Contro il superfluo
Nel mio ultimo intervento qui su doppiozero parlavo dellʼindispensabile nel libro come un possibile punto di partenza per il discorso sul suo futuro e, in generale, sul futuro della conoscenza che passa per vie editoriali (digitali e cartacee).
Lʼanalisi di Roberto Casati nel saggio “Contro il colonialismo digitale” (sì, lʼho letto anchʼio su tablet) mi ha dato modo di riformulare il mio pensiero, ribaltandolo. Non tanto dunque cosa sia indispensabile nel libro, ma piuttosto, quale sia il superfluo.
Cosa cʼè di superfluo nella lettura in un ambiente digitale? E cosa cʼè di superfluo negli infiniti e infinitamente convergenti mezzi di informazione-intrattenimento che abbiamo fatto entrare nella nostra quotidianità? Cosa abbiamo scelto e cosa invece subiamo?
Avevo dunque deciso di dare come titolo a questo articolo “Il superfluo nel libro”. Ma poi, leggendo Casati, mi sono resa conto che è il libro stesso che sta diventando superfluo: una tra le tante distrazioni che ci portiamo comodamente in borsa, nascoste in un unico oggetto e che fanno a gara a catturare la nostra attenzione. Una tra le tante, che alla fine difficilmente scegliamo, forse perché il termine ʽdistrazioneʼ non le si addice.
Così come il libro, stanno diventando superflue molte altre cose: il tempo e lo spazio per la lettura, che ci vengono piano piano rubati; la scuola, intesa come progetto di apprendimento, che insegue la tecnologia senza capirla e soprattutto senza capire in quali casi dovrebbe resisterle; ma il fatto più grave è che stanno diventando superflue le persone.
Tornerò su questo in un secondo momento. Prima voglio raccontare un aneddoto sottoforma di dialogo, perché credo che guardare alle situazioni quotidiane della vita sia il modo più efficace per smontare naturalmente le proprie astratte convinzioni.
3 Giugno:
Fratello: «Cosa regaliamo a papà per i 60 anni?»
Io: «Gli potremmo regalare il Kindle!»
Fratello: «Buona idea!»
Io: «Adesso c’è una versione nuova, ce l’ha un mio amico, è il Kindle Fire: è come un iPad, quindi non ci leggi solo i libri, ci vai su Internet, ci usi le app ecc. Però costa di più»
Fratello: «Se costa di più sarà sicuramente un regalo più bello: mi sembra molto meglio poter avere tante funzioni in un unico dispositivo»
4 Giugno:
Email da Amazon:
Dettagli del tuo ordine:
“Kindle Fire HD 7”, Dolby Audio, Dual-Band Wi-Fi, 16 GB € 199,00
Messaggio dʼauguri: «Da bambino avresti mai immaginato che a 60 anni avresti usato oggetti così tecnologici? Tanti auguri!»
8 Giugno:
Io e Fratello: «Papà, tanti auguri! Questo è il Kindle Fire: è come un iPad, quindi non ci leggi solo i libri, ci vai su Internet, ci usi le app ecc. giocaci un po’ e capirai come si usa»
Papà: «Grazie ragazzi, è un regalo bellissimo!»
20 Giugno:
Io: «Papà, mi trovo in disaccordo con il regalo che ti ho fatto: è un dispositivo per leggere ma ho capito che non fa bene alla lettura, anzi, è deleterio»
Papà: «Ma io mica ci leggo!»
Conclusioni:
Non abbiamo regalato a nostro padre uno strumento per leggere e non ce ne eravamo accorti.
Mio padre è abbastanza contento; Amazon è sicuramente contento; mio fratello non mi ha ancora dato la metà dei soldi; io ho 199 € in meno.
Con 199 € avrei potuto regalare a mio padre almeno 10 libri o quasi 100 e-book.
Ci sarebbero voluti almeno altri 2 figli per regalare un computer con uno schermo più grande.
Morale della favola:
Se mio padre a 60 anni continua a leggere libri di carta e con il Kindle gioca al solitario, chi vince? chi perde? Il superfluo o l’indispensabile nel libro? Qui nessuno.
Il vero problema è altrove:
Se i futuri studenti delle scuole italiane dall’età di 6 anni in su verranno muniti di iPad, inizieranno a leggere? Riusciranno a scrivere? Cosa ne sarà dei ʽmaestri analogiciʼ?
Nessuno si sta occupando di ragionare su come la tecnologia possa essere insegnata, capita e usata nelle scuole. E così la scuola verrà solamente condita di tecnologia per essere in linea con le tendenze della società (mercato) e per parlare ai cosiddetti ʽnativi digitaliʼ.
