Furio Jesi. Miti, storia e merce

14 Marzo 2023

Si può forse cominciare da un punto paradossale. Quanto le interpretazioni della cultura di destra che non tengono conto del rapporto che questa intrattenne con la sfera di produzione e mercato sono a loro volta vittime di quel meccanismo che Furio Jesi definì “macchina mitologica”? Certo si può interpretare – ed è anche giusto farlo – la cultura di destra come attacco alle libertà civili, come rifiuto dell’altro, come strumento di forzato rinnovamento antropologico, ecc., ecc., ecc., ma se queste interpretazioni non sono poste in dialettica con quella capacità del mercato capitalistico di sussumere ogni prodotto culturale nella forma della merce, il rischio sarà allora quello di prendere per ‘sincero’, pur rifiutandolo e sottolineandone le aberrazioni, quanto dalla destra proviene in forma di discorso ideologico-culturale. Da qui il rischio sarà, da un lato, quello di separare cultura e mercato, dall’altro quello di disgiungere fascismo e capitalismo, cioè quello di interpretare la cultura di destra come realmente altro dal suo sfondo storico-materiale di riferimento: proprio ciò, ed ecco il paradosso, che la stessa cultura di destra, la presupposizione della “terza via”, ha sempre sostenuto.

Il nocciolo dell’intuizione jesiana è invece proprio chiarire, seguendo in ciò i francofortesi, come la merce (cioè il modo di produzione che trasforma il reale in “un’immane raccolta di merci”) si sia infiltrata all’interno di ogni costruzione ideologico-culturale, rendendo il materiale a disposizione (incluso ovviamente quello del mito) paccottiglia pronta all’uso, cioè roba utile, vale a dire cianfrusaglie che si comportano seguendo il medesimo principio della razionalità che guida la produzione: ciò che è utile è vero o, detto in altro modo, è il mezzo che decide del fine. Se, come molti anni dopo chiarirà Johann Chapoutot in Nazismo e management (Einaudi, 2021, si veda la recensione di David Bidussa) il principio portante del sistema di produzione industriale nazional-socialista consistette appunto nel negare ogni forma di fine trascendente (religioso, etico, regolativo, normativo, ecc.), per riformularsi sulla base del puro principio di utilità strumentale, Jesi aveva rilevato lo stesso identico meccanismo in tutta una serie di manifestazioni culturali che volevano darsi come l’esatto opposto (i miti per l’appunto) della nuova razionalità strumentale che stava, dalla sfera della produzione, diventando il nucleo del nostro modo di rapportarci, anche quando produciamo cultura, al reale. 

In questi tempi di culture wars, tempi in cui il ruolo di produzione e mercato è sempre più posto sullo sfondo dell’analisi, è cioè sempre più “naturalizzato” (anche dalla cultura di sinistra), non può dunque che risultare più che gradita la ripubblicazione dell’introduzione che Jesi scrisse (nel 1978) per quella “macchina mitologica” per eccellenza che fu Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. E ben fanno i curatori David Bidussa ed Enrico Manera a riporre l’accento sulla necessità di un’interpretazione in chiave politico-economica tanto del discorso jesiano quanto dell’opera (della lunga serie di opere) che questo scelse ad oggetto di analisi (Furio Jesi, Una grandiosa profezia. Il tramonto dell’Occidente di Spengler, disponibile solo in formato ebook).

Si tratta di un saggio, quello di Jesi, molto particolare, strutturato certo sui concetti, a loro volta mercificati, di “profeta” e di “profezia” (termini cari ai lettori simpatetici di Spengler), ma allo stesso tempo è un lavoro soprattutto finalizzato a legare filologicamente la speculazione spengleriana all’ambiente monacense da un lato e agli intellettuali gravitanti attorno al circolo di Stefan George dall’altro. Il surplus di acribia filologia che Jesi qui mette in atto è infatti funzionale alla riattivazione delle coordinate storiche che portarono alla nascita di Il tramonto dell’Occidente. Serve cioè a sottrarre aura all’opera stessa, rifunzionalizzandola (e dunque in un certo senso de-sacralizzandola) come sintomo di determinate coordinate storico-culturali. Lo stesso valore di “profezia” ne risulta così ironizzato, perché inteso nel contesto di un dibattito culturale intimamente connesso a una lotta, interna alla destra, per l’egemonia.

