Tino Seghal alle OGR di Torino / Contro il principio di produzione

11 Marzo 2018

La stagione 2018 delle OGR inaugura con un progetto internazionale di grande richiamo realizzato da Tino Sehgal, autore anglo-tedesco tra i più interessanti della scena internazionale. Forte del grande successo critico e di pubblico raccolto negli ultimi anni, già Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2013, Sehgal sbarca alle OGR di Torino con un progetto a cura di Luca Cerizza. L’intervento, coerente con la poetica riduzionista dell’artista, non ha titolo e prosegue la ricerca di un’arte relazionale, una pratica aperta che ponga al centro della propria esperienza l’incontro umano tra lo spettatore e il performer.

Chi ha assistito a una performance ideata da Sehgal sa che l’artista sviluppa delle “constructed situations” in cui coinvolge danzatori e spettatori. Si tratta di situazioni che prendono vita in spazi museali e sono sempre pensate specificamente in relazione al luogo che le ospita. Sehgal elabora le sue performance attraverso un lungo lavoro di preparazione che coinvolge i performer e spesso si compone anche attraverso la consultazione del pubblico.

 

Nella sua arte immateriale, la relazione con lo spazio appare come uno dei fulcri della sua riflessione: si prenda ad esempio il progetto These Associations, realizzato per la Tate Modern di Londra, nel quale ha riempito la Turbine Hall con settanta performer. Per la prima volta, la scenografica sala del museo londinese ha ospitato un progetto basato sull’incontro fisico di spettatori e performer, che Sehgal ha sviluppato ragionando sul tema del rapporto tra singolo individuo e collettività, confutando la regola non scritta per cui lo spazio museale si attesta come luogo che impone un comportamento controllato ai visitatori. In un certo senso, l’artista è intervenuto liberando lo spazio attraverso la dismissione di una funzione. Come nella maggior parte dei suoi lavori, Sehgal è partito da alcune semplici domande poste ai collaboratori per sviluppare le coreografie e i movimenti dell’azione, come “in quale occasione hai avvertito un senso di appartenenza?”, invitandoli a elaborare momenti di vita personale e memorie private.

 

La riproposizione di azioni già realizzate in contesti diversi è un processo che potremmo accostare alla variazione sul tema in ambito musicale. La struttura di These Associations è stata adattata agli spazi OGR e ricomposta insieme ad altre azioni viste in precedenti mostre, come Kiss e Instead of allowing some thing to raise up to your face dancing bruce and dan and other things; la prima consta in un movimento ispirato alla storia dell’arte, che parte da Canova e passa per le opere di Rodin, Brancusi e altri celebri baci, mettendo in atto una riflessione sui capolavori scultorei, la cui essenza immateriale e spaziale si traduce in un’azione che ne sposta l’asse da verticale all’orizzontale del pavimento ed elimina il concetto di piedistallo, cancellando l’idea del monumento per restituire alla vita un’azione eternata nella pietra. È interessante rilevare inoltre, proprio in relazione alla storia dell’arte, come il termine tableaux vivant venga sovente utilizzato per descrivere le sue azioni; si tratta di una definizione a mio avviso impropria, impiegata quasi fosse un’àncora interpretativa, forse per il bisogno dello spettatore di mantenere un legame con l’oggetto pittorico, quel quadro definitivamente assente dall’orizzonte artistico di Sehgal, una specie di stella fissa che soccorre i marinai che si sono spinti in mare aperto. 

 

Per quanto concerne Instead of allowing some thing to raise up to your face dancing bruce and dan and other things, l’idea è stata invece quella di tradurre una serie di azioni presenti nei video di Bruce Nauman e Dan Graham, mettendole in scena attraverso un ralenty estremo. Sehgal rivolge spesso la propria attenzione all’arte, mettendosi a dialogare con opere e artisti del passato o a lui contemporanei, come nel caso dell’intervento sul lavoro di Felix Gonzales-Torres per la mostra Specific Objects without Specific Form, al Museum für Moderne Kunst (Frankfurt am Main) a cura di Elena Filipovic, o in Ann Lee; si tratta in questo caso di un’azione nata dal lavoro di Pierre Huyghe e Philippe Parreno No ghost just a shell (1999-2002), nel quale i due artisti acquistarono i diritti per l’utilizzo di un personaggio manga, mettendolo poi a disposizione della creatività di altri artisti. Sehgal ha quindi raccolto la proposta e fatto incarnare il personaggio finzionale nel corpo di un performer, dandogli vita, veicolando l’idea che la tecnologia sia solo uno strumento e che il centro della nostra esperienza esistenziale risieda nell’incontro con l’altro, nella dimensione fisica ed emotiva che condensa il senso del nostro stare al mondo.

 

Illustrazione di Philippe Parreno.

 

Illustrazione di Philippe Parreno.


Il rifiuto di esaltare qualsiasi forma tecnologica passa anche dalla negazione della possibilità di documentare il proprio lavoro; Sehgal non permette agli spettatori di fotografare o riprendere le performance, né concede tale opportunità ai media o agli uffici stampa. Non esiste quindi un archivio materiale della sua produzione e ciò che è visibile su web sono immagini rubate dagli utenti. Questo ostinato rifiuto ha una duplice chiave di lettura, che si lega al tema della testimonianza e alla problematica della produzione. In numerose interviste, Sehgal ha ribadito la sua volontà di realizzare opere la cui memoria venga trasmessa esclusivamente attraverso un passaggio verbale tra le persone. Nessun supporto tecnologico deve intervenire o sopperire a questa fase di scambio, complementare e necessaria all’opera stessa, e soprattutto la fotografia e il video non devono mai sostituirsi alla situazione, che non può essere cristallizzata attraverso un media che ne tenti la riproduzione.

