11 aprile 1987 - 11 aprile 2017 / Conversazione con Primo Levi: "sono incapace di odio"

11 Aprile 2017

Primo Levi, com’è fatto il suo tavolo di lavoro?

È una scrivania con due facce: c’è una faccia arcaica, classica, con una macchina per scrivere, i cassetti e la cancelleria varia verso Nord, e verso Sud c’è una videoscrivente, che è il mio idolo attuale, a cui mi sono prosternato, dal quale mi sono lasciato corrompere e col quale attualmente scrivo, col quale devo fare i conti, una volta entrati è difficile uscirne. Mi accade abbastanza sovente durante la giornata di cambiare posto, di fare una giravolta intorno alla scrivania a seconda se opero dal lato Nord o dal lato Sud.

 

E la penna?

Serve ancora, naturalmente, non solo per firmare. Anzi, è venuta ad eliminarsi la macchina per scrivere, automaticamente, invece la penna sussiste.

 

La videoscrivente è già sintomo di grande precisione, ma nel suo lavoro, nei suoi orari, lei è ordinato?

Sì, ufficialmente sono molto ordinato. Poi, nel fatto le cose vanno un po’ diversamente e finisce che qualcosa si perde proprio per mancanza di ordine. Anzi, uno degli scopi della videoscrivente sarebbe quello di mettere tutto in memoria, in modo che nulla vada perduto.

 

Ma lei si dà degli orari, come Moravia, al mattino dalle … alle …

Purtroppo non posso, per svariati motivi vengo interrotto molto sovente, il mio orario di lavoro è molto variabile.

 

C’è in questa giornata variabile qualche momento in cui si trova bene da solo, un suo momento di meditazione?

Avviene di rado, non sono quasi mai solo salvo dopo le dieci e mezza di sera, allora sì, quell’ora, ora e mezza che segue è di solitudine, non necessariamente di raccoglimento.

 

Primo Levi, che rapporto ha con la musica?

Un rapporto da analfabeta, monco. Ho seguito la musica per poco tempo, molto tempo fa, quand’ero studente andavo ai concerti, avevo tempo per farlo.

 

Si ricorda qual è stata la sua iniziazione musicale?

Oh sì, lo ricordo con molta precisione, nel ’25 o nel ’26, quando iniziarono le radio trasmissioni, mi pare che fosse quella la data. Mio padre aveva comperato una radio a galena. Erano quei deliziosi aggeggini senza niente dentro, c’era solo … (il cristallo di) galena, con la cuffia. Mio padre lavorava e lasciava a noi figli la galena durante il pomeriggio. Io mi ero messo questa cuffia e avevo sentito una cosa bellissima, una musica che mi era piaciuta moltissimo, avevo sei anni ed ero stato colpito. Sono stato attento all’annuncio finale, e dopo ho detto a mio padre “hanno suonato una cosa bellissima che si chiama “Carni” e mio padre mi spiegò che si trattava forse della Carmen.

 

Nel suo libro Se questo è un uomo lei racconta di quando ad Auschwitz dovette sostenere un esame come chimico per essere affidato al comando 98, il comando chimico, riporto la sua risposta a questo esaminatore: “Mi sono laureato a Torino, summa cum laude, e mentre lo dico ho la precisa sensazione di non essere creduto. A dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango … Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui. Infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità … Questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene, come la riconosco? È la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le mie facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano.” In questo brano c’è la riscoperta miracolosa delle proprie facoltà intellettive ancora intatte. Ma dopo quell’esperienza, che cosa ha significato per lei la frase “essere un intellettuale”?

È un’etichetta che non mi entusiasma. Dopo l’esperienza del lager ho fatto il tecnico, il chimico per trent’anni. Le domando e mi domando se un tecnico che fa vernici, come ho fatto io, è un intellettuale oppure no. Le domando e mi rispondo: nell’esercizio delle mie funzioni di tecnico di fabbrica ho forti dubbi che la definizione di intellettuale si attagli. Mentre invece si attaglia a quello che era il mio secondo lavoro, quello di scrivere. Non c’è dubbio che questo mio primo libro che lei ha citato è opera di un intellettuale, se per intellettuale definiamo colui il quale si esprime preferibilmente per iscritto, che pensa alle cose che scrive, e non pensa di fare un mestiere scrivendo, fare opera professionale sì, come qualità, ma non legata a un guadagno. Se lei accetta questa definizione allora dico che sì, da allora, dopo di allora, a tempo perso sono stato un intellettuale e tale sono tutt’ora, ma nelle ore non lavorative, alla sera, alla domenica o durante le ferie.

 

E la famosa missione dell’intellettuale, che cos’è per lei, esiste o no?

