Biennale: il latte, i sogni e i Padiglioni

17 Luglio 2022

Dopo aver visitato la mostra centrale, il rito della Biennale si distende e allarga attraverso la visita ai Padiglioni nazionali. Nell’edizione 2022 curata da Cecilia Alemani si evidenzia una continuità di temi e traiettorie tra Il latte dei sogni e i singoli padiglioni, una saldatura che è forse il sintomo di una particolare urgenza delle tematiche che animano la mostra e che emergono anche nelle partecipazioni nazionali. D’altro canto, nei padiglioni emerge una minore qualità della proposta, una densità inferiore rispetto alla mostra principale che anche in questo caso appare nel complesso più compatta e con punte di qualità nelle singole partecipazioni.

Al nucleo principale che si articola attorno agli spazi dell’Arsenale e dei Giardini si aggiungono altre interessanti partecipazioni disseminate per la città, come quelle della Mongolia o della Palestina, che comportano un problema non di poco conto al visitatore animato dall’intenzione di esaurire la mostra, in virtù della morfologia specifica della città che comporta lunghi tempi di spostamento e difficoltà logistiche, legate anche al consueto e insostenibile afflusso turistico. Pur non vedendo tutto, lo spettatore si può comunque fare un’idea esaustiva delle istanze e delle proposte che i padiglioni portano in scena, magari operando un filtro prima di iniziare la visita. Come si dice, e in questo caso è quanto mai valido: less is more.

Tra le settantanove partecipazioni nazionali, alcune emergono per originalità o per compiutezza formale o perché toccano zone nevralgiche del dibattito contemporaneo. Tra queste ne abbiamo selezionate cinque a cui abbiamo voluto dedicare speciale attenzione, pur nella consapevolezza che l’esposizione si dia nell’organicità della proposta espositiva e non nei soli prelievi.

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Malta Diplomazija Astuta

Entrando nel padiglione di Malta si accede a uno spazio buio e raccolto, in cui pulsa un suono ritmico, regolare e misterioso. Avvicinandosi all’area centrale dello spazio, protette da grate sono collocate sette vasche che raccolgono gocce di liquido che stillano dall’alto. Sono gocce di acciaio fuso, dal colore rosso dovuti ai 1500 gradi Celsius che ne permettono la fusione, che si allungano verso le vasche di raffreddamento e lì si inabissano, spegnendosi tra piccoli sbuffi di vapore acqueo, per ritornare al buio. 

Arcangelo Sassolino, Giuseppe Schembri Bonaci e il compositore Brian Schembri elaborano una riflessione plastica a partire dalla pala caravaggesca della Decollazione di San Giovanni Battista (1608), capolavoro pensato in origine per l’Oratorio della Concattedrale di San Giovanni a La Valletta, nonché unica opera firmata dal Merisi. Come è noto, si tratta dell’opera di maggior dimensioni tra tutte quelle dipinte da Caravaggio, 360x520 cm che sono anche la misura esatta della superficie installativa realizzata da Sassolino, una sorta di doppelgänger della tela caravaggesca che riprende il tema dell’assassinio di San Giovanni per volontà di Salomè.

Nell’installazione si raddensa il buio che occupa parte dello spazio della tela; le sette vasche richiamano numericamente i sette personaggi dipinti dal Merisi, ma in questo caso l’assenza di figure assegna all’opera una qualità metafisica che viene enfatizzata dagli elementi industriali e cinetici, segni della grammatica scultorea di Sassolino. Il sangue che stilla dalla testa non ancora recisa di San Giovanni si trasforma nelle gocce di acciaio incandescente che si perdono nelle vasche, ed è come se la brutalità distillata nella perfetta, controllata macchina scenica caravaggesca ritrovi qui una vibrazione più bassa, un riverbero che si allarga ed evoca prigionie, esecuzioni e sacrifici che continuano eternamente ad accadere, senza requie.