Già sottolineando il modo in cui la variegata produzione afferente alla cosiddetta “Rivoluzione conservatrice” sarà consumata dai teorici di regime (a partire ovviamente da Rosenberg), Jesi ne mette poi a fuoco alcuni degli assi principali, a cominciare naturalmente dalla visione ciclica dei fenomeni storici, cioè appunto (e si comprende così bene l’intento politico connesso al rigore storico-filologico di questo saggio) la riduzione della storia a cicli biologici che irrigidiscono il progresso in destino, cioè in emanazioni da un nucleo originario di senso (il mito dell’archè) che di una società ha già indicato da sempre e per sempre le direzioni dello sviluppo. È il procedimento centrale della cosiddetta “morfologia storica”, vale a dire l’intendere gli impianti socio-materiali sulla base di Kulturen che ripercuotono lo stampo originario connesso ad ogni epoca storica, facendo di questa la forma di una direzione già prefissata.

È a partire da questo assunto che tutti gli altri, forse addirittura più famosi (la metropoli come luogo a-valoriale, la trasformazione del popolo in massa, il decadimento dell’orizzonte qualitativo in luogo di quello quantitativo, il trionfo del materialismo, ecc.), seguiranno. Ed è appunto tale sovrapposizione fra mito e storia, cioè l’intendere la storia come iscritta in nucleo originario che la definisce, che Jesi porta a critica, giustamente leggendo in essa una reazione a quella crisi della dimensione ontologica che pone (invece che sotto il nome di Nietzsche) sotto quello dell’Husserl di La crisi delle scienze europee. Da qui lo studioso ha buon gioco nel descrivere, fra Dacqué e Bachofen, il mito dell’organicismo a fondamento del discorso spengleriano, vale a dire la presupposizione, pur nell’orizzonte della decadenza, di un’antica organicità sociale che avrebbe caratterizzato il “carattere” della nazione come espressione di una Seele originaria (il goethiano Urphänomen), e rispetto al quale la società contemporanea si differenzierebbe appunto in quanto allontanamento dalla reale “impronta” (termine jüngeriano) della nazione.

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A ciò si aggiunge, come ben noto, l’iscrizione della decadenza stessa all’interno di un sentire “borghese” (si legga cosmopolita, materialista, pacifista, ecc.) che, prodotto importato, ha contribuito ad allontanare il popolo stesso da sé, cioè dal suo vero sentire. La stessa lettura “mitologica” della storia (cioè la lettura del divenire storico secondo le categorie morfologiche) diventa a questo punto essa stessa opposizione alla visione borghese, quella che aveva appunto inteso invece la storia stessa secondo l’idea di progresso. Ciò che chiarisce bene Jesi è così proprio come Spengler abbia naturalizzato la storia stessa, intendendola come un prodotto di elementi di tipo ctonio, e ancora come, di conseguenza, il suo stesso lavoro abbia smesso di concepirsi in termini storici, ma si sia progressivamente caratterizzato (ed ecco il “profeta” e la “profezia”) come la voce della Natura stessa che parla. 

Il volume è completato da due ottimi saggi dei curatori. Nel primo Manera si concentra inizialmente proprio sul concetto di “mito tecnicizzato”, vale a dire sul modo in cui, secondo Jesi, la cultura di destra scese progressivamente a patti, e proprio mentre ambiva a presentarsi come altro, con le strutture di quella “ragione strumentale” che, stante le ragioni della produzione capitalista, stava assimilando a sé la stessa forma mentis borghese. Da qui analizza alcuni nodi centrali del formarsi del pensiero della destra novecentesca, a cominciare da quell’eternizzazione del presente che del connubio fra mito e ragione strumentale è, per Jesi, uno dei nuclei centrali. 

È importante spiegarsi bene su questo punto. Solitamente la cultura di destra tende a rifiutare il presente concependo la vera realtà della società che ha di fronte come in qualche modo direttamente connessa a qualche forma archetipale della società stessa (può essere la razza, il carattere, la Kultur, ecc.). Così facendo però non utilizza il passato (come ad esempio fanno negli stessi anni Ernst Bloch o il giovane Lukács) come standpoint da cui criticare il presente stesso, ma negano realtà alla società corrente, considerando di questa reale solo ciò che in essa stessa sopravvive del suo nucleo archetipale, e assegnando di conseguenza tutto ciò che non pertiene a questo allo spazio della decadenza e della corruzione (di solita operata dall’esterno della nazione o da elementi interni “cosmopoliticizzati”, come ad esempio gli ebrei). Da qui la destra muove o verso l’ottica anti-modernista che sogna la marcia indietro, o verso l’ottica modernista che mira a riattivare (ad esempio tramite “rivoluzioni antropologiche”) il nucleo vero della società stessa.

