17-18 maggio 2017, Milano: Convegno internazionale «Corpi e culture» / Come diventiamo ciò che siamo
“Le mie gambe sono sculture indossabili” – wearable sculptures – dichiara Aimee Mullins, modella e atleta paraolimpica che ha stabilito il record nei 100 e nei 200 metri piani e nel salto in lungo, amputata di entrambi gli arti sotto al ginocchio a un anno di vita a causa di una malattia, chiamata dall’artista inglese Matthew Barney a recitare la parte del leopardo nel terzo episodio di The cremaster cycle nel 2002. In una lezione TED del febbraio 2009 dal titolo It is not fair having twelve pairs of legs Mullins afferma che la prospettiva della società sugli amputati “ha profondamente cambiato di segno negli ultimi dieci anni. Non si discute più del superamento di un limite, ma delle sue potenzialità. Una protesi non rappresenta il bisogno di sostituire un arto mancante e simboleggia piuttosto il fatto che chi la indossa ha il potere di creare ciò che preferisce nello spazio del suo corpo. Le persone che una volta la società considerava disabili sono ora gli artefici della propria identità e possono continuare a cambiarla progettando i propri corpi nell’ottica di potenziarli.”
Le gambe di Mullins sarebbero dunque una forma di wearable technology al pari dei braccialetti intelligenti che monitorano il battito cardiaco durante la corsa, dei – falliti – Google Glass, e in generale di ogni forma di esoscheletro, da quello indossato da Sigourney Weaver in Aliens alla più antica stampella. Queste protesi non sono dei meri ausilii. Esse partecipano effettivamente alla creazione dell’identità di ciascuna persona, sfruttandone le specifiche diversità. Le chiamerei perciò dei media performativi che ci invitano a riflettere sul fatto che la nostra identità non è né stabile né univoca, bensì il risultato di processi di trasformazione che insistono sulla materia di ciascun corpo umano che interagisce in ambienti e contesti – sociali, affettivi, culturali – dai quali esso viene accolto e rifiutato, che lo plasmano e se ne fanno influenzare di rimando.
Malgrado l’ottimismo di Aimee Mullins, mi pare tuttavia dubbio che per il senso comune tutt’oggi prevalente la persona sia una sintesi dinamica di natura, cultura e artificio. Nei nostri comportamenti quotidiani per molti versi restiamo tutti assai più prossimi a quel passo del Deuteronomio che ci insegna che “la donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è in abominio al signore” (Deut. 22:5). Adottiamo cioè una concezione normativa della personalità umana che ci vuole coerenti, omogenei e fedeli ai nostri ruoli, nonostante l’esperienza ci insegni quanto e come una tale idea sia infedele all’esperienza viva e ripetuta che abbiamo di noi stessi e degli altri. Per quanto riteniamo più plausibile discendere dalla scimmia che essere fatti a immagine e somiglianza di dio, continuiamo a pensare il corpo come una contingenza necessaria, talvolta piacevole, in ogni caso responsabile della nostra mortalità, con buona pace dei corsi di yoga che frequentiamo e delle malattie psicosomatiche che siamo certi di avere.
Che la corporeità qualifichi, e non limiti, i comportamenti dell’uomo che pensa, calcola, costruisce, ama e genera, la cui esistenza è mediata dagli artifici – dall’alfabeto alle scale fino allo smartphone – resta un’idea che circola al più tra gli studiosi nonostante i reperti fossili, le evidenze scientifiche, le conoscenze in ambito storico e naturale, gli argomenti teorici che la supportano, e malgrado i molti casi della vita che ci suggeriscono che è così, dall’inseminazione artificiale all’eutanasia. Molte sono le ragioni di questo imbarazzo del pensiero. A mio avviso, vale per tutte quella suggerita da John Dewey quasi un secolo fa, nel 1934, in Arte come esperienza: “Le opposizioni tra mente e corpo, anima e materia, spirito e carne hanno tutte origine fondamentalmente nella paura di ciò che la vita può produrre. Sono segni di contrazione e arretramento”, quasi che la possibilità universale di mettere al mondo un figlio sia al fondo più inquietante del sofisticato esercizio dell’immaginazione.