La partitura musicale che interagisce con l’opera cucendo insieme parti di canto gregoriano (le note del celebre Ut queant laxis, dedicato da Guido d’Arezzo alla figura del Battista), motivi ritmici prelevati dagli inni composti da Carlo Diacono utilizzando i medesimi testi latini di d’Arezzo e parti dalla Missa Mundi per organo di Charles Camilleri. Sia Diacono che Camilleri sono entrambi compositori tra i più importanti della storia maltese e tutto il padiglione configura una sofisticata operazione di scavo e rivitalizzazione del patrimonio artistico dell’isola.

L’intreccio tra la trasfigurazione plastica della tela del Caravaggio e delle partiture musicali si salda nell’onda che Schembri Bonaci incide nell’acciaio mescolando greco, latino, ebraico e aramaico con il trittico che compone la lingua maltese (arabo, italiano e inglese). Ne risulta una sorta di grafema che mima la linea del battito cardiaco dell’artista in cui sono iscritti parti tratte dal libro di Ezechiele e dal Libro dei Salmi, sortilegi, antichi lemmi che evocano la relazione ancestrale tra scrittura e scultura. 

Alcuni malpensanti hanno visto nella mancata premiazione del padiglione un pregiudizio rovesciato, essendo stato curato e realizzato solo da artisti maschi, ma al di là di pretestuosi piagnistei, il progetto di Malta è sicuramente una delle operazioni più riuscite nel panorama delle partecipazioni nazionali e merita di essere visitato senza fretta, godendosi un’immersione in questa perturbante traslazione plastica dell’opera caravaggesca.

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Polonia Re-enchanting the World

Il concetto di “reincantare il mondo” ritorna più volte in questa Biennale delle forme di vita altre, del femminile e del pensiero magico. La Polonia si ispira al testo della filosofa Silvia Federici Re-enchanting the world: Feminism and the Politics of the Commons (2018) e costruisce un progetto curato da Wojciech Szymański e Joanna Warsza, dedicando per la prima volta nella storia della Biennale l’intero padiglione alla cultura Rom, grazie al lavoro dell’artista Malgorzata Mirga-Tas, ospite anche di Documenta 15 a Kassel.

Un’operazione che trova eco nella scelta del Padiglione dei Paesi Nordici  – che comprende Norvegia, Finlandia e Svezia –, che si trasforma nel Padiglione dell’arte Sami (presente anche nella mostra principale), creando un progetto a più voci dove la natura, la dimensione sciamanica e la relazione con il paesaggio e la tecnologia sono al centro di una esposizione che unisce i video con la performance di Pauliina Feodoroff, i collage di Anders Sunna e le delicate sculture sospese, composte da interiora di renna, di Marét Ánne Sara.

Tornando al padiglione polacco, all’interno dello spazio le pareti sono impegnate da un imponente ciclo tessile che rielabora gli affreschi del Salone dei Dodici Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. L’installazione riesce a fondere elementi della cultura rom, a cui l’artista polacca appartiene, con uno dei capolavori di quel Rinascimento che la curatrice Alemani ha criticato, con una dichiarazione quantomeno spericolata.

Alemani ha infatti affermato che “molti artisti contemporanei stanno immaginando una condizione post-umana mettendo in discussione la figura universale e prettamente occidentale dell’essere umano e in particolare del soggetto bianco occidentale come misura di tutte le cose e come misura del mondo, un modello illuminista e rinascimentale a cui contrappongono alleanze diverse, corpi fantastici e esseri permeabili”, suscitando non pochi malumori, ma è lecito pensare che la banalizzazione insita in questa frase sia frutto più di una calcolata volontà di provocare che di un’ingenuità, e che discenda da una certa postura commerciale che conduce inevitabilmente verso lo slogan e alla banalizzazione del pensiero.

Difficile infatti pensare che la curatrice non sia edotta sul Rinascimento fantastico e sui mondi immaginifici che popolavano le visioni del tempo, proprio lei che ha come periodo di riferimento per la propria formazione accademica il Surrealismo e che, è ragionevole pensare, avrà praticato le strade del bizzarro e dell’irrazionale andandone alla ricerca nei gangli della storia dell’arte, cercando – come tutti facciamo – le tracce dell’oggetto della propria passione in tempi e vicende differenti.