L’eternizzazione del presente è così tutt’uno con l’eternizzazione del passato, vale a dire col considerare reale di una società solo i tratti derivanti da un presunto archetipo socio-etnico-culturale. Il presente risulta dunque eternato non secondo il modello postmodernista (impossibilità della nostalgia e dell’utopia), ma, spenglerianamente, secondo il modello ancora della “naturalizzazione” della storia, un modello che però per Jesi, come Manera giustamente sottolinea, è tutt’uno con quell’attitudine della ragione strumentale di selezionare, dalle molteplici messe di dati offerti dal reale, esclusivamente quelli utili allo scopo che ci si presuppone (e si comprende così anche il futuro possibile sviluppo di un’estrema destra… neoliberale). Ecco perché “mito tecnicizzato”, eternizzazione del presente e ragione strumentale sono di fatto per Jesi elementi di un medesimo movimento culturale, un movimento all’interno del quale il passato (e di conseguenza il presente stesso) diventa appunto quella “pappa omogeneizzata”, quel magazzino di temi pronti all’uso (e al consumo) che trasforma il mito in una “macchina mitologica” (e la parola “macchina”, chiaro riferimento all’ambito strumentale della tecnica, non è ovviamente casuale).

Mediante tale macchina “il presente, come Manera scrive, viene risacralizzato per via estetica”, e ciò viene fatto mediante dispositivi culturali che, mentre paiono tutti incentrati sul rifiuto del moderno (metropoli, massa, tecnica, ecc.), in realtà del moderno, cioè del mondo della produzione capitalista, della società divisa, ecc., stanno segretamente seguendo le metodologie. Da qui la strada risulterà aperta a tutto quello sviluppo culturale (da Hofmannsthal a Benn) teso a fondare comunità nazionali e trans-nazionali sulla base di un segmento di valori identificato come fondante e come tutt’ora operante, pur in mezzo alla decadenza presente. La strada risulta così aperta a una “rinascita”.

Dal nesso corruzione/rinascita muove anche il lavoro di Bidussa, finalizzato a ricostruire alcuni momenti dell’interpretazione de Il tramonto dell’Occidente (e di altri testi dello stesso autore). Qui il discoro tende cioè a focalizzare sull’uso politico e culturale della mediazione spengleriana, concentrandosi su una serie di esperienze di lettura fra cui risalta, inevitabilmente, quella mussoliniana. Bidussa delinea con sicurezza come la “macchina mitologia” di Spengler si sia attivata in riferimento ad alcuni passaggi chiave della politica (e persino del linguaggio) del Duce: il ruolo della “Terra”, il mito della ruralità, il presupposto di una comunità di popolo che sia altro dal mercato globalizzato (Gemeinschaft), la politica demografica, ecc. E sottolinea in seguito il ruolo di reagente che, nel mondo culturale, Spengler giocò per un numero non esiguo di intellettuali. Fra i molti esempi riportati risultano particolarmente interessanti quelli relativi a Febvre e ad Adorno, soprattutto perché direttamente connessi con quel dissolversi della storia di cui abbiamo più volte detto. 

Se la lettura febvriana si appunta infatti proprio sull’inesistenza di documentazione storica, finendo brillantemente con l’equiparare la riflessione sull’inevitabile decadenza (di Spengler e di altri) a una crisi della capacità di lettura storica del reale, la lettura adorniana, pur all’apparenza più simpatetica (riconosce ad esempio a Spengler alcune intuizioni sociologiche concernenti le dinamiche dell’inurbamento), risulta particolarmente interessante nel suo connettere Il tramonto dell’Occidente a un primato della sfera culturale (oggi parleremmo di culturalismo) che si nega al rapporto di questa con i processi economici in corso, e che, come tale (e ritorniamo così ancora all’intuizione di Jesi), ricade all’interno del liberalismo.

Detto in altro modo, l’accusa è qui quella tipicamente francofortese: la cultura di destra non è in grado di comprendere che il cambiamento ‘quantitativo’ del mondo (suffragio universale, irruzione delle masse, emancipazione femminile, sviluppo tecnologico) comporta un suo cambiamento ‘qualitativo’, e tale cambiamento influisce drammaticamente sullo stesso spazio di ‘separazione’ della cultura, strappandola alla torre d’avorio e trascinandolo nel fuoco dei conflitti e delle ideologie. Non comprendere tale passaggio significa ricadere, pur dall’estrema destra (ed è un’altra conferma alle tesi di Jesi), nel mito dell’autonomia del culturale (della “coscienza” avrebbe detto Marx) che caratterizza il liberalismo.

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