Cattivi silenzi

3 Gennaio 2013

Mi ha molto colpito una (cattiva) abitudine che ormai è diventata pratica corrente nel mondo di oggi. Primo Levi raccontava che nel Lager, tra le miriade di umiliazioni subite, una delle più offensive era la mancanza di risposta da parte dei nazisti e di tutto il personale di Auschwitz che alle domande dei prigionieri non rispondevano mai, nemmeno con uno sguardo. Era appunto in quel “voltarsi dall’altra parte” che Levi si sentiva umiliato e offeso, perché vedeva in quel banale gesto di scarto, un modo ancora più subdolo e sottile per cancellare l’umanità e la dignità dell’altro.

 

Nella nostra infelice e malata epoca contemporanea, sembra diventata ormai una pratica diffusa quella di scansare le risposte, di eludere le domande. Il silenzio, da sempre visto come segno di saggezza e riflessione, è ormai diventato un segno di falsa educazione. “Non ti rispondo per non offenderti”, sembrano dire quei visi duri, quegli sguardi fissi nel vuoto. Servizio Pubblico di Santoro ci rende spesso partecipi di queste modalità assurde, fastidiose, da parte di quei tecnici che dall’alto delle loro comode poltrone dovrebbero portare avanti i valori della razionalità e del giusto agire. E invece, alle domande gentilmente poste dai giornalisti, tirano dritto, indifferenti, come se l’altro - l’uomo comune - infondo non esistesse. Ma a chi si indirizzano tutte quelle parole che si spendono in pubblico, a conferenze stampa, sui giornali, nei comizi di fronte ai cittadini, se poi alla richiesta del singolo, quando davvero si deve avere a che fare con l’umanità vera, tutto questo viene eluso e dimenticato?

 

Scrivo di questo perché sono scappata dall’Italia per cercare di costruirmi un futuro, e invece trovo che le cattive abitudini passano le Alpi, attraversano i fiumi e superano tempeste, indenni, perpetuandosi nel loro malcostume. Vivo in Francia, ho un piccolo lavoro al teatro della mia città, mi mantengo con fatica e mi sforzo ogni giorno per diventare una cittadina europea di larghe vedute e dalla mente aperta. Ho abbandonato nel calduccio di casa, affetti, passioni, abitudini e dolcezze, per non essere pigra e per dimostrare che dovevo, che era mio diritto/dovere andare avanti, sempre più avanti. Sto cercando di iscrivermi ad un dottorato di ricerca, ho depositato i documenti necessari (il dossier, qui chiamano così quel fascio voluminoso di scartoffie che serve per fare qualsiasi cosa: affittare una stanza, trovarsi un medico, pagarsi un’assicurazione, etc.) a inizio settembre e ancora non ho avuto risposta. Inizialmente mi dicono che hanno perso dei documenti, poi no, i documenti ci sono, è il consiglio scientifico che deve rispondere. I giorni passano, i mesi anche, e alla fine si scopre che non è un problema mio, ma che vedono di cattivo occhio la scelta delle due docenti che si occuperanno di dirigere la mia tesi. Una è in pensione (ma è una grande personalità del mondo accademico e perciò è ancora abilitata a dirigere ricerche e tesi di dottorato) l’altra invece è troppo giovane (nonostante i molti meriti e l’immenso numero di pubblicazioni). Così aspetto. Che cosa? Non lo so. Forse semplicemente che mi diano una risposta chiara, un sì o un no, circa la mia iscrizione.  Nella snervante attesa abbiamo scritto lettere, telefonato, chiesto “udienza”, ma nulla. Gli alti vertici, i professori a capo del collegio dottorale, coloro che dovrebbero rappresentare il cuore dell’università nel contatto con colleghi e studenti, non si scompongo, soprattutto non rispondono. Non importa che dietro quel dossier ci sia una persona che aspetta di sapere come comportarsi, come agire, che fare della propria vita. Non importa. Non rispondono a me, ma non rispondono nemmeno alle mie due professoresse. Né al telefono, né per carta scritta, tantomeno per e mail. Ora, mi chiedo. È diventato così difficile comunicare? Dire di no, piuttosto, no alle domande, no alla volontà di rispondere, no a qualsiasi cosa, ma almeno un no! È forse impossibile, nell’epoca contemporanea, attraversata dalle mille vie di comunicazione, trovare nel marasma infernale dei telefonini, i-pad, smartphone, réseaux sociaux, un modo per stabilire un contatto con il prossimo? Forse sì.

 

Lo diceva bene Benjamin quando parlava dell’angelo della storia, descritto con il viso orrendamente rivolto al passato ma con le ali incementate dalla tormenta, dunque incapace di volontà. Quell’angelo, spinto inesorabilmente verso il futuro si trova coinvolto nel triste spettacolo della rovina che “sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

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