Dante e Pinocchio: storia di due nasi
Il pretesto, d’occasione, è ripresentare ai lettori la divertita narrazione del viaggio di Pinocchio ai cerchi e ai cieli danteschi così come raccontato da Bettino D’Aloja in tre albi delle Edizioni Nerbini (Stefano Jossa e Luciano Curreri, In balìa di Dante e Pinocchio. Per una critica della cultura italiana), con un Dante sapiente o, meglio, “enciclopedico”, tormentato da pulci (e glossatori), e un burattino, ahilui perennemente in formazione, a cui l’empireo è fatalmente negato. Se dal pastiche parodico di D’Aloja è ormai lecito aspettarsi il giusto – le battute sono invecchiate maluccio, ma quanto interessante questo Dante, Concordato ancora a venire, che afferma risoluto di essere lui stesso, proprio lui!, il creatore dei “gironi” del Purgatorio – l’intento dei curatori è invece quello di utilizzare le ricorrenze letterarie e cinematografiche dei due nasi più famosi d’Italia per impostare una riflessione sull’utilizzo ideologico e merceologico delle due icone.
Dal post-Risorgimento al Ventennio, dal boom alla commercializzazione e airbnbizzazione di centri storici a cui occorrono testimonial d’eccezione (e se hanno già parlato inglese tanto meglio), Dante e Pinocchio attraversano temperie di pensiero e Italie differenti. A ogni nuovo decennio ce li ritroviamo davanti a supporto di questa o quella idea nazionale, come italiani sempre “da fare”. E dunque non si capisce bene, dantedì dopo dantedì, se a essere in balìa si sia noi oppure loro, che il carattere degli italiani quello è, e gli stranieri lo sanno o credono di saperlo (ma via che gli si può vendere anche quello), però Dante e Pinocchio cambiano di volta in volta aspetto, perché, icone, tocca loro significare quel processo continuo, ma che si immagina sempre finito, che Benedict Anderson chiamava la “creazione di una comunità immaginata”, in questo caso la nostra. I due nasi sono quindi quello che siamo stati o, meglio, quello che di volta in volta abbiamo, nel bene come nel male, creduto di essere; una “mitologia nazionale”, come scrive Jossa, che si esprime nell’idea di una Kultur (perché espressione geografica sarete voi!) che sia, nell’800 hegeliano, il fondo comune di un nostro essere popolo, fondo che, fallimento dopo fallimento, un Guicciardini per ogni Machiavelli (“rifà la base, il pensiero il metodo e pone il fondamento di un altro edificio”, De Sanctis), preparava l’Unità e subito dopo l’educazione necessaria – no way!, Lucignolo has to die – a essere all’altezza di quell’Unità.
Dante e Pinocchio patrioti, dunque, arruolati ben presto nelle fila di un patriottismo che, Clausewitz docet, sprona via via alla necessaria mobilitazione di massa e già si prepara, si legga o meno Goethe sulla tradotta, a diventare nazionalismo. Perché auto-determinazione dei popoli sì, ma, via via che i mercati si interconnettono e le ferrovie Berlino-Baghdad vengono ultimate, fino a un certo punto. Dante e Pinocchio da qui in camicia nera, che se c’è una Gemeinschaft (una comunità) da esprimere, va da sé che le sue caratteristiche non possono essere mobili o di volta in volta negoziabili, e nel Dante di Gentile l’Unità stessa già sta covando (“il fondamento di un altro edificio”) il fascismo. Da Gioberti a Cazzullo – e non si rida che la cosa è seria – l’universalità dantesca come universalità del Belpaese: classicità, cristianità, umanesimo, e i soliti pinocchi italiani (“nessuno è perfetto”, Pane e cioccolata) da educare. Ma da educare a cosa? Lo diceva già Soffici negli anni ’30 (e senza citare Gioberti): “educare all’italianità significa educare all’universalità”. Dante e Pinocchio a questo punto simboli della comunità stessa – e Jossa giustamente ricorda l’invito di Croce a non fare di Dante un simbolo (ma anche questa è ideologia, un’altra ideologia) – funzione rappresa di tutto un bagaglio di valori che di lì a poco si proverà addirittura a esportare in divisa.
Ma se Jossa, nel primo dei due saggi che compongono questo volume, si fosse fermato qui, in fondo ci avrebbe dato una storia ideologica dei due nasi certo corretta ma già battuta. È il secondo movimento, quello dove l’utilizzo dei simboli è connesso alla commercializzazione di ciò che qui simboli esprimono, a costituire la parte più originale e interessante del saggio.
