Nell'anniversario della morte di Ibsen / Casa di bambola. Per amare Nora

23 Maggio 2019

Ho studiato di recente l’opera celeberrima, Casa di bambola (1879), di Henrik Ibsen. Fortuna ha voluto che leggessi nello stesso periodo un libro pregevole, L’amore del pensiero di Gianni Carchia, prematuramente scomparso nel 2000. Il libro, già pubblicato da Quodlibet nel 2000, sarà presto riproposto insieme a tutti gli altri scritti di Carchia dallo stesso editore, in una collana dedicata. Parlo di fortuna perché l’ampio orizzonte in cui si muove Carchia, fornendo un’interpretazione aggiornata delle opere dello spirito e in particolare dell’arte, è prezioso per una rilettura per certi versi sorprendente di un quadro come di un capolavoro drammaturgico, ma alla fine di noi stessi, del nostro mondo, del modo in cui pensiamo e sentiamo.

 

Casa di bambola si impernia sul segreto di Nora, sulla sua drammatica e imprevista irruzione sulla scena. Improvvisamente minaccia di rivelarsi agli occhi di tutti qualcosa che doveva restare nel buio e nel silenzio nella vita di una famiglia della media borghesia, alla vigilia di una tappa importante, una promozione sul lavoro del marito Torvald. Essa è attesa con trepidazione perché rappresenta la fine di restrizioni finanziarie della coppia coi suoi tre bambini, e libererà da un opprimente senso di precarietà, rendendo possibile una vita felice.

 

Nora anni prima, per salvare il marito da una malattia mortale senza che lui ne avesse la terribile consapevolezza, dovette agire con segretezza e rapidità mettendo la sua reputazione nelle mani di Krogstad, individuo di cattiva fama che le prestò in tutta fretta il denaro necessario per pagare un lungo soggiorno in Italia indicato dai medici come l'unica possibilità di guarigione. Nella nobiltà dell’intento di evitare al marito anche l'umiliazione di un prestito, Nora fu costretta a fingere di avere avuto una donazione dal padre, in quei giorni in punto di morte. Il padre mancò prima che potesse parlargli, e Nora fu costretta a imitarne la firma sulla garanzia pretesa da Krogstad, venendo tuttavia scoperta dall'usuraio, che da quel momento l'ebbe in suo potere con la minaccia di denunciarla.

 

Quell'uomo, vissuto nell'ombra e nell'umiliazione a causa di errori commessi per debolezza e necessità, vuole riappropriarsi di un ruolo sociale di prestigio approfittando della promozione del marito di Nora, in piena salute e prossimo a diventare direttore di banca. Mentre Nora è intenta ai preparativi delle festività natalizie, nella lieta attesa della svolta finanziaria e di status alle porte, l'uomo ricompare improvvisamente. Con il suo volto il reale, impercettibilmente anticipato di pochissimo dalla comparsa della parola ‘debitori’ nel dialogo di Nora con l’amica Karsten, si impone cinico e indifferente come normale quanto impensato e traumatico ingrediente della vita. Krogstad le chiede non più solo di ricevere le rate convenute per estinguere il debito, ma che Nora convinca il marito a dargli un posto di responsabilità nella banca.

 

Tralasciando particolari della trama, nota e semplice, e spunti laterali, espongo solo i pochi nuclei cruciali del dramma.

 

Nora nel primo atto entra in casa canticchiando allegramente, e questo canto ci pone subito sul terreno di un contrasto, e della sintesi deliziosa di cui la giovane è capace. Le due polarità sono il sensuale, non ben distinguibile dal sessuale, e la misura celeste con cui la voce seducente vibra e accarezza incorruttibilmente i corpi, primariamente quello del marito, ma esercita un’attrazione anche su altri, come il vecchio amico di famiglia dottor Rank, segretamente innamorato di lei. Tale contrasto si condensa nel corpo di Nora, depositario di esperienza e conoscenza, medium materiale su cui il tempo scrive la sua storia, ma anche bordo lungo il quale corre la frontiera fra intimità e socialità, corpo pulsionale attraversato da correnti continue, a partire dal quale si propone l'inconscio. Come? Attraverso il linguaggio, attraverso la parola.

 

Nora si colloca in una logica autosacrificale che ricorda quella di Antigone, poiché come lei trascende il bene proprio, e fa scandalo sorprendendo il senso comune (e ponendosi come polo dialettico alternativo della legge degli uomini), come nella tragedia di Sofocle e nel commento nel Seminario VII, L’Etica della psicoanalisi, di Jacques Lacan. Nora contrappone al ricatto di Krogstad la nobiltà delle sue intenzioni, le ragioni del suo cuore di donna, il suo sentimento d’innocenza. E quando abbandona Torvald, e con lui anche i figli, sente nella crisi di doversi fare da parte perché è alla ricerca di se stessa, ed è forse incapace di aiutarli, e sente che potrebbe invece “avvelenarli” ora che, per la rivelazione della sua colpa, potrebbe essere un cattivo esempio, come nell’ira Torvald le ricorda.