Piuttosto, si tratta di una frase che riduce una serie di questioni ben più complesse in maniera funzionale a sostenere alcune tesi (il post-umano, il rapporto tra uomo e terra, il superamento di un modello positivista a favore di nuove forme di arcaismo e pensiero di Gaia) che sono i pilastri su cui si regge tutta la mostra, ma che colpevolmente decide di trascurare tutto quello straordinario repertorio di ambiguità, trasmutazioni, fluidità e bizzarrie che contraddistingue l’arte rinascimentale e tardo rinascimentale. Se Alemani quindi scivola, l’artista Mirga-Tas torna invece proprio a quel momento cruciale della storia dell’arte occidentale per elaborare una personalissima mitopoiesi del popolo Rom, senza inciampare in ingenuità ideologiche ma operando con una spregiudicatezza postmoderna che avrebbe forse deliziato Aby Warburg. 

Riprendendo la struttura degli affreschi ferraresi, il padiglione è allestito con un enorme fregio in tessuto diviso in tre fasce che ricoprono tutte le pareti: la parte superiore racconta le vicende più antiche legate all’arrivo del popolo Rom in Europa attraverso le immagini dell’incisore Jacques Callot della serie The Gipsies / Life of teh Egyptians che l’artista utilizza come base per i propri collage, con l’intento di riappropriarsi della storia del proprio popolo in una prospettiva anti-colonialista e destituita di quei pregiudizi che hanno segnato profondamente le vicende del popolo Rom nel corso dei secoli; nella fascia centrale l’artista celebra le donne che hanno rappresentato dei punti di riferimenti della sua vita – dalla madre Grazyna alla sopravvissuta al genocidio e attivista Krystina Gyl – mescolando l’iconografia dei tarocchi e l’astrologia, creando una sorta di pantheon di divinità femminili; nella terza fascia, la più bassa, sono invece descritte scene di vita quotidiana a Czarna Gora, il paese d’origine dell'artista nonché territorio d’insediamento della popolazione Rom, e raccontano le abitudini, i riti giornalieri, le alleanze tra animali, persone e ambiente.

I ritratti qui rappresentati sono stati composti utilizzando gli abiti e i tessuti dei corredi di conoscenti, realizzando così un ponte tra micro e macrostoria e trasferendo nel medium artistico quella forma peculiare di animismo che vede permanere negli oggetti e negli abiti tracce delle esistenze delle persone che li hanno posseduti.

Mirga-Tas elabora una proposta inedita per saldare tra loro la cultura Rom e quella europea, operando una “cucitura” sia metaforica che letterale: il lavoro tessile delle donne, che in questa Biennale vede un’ampia rappresentazione (e di cui viene privilegiata la lettura della dimensione politica della pratica, ancorché estetica o antropologica), trova un’originale forma espressiva nei patchwork colorati dell’artista, che si appropria del ciclo dei dodici mesi di Palazzo Schifanoia e della sua iconografia per rappresentare miti fondativi, storie e aspetti vernacolari della comunità Rom, partendo dall’opera – mondo commissionata da Borso d’Este per approdare all’edificazione di un personale palazzo della memoria, dove le immagini possono rinnovare ed esercitare il loro eterno potere incantatorio. 

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USA Sovereignty

Tra i padiglioni che toccano i nervi scoperti del dibattito contemporaneo c’è quello degli Stati Uniti, sconvolti dai mass shooting e da una questione razziale che sembra sempre più incancrenirsi. Gli USA sono stati negli ultimi mesi scenario di una serie di azioni di protesta indirizzate verso quelle opere d’arte considerate portatrici di valori (o meglio dire ormai disvalori) non più aderenti alla sensibilità corrente.