In questa cornice, sociale e istituzionale, si intrecciano le due vie del pensiero di Casati: la difesa della lettura, come spazio mentale per pensare un mondo diverso; la difesa della scuola, come spazio fisico per avere un punto di vista diverso sulle informazioni che subiamo. È evidente la necessità di riprogettare tanto la situazione di lettura quanto quella di apprendimento.
Nella prima parte del testo, Casati ha il merito di segnalare che siamo in una situazione completamente nuova, e identifica come anno zero la nascita dellʼiPad (e simili). La preoccupazione principale fino a ieri era che “imbrigliare il contenuto elettronico nella metafora del libro avrebbe significato non approfittare delle diverse opportunità”. Questo pensiero rischioso ha generato negli ultimi anni un corsa al libro aumentato, ma il vincitore non è stato certo il mercato editoriale e “non si sono aperti nuovi orizzonti per la lettura”. Nel nuovo ecosistema, la lettura ci è stata rubata. In cambio abbiamo tante protesi tecnologiche riempiono la nostra vita, tanto frenetica quanto noiosa.
Come addomesticare la tecnologia?
“Non abbiamo nessuna ragione di subire la novità tecnologica e non abbiamo nessuna ragione di rifiutarla a priori, possiamo negoziare con essa”, creando un equilibrio tra aree protette e zone esposte. Casati individua la scuola come lʼambiente più favorevole: in un contesto naturalmente privilegiato per la lettura – a scuola “non si può fare zapping” – la sfida sarà riuscire a progettare le situazioni di apprendimento in un intreccio tra tecnologia, design e pedagogia.
Il suggerimento è di “cercare nei contesti educativi le occasioni per ripensare le tecnologie con pragmatismo e creatività”, usandole in un modo alternativo a quello prescritto dal produttore.
Da designer apprezzo molto il parlare delle situazioni di apprendimento e lettura come sistemi complessi da progettare. Un buon design, in questo caso più che in altri, sarà quello che ragiona sul fine e sulle buone domande da porre alla tecnologia.
Quellʼambiguo concetto di servizio.
Dobbiamo però fare attenzione ad alcune cose.
Oggi il design è cambiato: non si progettano oggetti ma servizi. Per lʼiPad sono stati creati nuovi ecosistemi che ridefiniscono le nostre pratiche attraverso applicazioni, che fanno della loro estrema disponibilità e capacità di occupare piccoli intervalli di tempo le loro carte vincenti. Anche il libro inizia ad essere pensato come interfaccia terminale di un servizio.
Ma cʼè servizio e servizio. Un sistema informatico che mi suggerisce quali libri acquistare sulla base dei miei ultimi acquisti è un servizio. Anche la biblioteca può essere intesa come un servizio?
Si può pensare al libro stesso come un servizio di cui usufruire e non come un oggetto da possedere?
La musica, per esempio, è rimasta solo un formato. Nel tempo ci si è accorti che non cʼera ragione di possedere giga-byte di mp3 nella memoria del computer se si poteva invece accedere ad una radio personalizzata. La musica è diventata un servizio.
Succederà lo stesso al libro? Avremo una sorta di ʽradio di libriʼ? E soprattutto, lʼavremmo scelto noi?
Per chi produce i sistemi di intrattenimento digitali purtroppo non cʼè differenza tra musica e lettura. In un ecosistema di cose indistinte e superflue, diventate indispensabili, sono le persone che stanno diventando superflue.
Tu non sei superfluo.
La dimensione umana viene a mancare perché accettiamo lʼimmagine di noi stessi come “appendici di macchine, variabili dei loro algoritmi”.
Perché una formula matematica dovrebbe consigliarmi cosa leggere?
Se lʼiPad organizza il palinsesto della nostra vita mentale, quanto ci vorrà perché organizzi anche il palinsesto dellʼapprendimento?
Se facciamo scomparire librai e insegnanti avrà vinto il superfluo.
La tecnologia è sempre più user-friendly: oggetti complessi dallʼinterfaccia semplice, più semplice da leggere che la faccia di un individuo.
Abbiamo due strade: una ci porta in un mondo dove la lettura sarà solo un accessorio in più, forse meno attraente di altri, e dove la scuola sarà fatta da macchine intelligenti. Lʼaltra la dovremo continuamente inventare.
Io non credo che le persone vogliano cose superflue che le rendano superflue, le persone hanno bisogno di capire.