 

Nora compiace con la sua accorta e spumeggiante ma delicata femminilità il marito Torvald, e riesce a ottenere piccoli doni in denaro che le consentono di pagare pian piano il debito contratto per curarlo, risparmiando su vestiti e spese personali. La sua grazia nel sacrificio nascosto avvince, intenerisce, si dispiega affascinandoci con la forza di una volontà di servizio e non di potenza, con le sembianze di un corpo giovane e avvenente, e infine con il suo immediato spirito di sacrificio, con una determinazione irrevocabile alla rottura del matrimonio di fronte alla viltà della reazione del marito che, a conoscenza dei fatti, mostra di preoccuparsi solo per sé. Nora aveva infatti temuto che il marito si sarebbe assunto ogni responsabilità fino al punto di volersi togliere la vita, ma lo vede invece piegare la testa al ricatto e rivolgerle parole dure, tenendola a sé solo per soffocare lo scandalo, a distanza dai figli in quanto indegna di educarli, senza apprezzare l’amore e il coraggio che ne animavano la volontà. Ma non solo, quando una seconda lettera annunciava lo scampato pericolo per il provvidenziale intervento di un’amica sul creditore, il marito aveva preteso di riprendere il loro rapporto come se nulla fosse accaduto.

 

Ma prima di tutto, e secondo un modello non deliberato ma interiorizzato di condotta, dunque con l’ovvietà di un habitus, direbbe Pierre Bourdieu, al di qua del suo fine etico, Nora ha compiaciuto fino all’ultimo il marito conformandosi a quanto prescritto dalla società alla donna: soddisfare il maschio dominatore che vuole il suo oggetto del desiderio voluttuoso e accogliente, capace di inventiva nel proporsi col corpo e la sua sensualità ma in modo non troppo libero, bensì subordinato a una certa estetica che delinea i limiti entro cui esprimersi nel ballo, nella parola, nel contegno in pubblico, che l'uomo di volta in volta verifica, ammira e perfeziona con suggerimenti ed esortazioni, con la forza di persuasione del male gaze. Si vuole ottenere che per i suoi atteggiamenti e la sua figura la donna risulti elegante e desiderabile anche al punto di suscitare interessi di altri maschi, destinati tuttavia alla frustrazione dopo aver rinforzato l'orgoglio del marito che resta il solo detentore di un dominio monopolistico. La rivalità e il carattere mimetico del desiderio di cui René Girard ha descritto con chiarezza i meccanismi.

 

Ma qui il punto è che il sociale che si riflette irrevocabilmente in Torvald si muove comunque in una logica di scambio e utile, di obiettivi concreti. Il corpo e la vita sono assoggettati a una norma di definito significato.

 

Opera di Jeff Koons.

 

Il corpo di Nora è invece operatore estraneo agli interessi della vita. Caritatevole, dolce e tenero, genera gioia e sogno, vince il dolore, e sulla sua superficie è iscritta una dedizione senza pari, che non si incrina e non perde valore e assolutezza neanche nella totale apparente sottomissione agli scopi e alla supremazia maschili, cui è destinata. La sua indipendenza è ante litteram, senza scopo né causa, forte di un principio che pesca nell’estraneità al naturale e all’umano, e si colloca al di là del principio del piacere. Il corpo di Nora si fa verbo, poesia, spirito che viaggia in quel medium. E lo spirito rimane al di là di questo e delle parole, è senso indipendente, e silenzio, resto intraducibile nel linguaggio che cerca di darne conto, di legarlo a un significato.

 

Eppure Torvald non comprende, nella semplicità con cui è presentato, il valore e la grandezza del dono di Nora, la quale non offre attraverso il suo corpo gioioso qualcosa di sublimato, secondo una visione psicoanalitica che qui ci apparirebbe riduttiva. Anche se la sublimazione offre in verità una possibilità di accesso al godimento sessuale senza rimozione anche attraverso la semplice parola, Nora ci mostra piuttosto – mi pare con ciò di poter descrivere meglio la qualità dei suoi gesti – la trasfigurazione spirituale del corpo, in cui trova un modo nuovo per vivere e proporre la gioia. Qualcosa che resta vivo passando attraverso la morte. Come leggiamo in And death shall have no dominion, di Dylan Thomas: Though lovers be lost love shall not; /and death shall have no dominion. [Sebbene possano perdersi gli amanti, amore resterà; e morte non avrà dominio; trad. mia]. Ma tutto quel che Torvald sa dire del suo canto, della presenza soave e incurante di sé nel sacrificio amoroso che Nora rappresenta, di quella presenza che (solo noi però lo sappiamo) ha saputo esserci per salvargli la vita, è nei ridicoli vezzeggiativi che usa per lei: lodoletta, lucherino, scoiattolino. Gesti illusionistici del linguaggio del padrone inconsapevole del suo stesso asservimento e castrazione, che preludono alla sua stereotipata maniera di avvicinarsi sornione al godimento, nell’impossibilità di accogliere creativamente la gioia senza perversione nel sensuale e nelle tenerezze di Nora.