Le sculture, in particolare, sono da sempre oggetto della furia iconoclasta di regimi che crollano, rivoluzioni e società che cambiano e chi pensava che le statue fossero ormai niente di più che meri ornamenti urbani ha dovuto ricredersi. D’altronde non si può dimenticare che la scultura, a differenza della più agile pittura, nel tempo abbia necessitato di committenti importanti che potessero sostenere costi e dimensioni delle opere, e anche in ragione di ciò il monumento è legato a doppio mandato al potere e al suo volto ufficiale.

La questione della statuaria pubblica e di ciò che porta con sé è uno dei punti più rilevanti della riflessione che Simone Leigh porta a Venezia, prima artista donna afroamericana a rappresentare il proprio paese alla Biennale. Artista di Brooklyn ma di origini giamaicane, già della scuderia del colosso Hauser & Wirth, attualmente tra gli artisti americani più in vista, nel 2018 ha vinto l’Hugo Boss Prize, poi è alla Whitney Biennial nel 2019 e conquista il Leone d’Oro per la miglior partecipazione nell’edizione della Biennale in corso; Leigh è stata indicata come nome per rappresentare gli USA da un gruppo nutrito di professionisti del settore raccolti attorno al National Endowment for the Arts, l’agenzia federale che supporta gli artisti statunitensi, mentre la mostra è stata commissionata dall’Institute of Contemporary Art di Boston, che le dedicherà un’importante retrospettiva nel 2023. 

L’opera di Leigh apre in maniera muscolare il percorso dell’Arsenale e attende lo spettatore negli spazi del padiglione statunitense intitolato Sovereignty, dove intavola un discorso che unisce la riflessione sulla soggettività femminile nera a un più ampio discorso sul ruolo della scultura e della rappresentazione dell’identità afroamericana. L’intero padiglione neopalladiano è stato trasformato grazie all’intervento intitolato Façade in una specie di gigantesca costruzione tradizionale con tetto di paglia e pilastri di legno che rimanda all’Exposition Coloniale di Parigi del 1931 (e che si ricollega a un’installazione del 2016 in cui l’artista ha ricostruito le imba yokubira, le case – cucina della tribù di lingua Shona dello Zimbabwe presso il Marcus Garvey Park, Harlem, New York): qui, di fronte all’ingresso è collocata Satellite, opera in bronzo che richiama tanto le forme e geometrie dell’arte della tradizione africana quanto le forme di quel Primitivismo che da essa trassero linfa vitale, evidenziando quel processo di creolizzazione che si può rinvenire quale fattore fertilizzante di tutta la cultura visiva occidentale novecentesca.

All’interno del padiglione trovano spazio le figure di ceramica, bronzo, rafia – materiali cari all’artista –, caratterizzate dalla consueta semplicità delle forme, da volumi imponenti e grande pulizia complessiva. Le opere rimandano a leggende, storie della diaspora, testimonianze del femminismo nero, ma al di là dei discorsi, di cui questa Biennale è piena, dal punto di vista formale le figure di Leigh ci interrogano attraverso un vuoto che sta proprio dietro l’esibita monumentalità, aggettivo che si imprime e si nega nelle gigantesche presenze modellate dall’artista.

Vi è un’indubbia regalità nelle forme messe in scena, così come un’intenzione evidente di affermare la dignità culturale di un pezzo di mondo negletto, eppure la sensazione che si ricava di fronte alle opere è quella di grandi gusci vuoti, case abbandonate, simulacri di corpi. Vi è un secondo movimento che si avverte dopo l’incontro iniziale e che riguarda una malinconia postuma, un senso di tardiva affermazione che si imprime in queste opere dal velato carattere funebre e che le rende più complesse di quanto possano apparire a una prima lettura.