Convinti che il timore intellettuale sia particolarmente nocivo in questo momento storico, il convegno internazionale Corpi e culture: come diveniamo noi stessi, promosso dal Dipartimento di Filosofia della Statale di Milano in collaborazione con il Comune di Milano, affronterà il 17 e il 18 maggio prossimi queste questioni al Museo di Storia Naturale e all’Università degli Studi di fronte a un pubblico composto da specialisti, ma prima ancora da quei cittadini che noi tutti siamo.
Ian Tattersall, Alva Noë e Christoph Wulf, studiosi di chiara fama di storia naturale, scienze cognitive e antropologia presenteranno ciascuno una lectio magistralis che sarà seguita da interventi di studiosi di rilievo internazionale a loro volta discussi da giovani ricercatori. Tre generazioni di pensatori ragioneranno su come siamo discesi da un antenato non linguistico e non simbolico e siamo arrivati a immaginare e poi a realizzare, segni e simboli, maschere e avatar; su quale sia la relazione tra processi cognitivi ed esperienza estetica; su quanto il nostro corpo dipenda dalla tecnologia e come la tecnologia condizioni le nostre relazioni; su cosa voglia dire che i nostri comportamenti sono complessi dal punto di vista cognitivo, esperienziale e ambientale, e in che modo questa complessità intervenga nei processi di produzione e trasmissione culturale.
Queste domande non sono nuove nel dibattito filosofico, ma acquistano oggi un’urgenza particolare date le conoscenze nell’ambito delle neuroscienze e le possibilità offerte dalla robotica e dall’intelligenza artificiale. Si tratta di comprendere tanto come il linguaggio e l’intelligenza simbolica sono risultati da un mosaico di elementi diversi e hanno portato all’esistenza di quell’animale speciale apparso sulla terra che è l’uomo, quanto come l’uomo è concretamente in grado di plasmare l’ambiente nel quale vive, a cominciare dal proprio corpo anatomico. Molto si parla di Antropocene, ma che l’ambiente terrestre sia fortemente condizionato su scala locale e globale dagli effetti dell’azione umana, prima che essere un problema ecologico chiama in causa la conoscenza di sé. È a partire dal rapporto mediato, conflittuale, di desiderio, abitudine e ripulsa che io ho con il mio corpo che immagino e realizzo il mio rapporto con i corpi esterni: gli altri, le cose, il mondo, secondo un movimento circolare che, lontano dall’essere prevedibile, mi rende oggetto di quegli altri, quelle cose, quel mondo, di cui io mi credo l’artefice esclusivo.
Dire che la personalità di ciascuno di noi si costruisce attraverso un rapporto dialettico con il proprio corpo che produce l’esperienza dell’esistenza, e perseguire una prospettiva materialista dell’identità non significa in alcun modo avere una visione deterministica e teleologica quanto all’evoluzione degli esseri umani che li ridurrebbe a meri processi neurobiologici. Significa piuttosto passare da un’idea astratta e normativa di identità a una concezione plurale che enfatizza la dimensione sensibile, estetica della cultura. Noi non siamo persone, lo diveniamo, filo e ontogeneticamente.
La storia riserva un ricco archivio di politiche del corpo, oppressive e liberatorie, rivolte a uomini e donne, vecchi e bambini che vanno in due direzioni antitetiche: liberare il corpo dall’uomo che lo vorrebbe dominare facendogli violenza, come pensa chi crede che si possa o debba essere una cosa sola con i propri stati emotivi, e liberare l’uomo dal corpo, come vorrebbero i sostenitori ad oltranza di love dolls giapponesi e robot internazionali che dovrebbero renderci un puro spirito il cui spettro di esigenze biologiche verrebbe soddisfatto da mezzi meccanici. Grazie a una varietà di interventi, Corpi e culture si chiede piuttosto se ciò che ha reso sapiens l’homo sapiens un tempo è ciò che rende intelligenti noi oggi.
Convegno internazionale Corpi e culture: come diveniamo noi stessi, 17 e 18 maggio 2017 (Museo di Storia Naturale – Comune di Milano; Sala Napoleonica – Università degli Studi di Milano).