 

Questa volontà di costruire un archivio orale del proprio lavoro riporta al centro della pratica dell’arte l’individuo, non solo nella figura egotica dell’artista, ma anche dello spettatore come elemento essenziale al manifestarsi dell’opera, alla sua transitorietà e alla trasmissione del sapere. L’oggetto, che per secoli è stato posto al centro della produzione artistica – prima in qualità di manufatto, scultura o dipinto, poi anche nelle forme del ready-made – è negato e rimosso dalla scena; non più testimonianza del nostro mondo fisico né del talento dell’artista, lascia spazio a un vuoto materiale occupato dai corpi, dal tempo e dalle azioni dei performer. L’azione del ricordare si pone in antitesi al tempo frammentato e antimnemonico che costituisce la postmodernità, un tempo costituito da isole di accadimenti, slegati l’uno dall’altro, così come slegate sono le soggettività che lo percorrono.

 

Opera di Diego Perrone.


C’è una certa poesia nell’idea di produrre alcunchè, cercando di muoversi con delicatezza nel dominio della realtà. Possiamo definire la pratica di Sehgal come una sorta di ecologia della presenza, attraverso la quale ogni gesto si carica di un valore che lo rende necessario e si libera di automatismi e coazioni a ripetere dettate dalla necessità consumistica. L’entità oscura che aleggia attorno alle situazioni di Sehgal, fuori da quelle “zone temporaneamente autonome”, per citare l’esperienza Situazionista, è infatti il capitalismo, nella sua forma più tarda e, in qualche modo, mostruosa. È la sua fame di inglobare e digerire ogni possibile alternativa a un modello unico a cui sembra opporsi il lavoro di Sehgal – che si forma a Essen studiando danza e a Berlino economia – la cui dimensione politica forse non è stata ancora pienamente indagata; il desiderio di eliminare ogni elemento che sia frutto di una produzione, dagli oggetti alle fotografie, è una sfida al mondo contemporaneo, in cui tutto esiste in forma mercificata. Qui lo scambio in corso non è più commerciale, ma ritorna a esistere esclusivamente nella forma primigenia di incontro umano.

 

In Realismo Capitalista (ed. Nero, 2017), a proposito dell’azione fagocitante del capitalismo e del binomio cultura/intrattenimento, Mark Fisher osserva: «Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale, si tratti di icone religiose, pornografia, o Il Capitale di Marx. Provate a passeggiare per il British Museum: vedrete oggetti privati di ogni vitalità riassemblati come sul ponte di qualche astronave alla Predator, e potrete così godervi una potente rappresentazione di questo processo. Nella conversione di pratiche e rituali in puri oggetti estetici, gli ideali delle culture precedenti diventano strumento di una ironia oggettiva e si ritrovano trasformati in artefatti». 

 

Wolfang Tillmans.


Questo processo di desacralizzazione che Fisher attribuisce peculiarmente al realismo capitalista (o postmodernismo, sebbene l’autore abbia delle riserve sull’interscambiabilità delle definizioni) centra il punto dolente della riduzione dell’opera d’arte e di qualunque altro oggetto culturale a elemento d’intrattenimento, neutralizzandolo. Sembra non esserci via di scampo a questa tendenza, se non attraverso delle forme di resistenza: anche l’antagonismo o la ribellione diventano a loro volta cibo per alimentare il sistema capitalistico, e vengono assimilati all’interno di esso. L’opera di Sehgal, sebbene viva anch’essa all’interno di questo meccanismo ineluttabile, tenta di confutarlo o quantomeno aggirarlo sottraendo tutto ciò che può essere trasformato in un artefatto con la presenza del corpo umano.

 

La riduzione degli elementi in gioco, l’azzeramento della parte produttiva, l’assenza di un apparato documentario compongono un quadro di evidente rifiuto di un preciso modello economico, politico e sociale. Ecco quindi che la commercializzazione delle sue opere contribuisce a mettere in crisi l’idea del collezionismo e della proprietà dell’oggetto d’arte: nessuno può possedere le opere di Sehgal, neppure acquistandole, se non lo spettatore che partecipa all’evento nel proprio ricordo dell’esperienza vissuta. Il ruolo del collezionista si avvicina a quello del mecenate, perché il suo intervento economico non prevede il possesso materiale dell’opera ma ne rende possibile la diffusione, così che possa essere riproposta in luoghi e tempi differenti, di fronte a un pubblico sempre più ampio. I gesti che compongono le partiture visive delle performance, senza inizio né fine, ma sempre in media res, divengono la metafora di una non-separazione, di un tentativo di riconnettere le persone alle esperienze, sgretolando la concezione solipsistica dell’opera e della prassi artistica. Un’utopia che rende Tino Sehgal uno degli artisti la cui critica coglie con più efficacia i punti nevralgici della narrazione contemporanea, ma anche uno dei pochi davvero in grado di arrivare al cuore degli spettatori ricordandoci, come dice il fisico Carlo Rovelli, che “le cose non sono, accadono”.

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