Se il Leone d’Oro, oggi più che mai, possiede anche un carattere politico, l’attribuzione del premio appare quasi scontata, così come quella assegnata al Regno Unito come miglior padiglione con il lavoro di Sonia Boyce Feeling her way, dedicato alle voci delle musiciste nere anglosassoni, ma non per questo pretestuosa. Difficile stabilire se Leigh sia la partecipante più meritevole, ma certo il Padiglione USA porta in scena delle questioni quanto mai rilevanti e lo fa attraverso una proposta che possiede una sua indiscutibile forza assertiva, capace di saldare la figurazione della tradizione classica a un vocabolario plastico del tutto personale, che vibra di inquietudine e irrisolti brucianti.

Malgrado le tendenze più attuali sembrino affermare il contrario, l’arte non ha necessità di farsi cronaca del presente, ma è anche vero che ogni opera che ambisce a superare l’istantaneità delle mode deve contenere in sé lo spirito del proprio tempo e trascenderlo. Le opere di Leigh appaiono in questo senso fin troppo prossime, parlano la stessa lingua che parliamo noi, e forse questo più che un pregio potrebbe rivelarsi, con il passare del tempo, un limite che le condannerà a invecchiare, peccato supremo per qualunque opera d’arte che non può che aspirare a scavalcare i vincoli del tempo.

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Belgio The Nature of the Game

Il Padiglione belga ospita un progetto dell’artista Francis Alÿs, già presente nelle vesti di commissario del Padiglione dell’Iraq nel 2017, dedicato al gioco dei bambini. Tra grandi schermi che articolano lo spazio e piccoli dipinti, realizzati a partire dal 1999 nei luoghi dove l’artista ha realizzato i filmati che compongono la mostra, lo spettatore assiste a una ricognizione poetica di quello che è il mondo del gioco. Alÿs asciuga la messa in scena e riduce l’installazione all’essenziale: da una parte, i piccoli dipinti a olio realizzati tra il 1994 e il 2021 che ritraggono scene legate alle realtà politiche e sociali dei paesi in cui l’artista ha girato i propri film, dove i bambini sono rappresentati vicino a mezzi militari o piegati dal lavoro minorile; dall’altra una selezione di cortometraggi realizzati dal 2017, girati tra Hong Kong, la Repubblica Democratica del Congo, il Belgio e il Messico.

I filmati fanno parte di una più ampia ricerca che impegna da anni l’artista, interessato a raccontare con approccio documentaristico la relazione tra i bambini e il gioco, attività che rappresenta a tutti gli effetti un bisogno essenziale dell’essere umano e una “relazione creativa con il mondo”. Nei filmati vengono documentati giochi che rivelano alcune caratteristiche molto specifiche, sia in relazione ai luoghi geografici dove vengono praticati, sia rispetto a chi li pratica: alcuni infatti sono esclusivamente appannaggio dei bambini e altri delle bambine (il gioco è quindi uno dei “luoghi” per eccellenza dove si manifestano i pregiudizi), altri sono praticati nelle loro versioni peculiari solo in specifiche zone del mondo, oppure della medesima attività si presentano differenti versioni a seconda delle latitudini.

L’attenzione alla relazione tra l’individuo e l’ambiente che abita, cifra specifica del lavoro di Alÿs, come emerge per esempio nelle gare con le lumache dei bambini belgi o nelle corse a rotta di collo dentro gli pneumatici, rotolando giù dalle colline, dei bambini del Congo, fa emergere per contrasto l’universalità della dimensione ludica, la capacità innata dei bambini di utilizzare pochi, semplici oggetti e impiegare l’immaginazione per adattarli alle proprie necessità. Tappi, sassolini, dello spago, una palla, un vecchio pneumatico, uno specchietto sono tutti elementi “poveri” che permettono di utilizzare la fantasia e liberarne il potenziale.

Non solo: il gioco si costituisce come forma relazionale, con i suoi riti, le dinamiche di inclusione e di esclusione, l’esercizio di controllo o di liberazione dell’aggressività e delle emozioni. Le schermaglie dei bambini riprese da Alÿs illustrano “vite in miniatura”, che attraverso il sistema di regole negoziate di volta in volta si intrecciano in maniera inesplicabile alle altre attività di vita. Se l’età adulta tende a fraintendere, a minimizzare o dimenticare la dimensione ludica (salvo poi esperirla nelle dinamiche lavorative, economiche, erotiche e così via, senza averne più contezza), i film dell’artista belga evidenziano come il rapporto tra gioco e costruzione della comunità sia profondo e perpetuo. 