Non sarebbe male a questo punto riaprire un attimo Cultura di destra di Furio Jesi, in particolare dove spiega che i mitologemi nazi-fascisti funzionano come una “pappa” da cui estrarre (o prendere, comprare, ecc.) a piacimento i motivi ideologici più adatti a una resa sul mercato delle idee. Per Jesi quei mitologemi, pur certo parte di un classico discorso di destra teso a rivestire determinati elementi simbolici di quelle che ideologicamente vengono presentate come le caratteristiche dell’anima nazionale, funzionano in realtà in perfetto accordo al mercato capitalista che, fascismi o meno, continua a espandersi. Sono appunto merci in forma di mitologemi, da usare a piacimento verso lo scopo (“ragione strumentale” la chiamava Adorno) di volta in volta prefissato.
Quello che succede a Dante e Pinocchio nella ricognizione di Jossa è qualcosa di simile: alcune caratteristiche tipiche del pensiero di destra (identità, comunità, valori nazionali, ecc.) vengono sì simbolizzate nelle due figure in questione nel periodo nazionalista, ma in seguito, indebolite e adattate a una concezione certo più liberale, continuano a operare in modo merceologico, vendendo ai turisti (e anche agli stessi italiani) quelle stesse concezioni di identità, comunità, valori, ecc. Come, secondo Jesi, la logica di mercato è inerente alla stessa forma mentis nazi-fascista, così qui un certo grado di “sacralizzazione simbolica” risulta dunque congiunto non semplicemente alla logica patriottica e poi fascio-nazionalista, ma alle ragioni stesse del mercato.
Il risorgere di Dante e Pinocchio, e con loro della retorica nazionale, nelle tante forme del marketing degli ultimi anni, andrebbe dunque a esprimere non semplicemente il passaggio dei due simboli dal precedente orizzonte patriottico-nazionale a quello disneyano-capitalista, ma in realtà proprio il collegamento fra i due orizzonti. I Dante e Pinocchio che tornano a dominare la scena culturale restano infatti, in ultimo, ancora delle figure tutto sommato gentiliane, perché ancora interpretate, invece che nella longue durée della loro ermeneutica storica (e sarebbe forse valsa la pena di ricordare in tal senso quella contro-operazione che fu il Dante reazionario di Sanguineti), nell’attualizzazione che, proprio in quanto simboli di un tutto nazionale, li fa merceologicamente spendibili sul mercato, un po’ come la Santa Maria del Fiore che fino a qualche tempo fa appariva nella home page di Airbnb: mise en abyme di un paese che, come ormai ogni paese sia chiaro, deve pensarsi anche come prodotto.
Ma era possibile una storia diversa? Si può cioè cercare un Dante/Pinocchio (o un nuovo Dante attraverso Pinocchio, come dice Curreri nel suo saggio), che non si accodi né all’ovvio nazionalismo né (e la lettera maiuscola è dell’Autore, p. 51) al Mercato?
Curreri, concentrandosi soprattutto sul cinema, fa emergere dunque un uso popolare di Dante, un uso ‘decostruito’, se con ciò si intende non il derridiano “leggero scivolamento” che turba la tetragonia dell’Essere, né la semplice “demistificazione” con cui oggi a sinistra si identifica tale termine, bensì qualcosa che abbia a che fare con un sentire differente da quello ufficiale (sia in doppio petto o in fez), con qualcosa che saremmo tentati di definire, se il termine non fosse ormai a sua volta soggiogato dal mercato, nazional-popolare. Più la cultura costituita faceva di Dante “museo”, “monumento” teso a veicolare valori che nel loro volersi universale coincidevano in realtà con quelli del potere (e a partire dagli anni ’70 Dante addirittura diventava, per i “realisti politici” statunitensi, assieme ai già da tempo arruolati Tucidide e Sant’Agostino, uno dei primi teorici, nel Monarchia, della guerra giusta e inevitabile), più potevano sperare di emergere usi danteschi legati a un’attitudine più popolare e qui inevitabilmente resistenziale.
Attraverso decine di esempi, Curreri ricostruisce dunque, per restare nella terminologia gramsciana, un uso anti-brescianesco dei due nasi; non più evocati e convocati per una recita a soggetto allestita da qualcuno conto terzi a nome del popolo italiano, ma più direttamente affini, ed ecco il Dante sub specie Pinocchio (o sub specie Bachtin?), a tematiche meno ufficiali (la fuga, l’esilio, il desiderio, i contrasti politichi) e più nelle corde di potenziali lettori già tutti dentro un novecento che era ed è altro dal Vittoriano e dal Vittoriale. “Quer popò di commedia” invocata da Nino Manfredi/Pasquino in Nell’anno del Signore di Luigi Magni (1969), si faceva così chiave di resistenza ai poteri temporali e ideologici, reclamazione di un sapere che, patrimonio del popolo, poteva essere giocato, e questa è appunto la contro-storia raccontata da Curreri, anche in funzione contestataria.