di limiti che mai trascendono le regole e le prospettive di ciò che Fisher ha chiamato “realismo capitalista”. Dinnanzi a prospettive etico-politiche differenti, ma concordi nel loro operare nel quadro del there is no alternative, la mente si riduce così essa stessa a uno strumento calcolistico, meramente finalizzato a imbastire reazioni rispetto a orizzonti di senso, ancora quelli prodotti dal capitale, che vengono introiettati come non-oltrepassabili. 

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A riformularsi è così una tipologia del tutto particolare di universalismo. L’universalizzazione capitalista è infatti qualcosa che va ben oltre l’universalismo ideologico-politico combattuto dalle prospettive foucaultiane e para-foucaultiane, perché in grado di accogliere al suo interno posizionamenti ideologici del tutto differenti e addirittura alternativi, facendo però salvo il loro operare nel quadro di una costante mercificazione di se stessi. In tale movimento l’astrazione capitalistica non si veicola nel suo appoggiarsi, come in passato, a precise concrezioni ideologiche (religione, scientismo, ecc.), ma il capitale si dissimula proprio mediante un’estrema mobilità ideologica, riarticolata però in unità mediante la riduzione di ogni elemento dell’umano (ideologie incluse) a merce. Dalle magliette con Che Guevara alle università che si brandizzano proponendo corsi di laurea di Gender, Postcolonial o Animal Studies, dai miti securitari ai peana legalistici, dalla visione dello Stato come baluardo contro l’operato delle multinazionali ai ritorni etnico-identitari del rosso-brunismo, dal bacchettonismo moralistico alle trasgressioni sessuali e amorose, dietro tutto ciò domina la procedura di dissimulazione di un apparato produttivo interessato a riformulare il nostro rapporto col reale nei termini esclusivi dell’utilità. Quello che a livello esistenziale esperiamo come costante farci imprenditori di noi stessi (dal posizionamento ideologico all’auto-promozione sui social, all’utilizzo mercificato delle nostre specificità identitarie) è in realtà la capacità della struttura di intervenire (e senza più la mediazione degli intellettuali) sul piano della configurazione dei pensieri e dei comportamenti soggettivi, dove cioè il piano della produzione materiale trapassa nel piano della formazione, anche spirituale, di una coscienza di massa. Inoltre, al tempo del “lavoro autonomo”, tale processo oltrepassa le frontiere della vita lavorativa propriamente detta, estendendosi a ogni momento della nostra esistenza, in processi di presentazione costante di noi stessi come forza-lavoro adeguata, cioè per l’appunto come merce appetibile.

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Il modo di produzione – e dunque il funzionamento dell’insieme delle relazioni sociali – si riversa così in quel “supermarket strutturale” che, anche quando critica i processi di soggettivazione di tipo capitalistico, sussume involontariamente su di sé le modalità produttivo-ideologiche del sistema stesso, cioè la forma-merce veicolata dall’assunto dell’utile.

La culturalizzazione del reale, fenomeno tipico – sosteneva Fredric Jameson – di quella dominante culturale che è il postmodernismo, diventa così il piano in cui la moltiplicazione ed eterogeneizzazione delle prospettive ideologiche (anche contestative) è permessa, a patto che queste avvengano sotto l’egida dell’astrazione capitalistica, vale a dire sussumendo in sé proprio quel there is no alternative che li costringe alla sussunzione della forma-merce, o ciò che gli autori chiamano efficacemente la “logica dell’esposizione”, in un processo che è contiguo a quel superficializzarsi delle prospettive conoscitive.

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Per gli autori tale processo è stato involontariamente accompagnato da prospettive culturali (alcune anche di matrice latamente marxista) che hanno cercato di presupporre e proporre soggettività storiche e sociali operanti al di fuori della relazione con l’oggetto che è il capitale. Tali posizionamenti, dall’operaismo trontiano alle varie propaggini del post-strutturalismo, si caratterizzano dunque come sintomo di un rapporto dialettico (e subalterno) col capitale proprio a causa del rifiuto di tale rapporto. È infatti parte integrante del modo di operare dell’astrazione capitalistica quel dissimulare la sua capacità di intervento (ancora il principio della merce e dell’utile) all’interno delle stesse ideologie contestative. E in tal senso il dinamismo, la molteplicità, la fluidità – per come difesi dalle varie prospettive ermeneutiche e deboliste – sono di fatto indici dell’incapacità di riconoscere il rapporto dialettico e sintomatico che lega ogni prospettiva ideologica (marxismo incluso!) all’operazione astrattiva del capitale. Dinamismo, molteplicità, fluidità, ecc., corrispondono dunque a principi dinamici e di movimento del tutto congelati, proprio perché incapaci di riconnettersi dialetticamente non al mero economicismo del capitale, ma alla sua capacità di indirizzare – potremmo dire metodologicamente – quegli stessi elementi sovrastrutturali che sono integrati alla struttura. In tal senso la “sovrastrutturalizzazione della struttura” (ancora Jameson), vale a dire la perdita della coscienza del legame dialettico (e ovviamente bi-determinato) fra struttura e sovrastruttura, finisce con l’elidere proprio la consapevolezza dell’intervento dei processi economici su quelli di formazione antropologica. 

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