Riaffiora in questo progetto anche un altro elemento che caratterizza il lavoro di ​​Alÿs, ovvero l’attenzione verso la dimensione collettiva delle azioni. Il gioco si realizza attraverso il gruppo, che ne stabilisce e sottoscrive le regole, si adopera per realizzarlo e che partecipa di un’esperienza che viene amplificata dalla condivisione. Si tratta di un tema dietro il quale si adombra la scomparsa dei giochi tradizionali, un fenomeno sempre più evidente nei paesi avanzati, dove la diffusione di piattaforme di gaming online, il crescente timore da parte dei genitori nel lasciare i figli in spazi non custoditi come parchi, cortili, giardini, l’abitudine a riempire il tempo libero dei ragazzi con infinite attività preorganizzate ha dato vita a un cambiamento significativo nelle abitudini dei bambini, oggi più che mai impegnati in attività solitarie entro il recinto degli spazi domestici o educativi.

I film di Alÿs appaiono allora come un delicato inno alla libertà e al potere dell’immaginazione, veicolo di uno sguardo rispettoso e carico di curiosità verso l’infanzia, capace di impreziosire un lavoro di matrice documentaristica con sottili venature liriche e di puntare l’attenzione sulla straordinaria importanza che il gioco riveste in prima istanza nelle vite dei bambini, di come si trasforma in quelle degli adulti e, alla luce di una nuova consapevolezza che dovrebbe accompagnarci riguardo le vite non-umane, anche del ruolo che riveste in quelle degli altri esseri viventi che condividono con noi l’esistenza su Gaia. Ricordandoci che il gioco rimane un’educazione alla vita e, in sostanza ultima, un’educazione sentimentale.

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Singapore Pulp III: A Short Biography of the Banished Book

Singapore è uno di quei paesi che non sono considerati tra i “pesi massimi” espositivi, ma merita di essere visitato per il progetto decennale, iniziato nel 2014, che l’artista Shubigi Rao dedica alle storie incentrate sui libri perduti e sull’impatto che la perdita della conoscenza ha sulla società umana. 

Alla sua decima partecipazione, per la prima volta il paese asiatico presenta un team di sole donne, con la curatrice Ute Meta Bauer a coordinare il lavoro esteticamente ineccepibile di Shubigi, artista che in questa edizione presenta il nuovo capitolo Pulp III: A Short Biography of the Banished Book. Il padiglione, dall’atmosfera rarefatta e decorato con testi e disegni dell’artista, è stato pensato per suggerire l’idea di un labirinto di carta nel quale lo spettatore è invitato ad addentrarsi.

Ad attenderlo la prima tiratura di cinquecento copie del libro realizzato da Shubigi, esposte in modo da restituire l’idea di una presenza materiale tangibile e massiccia, quasi un monumento minimalista, testimonianza cartacea del meticoloso lavoro di ricerca dell’artista (intitolato Pulp III: A Short Biography of the Banished Book. Volume III of V) e destinate a essere prese dagli spettatori e portate in giro per il mondo, dove potranno proseguire la loro azione di divulgazione e conoscenza, germinando come veri e propri semi. Il cuore del padiglione è invece riservato alla proiezione del film Talking Leaves, nel quale Shubigi raccoglie le testimonianze di persone accomunate dall’impegno nella salvaguardia dei libri, delle lingue e delle biblioteche.