 

Il dramma e la figura di Nora ascetica e distaccata dalle ragioni e dai calcoli del mondo, oltre che dal proprio tornaconto, andrebbero allora intesi non come un “bene culturale” concreto e definito ma come un valore dello spirito che al nostro sguardo nasce. Seguiamo Carchia: col suo concetto di sublimazione e accettando che l'opera d'arte non valga per l'idea che contiene ma per la sua adeguatezza a norme etiche, la psicoanalisi propone e diffonde un’ideologia “conservatrice” del valore spirituale, volta alla negazione della pulsione di morte e della caducità. In essa l'opera è ridotta a bene culturale, saturo di parole sulle cose e non di cose, ed è monumento funebre a un accumulo che annulla la leggerezza e la ‘volatilità’ di ciò che naturalmente  riferiremmo, per via del suo stesso nome, alla vita dello spirito. Si sbaglierebbe a voler vedere una volontà particolare nel dramma di Ibsen, come quella di denunciare la condizione di ingiustizia in cui la società ha posto la donna. Il dramma non può essere ridotto a questa funzione di denuncia «femminista» ante litteram. Esso apre invece sempre a una serie infinita di letture: «All'eternità di morte della cultura e della storia, il silenzio dello spirito contrappone "l'eternità di vita" della creazione continua».

 

Il contrasto con la figura del marito Torvald è tremendo. La casa di bambola non inquadra nella negatività la figura della donna che aderisce al modello impostole dalla società, ma denuncia chi, il maschio, il marito, è alieno dalla vita dello spirito, incapace di amore e idealità, è un automa senz’anima e sarà perciò abbandonato da Nora, al culmine del dramma, in un insight fulmineo. 

 

Torvald non ha slanci né disinteresse. Gli è estraneo, per usare parole di Gianni Carchia, «[ ] il senso della linea che traccia l’artista, della musica che dice ma non significa, del pensiero che medita ma non progetta, dell’azione che non ha di mira il frutto». Torvald è intimorito dalla vita e da eros, si difende col ruolo e si nasconde dietro la sua supremazia sociale. Nel suo miserabile orizzonte, il corpo palpitante e desiderante di Nora deve banalizzarlo e depotenziarlo come un giocattolo, e una donna viva e ardente deve essere ridotta a pallida effigie, oggetto di contatto sessuofobico e feticistico con l’alterità di genere e la sua forza vitale.
 

Ma c’è di più. La casa di bambola, oltre che essere un dispositivo per annientare il femminile in Nora, e irreggimentare eros, corrisponde anche a un’istanza di rassicurazione e conforto rispetto all’horror vacui e al cinismo del reale, che trova la sua, in qualche modo inconfessabile, soddisfazione nel kitsch. Una produzione troppo umana e finalizzata che si sviluppa sul margine dell’arte ma non può forse esserlo davvero per l’eccessiva contiguità con una funzione strumentale, quella di un «belletto posto a mascherare la caducità dell’esistente, anziché vigorosamente trascenderla». Qualcosa in cui non si obiettiva lo spirito.

 

ll corpo di Nora allora non è più l’istante della vita dello spirito, un’estasi temporale che stacca, un pezzo d’arte senza significazioni fisse, quel che rappresenta la «nascita e l’instaurazione di un valore, non un suo meccanico esteriorizzarsi». Esso invece, levigate le asperità, addomesticato, diventa medium inautentico e congelato nell’irenica involuzione kitsch, assumendo una piegatura sicura e confortevole e non suscettibile di sviluppi imprevedibili, che chiude ogni fantasia e rischio e riduce l’orizzonte dell’angoscia, la quale accompagna ogni cosa nuova.

 

La tarantella infuocata cui si abbandona Nora prima del momento della verità, con le rivelazioni del ricattatore recapitate in una lettera che il marito presto aprirà, è un ballo sfrenato che preoccupa alquanto Torvald: è il corpo libero che trova nel ritmo il senso suo e di ciò che attraversa l’anima incarnata, la sua ragion d’essere sufficiente. Qui il corpo è il vettore di qualcosa che gli è estraneo, lo spirito libero e fuggevole nella sua presenza.

 

Il corpo femminile arrendevole ma imprevedibile e temuto dal maschio pavido, attento solo ai formalismi del mondo, diventa il corpo devitalizzato e innocuo, un specie di feticcio liscio e voluttuoso che si può accarezzare senza timore e con segreto piacere, come un porcello o le altre ammiccanti statuine o megainstallazioni capaci di attrarre, ma non fatalmente, in cui il kitsch è la base di partenza per le controverse quanto gradevoli e provocatorie realizzazioni dell’artista Jeff Koons, maestro di quella che da critico e filosofo Arthur C. Danto definisce «trasfigurazione del banale».

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