Tra le varie voci che si uniscono in questo racconto corale, spicca il contributo della scrittrice singaporiana Melissa de Silva, la quale legge passi tratti da un libro in lingua Kristang, un idioma che rischia di scomparire, parlato dalla comunità eurasiatica della comunità di Malacca e Singapore; la bibliotecaria veneziana Ilenia Maschietto, che racconta vicende di libri proibiti, e ancora Bianca Tarozzi, poetessa, che evoca le vicende dell’alluvione del 2019 e dei volumi salvati della propria biblioteca personale e molto altro. Singapore e Venezia, accomunate dalla condizione storica di porti franchi (quest’ultima centro di produzione di pregiati volumi durante il Rinascimento e poi attrice principale della diffusione universale del libro grazie all’opera di Aldo Manuzio), sono i luoghi scelti per l’indagine, luoghi legati alla storia della stampa e alla produzione dei libri, nonché alle comunità attorno ad essi sono nate, prosperate e infine scomparse.

Attraverso il racconto individuale e la microstoria, il gusto della mitologia, dell’invenzione e del lessico familiare, l’artista ricostruisce una trama più ampia e che si allarga nel tempo, una indagine sistematica sul rapporto tra il sapere, le reti umane, la cultura nella forma seminale delle storie e nella narrazione, in cui si evidenza un dichiarato intento politico nel suo essere atto di resistenza nei confronti di un pensiero egemonico, oppressivo ed “ecocida”. Nel film, Rao procede per giustapposizione e l’intenzione filmica supera il mero intento documentale grazie alla libertà poetica di un montaggio che mescola testimonianze, memorie vere e finzionali, collegando tra loro archivi, depositi, raccolte pubbliche e private, intellettuali e stampatori, appassionati e bibliofili, collezionisti e librai in un processo che richiama più la scrittura che la pratica del cinema e che, a tutti gli effetti, può essere considerato una propaggine del complesso “sistema libro” esplorato dall’artista. 

Ma non c’è solo la pars construens: l’artista procede anche attraverso l’osservazione del dato negativo, di ciò che viene cancellato, eroso, bannato, evidenziando come il potere agisca attraverso la parola scritta nei confronti di minoranze, individui e collettività, rinnegando intere culture: l’assenza parla, come nei primi due episodi del progetto e nella mostra Written in the Margins tenutasi presso la Kunstlerhaus Bethanien di Berlino nel 2017, nella quale inizia una ricognizione di ciò che è accaduto durante il conflitto nella ex Jugoslavia, indagine approfondita con Pulp I nel quale documenta la distruzione delle biblioteche pubbliche di Croazia, Serbia e nei Balcani e, in particolare, la caduta della National University Library of Bosnia and Herzegovina, avvenuta nel 1992, durante la sanguinosa guerra etnica (nonché la successiva operazione di ricostruzione).

Scrive l’artista, con parole che condensano la fragilità e le contraddizioni intrinseche a quel “sistema della conoscenza che struttura il mondo”: 

“Every character in every tale is displaced, a miss-shelved book, a mistranslated text. We are, like the characters we read, restless bodies obsessed with our misapprehensions and mistaken identities, elliptical and misaligned, spinning on axes of our own grinding. We lurk in our murk, we are miasma.”

(Ogni personaggio in ogni storia è spostato, un libro mal riposto, un testo tradotto male. Siamo, come i personaggi che leggiamo, corpi irrequieti ossessionati dalle nostre incomprensioni e identità sbagliate, ellittici e disallineati, che ruotano sugli assi del nostro stesso stritolamento. Siamo in agguato nella nostra oscurità, siamo miasma.)

Il Padiglione di Singapore merita di essere visitato per apprezzare la ricchezza e la complessità del lavoro di Shubigi e anche per l’ambizione di porsi come capitolo di un progetto di più ampio respiro, che non si chiude con l’esperienza della Biennale ma abbraccia un arco di tempo ben più vasto. In questa prospettiva, la partecipazione nazionale di Singapore si trasforma in un’altra pagina scritta da Shubigi per Pulp e diviene a tutti gli effetti un dispositivo all’interno del suo progetto decennale, dispositivo in perfetta continuità con gli altri elementi che ne costituiscono il sistema e che supera la mera dimensione espositiva per farsi organo pulsante all’interno di un corpo estetico-politico.

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