Non ne esiste una sola, mi pare che fosse Fichte a parlare della missione del dotto… non so dirle quale fosse la missione che Fichte assegnava al dotto, però penso si possa dire che ogni intellettuale si prefigga almeno uno scopo di vita, che può essere immanente o trascendente. Il mio scopo, quello di cui avevo coscienza, era quello di portare testimonianza. Alla fine della traduzione in tedesco di Se questo è un uomo, durante la quale avevo stretto un’amicizia molto solida e duratura col mio traduttore tedesco, gli ho scritto una lettera. Per me era una lettera importante, intanto perché doveva servire a chiudere questa travagliata traduzione, e poi perché mi sentivo legato da un curioso vincolo con questo straniero, tedesco, che però aveva combattuto come partigiano con gli italiani contro i tedeschi, con cui mi sentivo in debito. Gli ho scritto che non penso necessariamente che l’uomo si ponga uno scopo nella vita (cosa che c’è in un qualche punto del libro), però per quanto mi riguarda lo scopo era quello di ammonire i miei mit-menschen, i miei co-uomini, i miei compagni uomini, tutti, fin dove l’uomo può arrivare.

 

A proposito di Se questo è un uomo, abbiamo idea di che cosa possa essere la testimonianza, far conoscere agli altri uomini che uomini si era ridotti a essere in un lager. Il suo messaggio però si è arricchito negli anni. La parola testimonianza può avere un significato più ampio che non sia quello legato a quell’esperienza?

Probabilmente sì. Per quanto mi riguarda io ho l’impressione che il grosso della mia testimonianza, il nocciolo del mio mestiere di scrittore, di intellettuale, sia questo. Poi naturalmente c’è anche altro, perché non passano quarant’anni invano, molte cose si acquistano ma alcune si perdono. Ho provato la tentazione di portare la testimonianza anche su altre cose, so però che sono meno importanti, e lo stesso destino editoriale dei miei libri lo dimostra. Se questo è un uomo continua a vivere, a leggersi. Ricevo quasi ogni settimana due o tre lettere di lettori, perlopiù lettori giovani, che mi fanno domande che sono sempre le stesse. 

 

Che cosa le chiedono?

Mi chiedono otto cose, adesso non so se riesco a ricordarle tutte, la prima, che non manca mai, è perché questo libro che denuncia azioni atroci da parte di una forte percentuale del popolo tedesco contro il popolo ebreo, è privo di odio.

 

Cosa risponde a questa prima domanda?

Con imbarazzo. Non so per quale motivo, ma io sono fisiologicamente incapace di odiare, è una cosa che non conosco, come non conosco la collera, non è uno stato d’animo a cui io sia propenso. Ho provato collera pochissime volte in vita mia, odio praticamente mai, il che non vuol dire che non provi e abbia provato allora e non provi tuttora un intensissimo bisogno di giustizia. Se fossi un giudice non esiterei a condannare in modo estremamente severo, e spesso con la morte, alcune di quelle persone. Sono stato soddisfatto della condanna a morte di Eichmann, mi è sembrata giuridicamente contestabile anche se non sono giurista, però, come uomo, mi ha umanamente soddisfatto, benché non possa dire neppure di avere odiato Eichmann. Davanti al personaggio Eichmann, come a molti altri, e a tutti i condannati di Norimberga, la mia prima reazione non è odio, ma piuttosto curiosità. Questo potrà forse sorprendere, forse fa parte della mia preparazione di tecnico, di chimico, mi piacerebbe, e mi piace, andare a vedere dentro alle cose, ma anche alle persone. Da allora, un mio interesse “naturalistico”, come quello di chi studia un insetto o un uccello, è rivolto a quelli dell’altra parte. Sono molto avido, mi intossico di letture, di biografie di quelli dell’altra parte, non necessariamente nazisti. Allo stesso modo mi interessa l’itinerario mentale di un brigatista rosso. Mi interessa l’uomo e anche l’anti-uomo, cioè quello che si è pervertito o lasciato pervertire, che perverte.

 

La perversione, la mostruosità riesce a essere così totale come sembra a noi e ai suoi lettori più giovani?

No, e infatti non c’è. Direi che il risultato di questa mia ricerca, che non è sistematica ma saltuaria (avvenuta attraverso ricerche fatte da altri e tramite anche mie osservazioni, poiché – durante e dopo – ho avuto a che fare con persone così) è che il mostro non c’è. Oppure, è rarissimo, io non ne ho mai visto uno. La sorpresa di questa ricerca è che sono gente come noi, hanno però preso, sono stati incanalati su una strada che perverte, che è quella dell’abdicazione alla legge morale, ma anche alla ragione, perché perlopiù sono tutte persone che hanno fatto dei calcoli sbagliati. Oltre alla colpa, al peccato (lo dico benché non sia un religioso) c’è anche uno sbaglio, un errore di calcolo. Pensavano perlopiù di ottenere vantaggi che non hanno ottenuto.

 

Altre domande che le fanno?

Ce n’è una molto singolare, che deve pure avere un significato profondo, perché non manca mai: chi sarei io se non fossi stato in un lager o, più precisamente, se avrei scritto e cosa, se in lager non ci fossi stato. Per me è una domanda che non ha senso, perché sarebbe come chiedere l’avvenire. 

 

Altre domande?

Una immancabile è “Perché questo è successo?” o, con formulazioni più ingenue (spesso a scrivermi sono domande fatte da lettori dell’edizione scolastica del libro, ragazzi di tredici, quattordici anni), “perché Hitler voleva male agli ebrei?” o “perché i tedeschi odiavano gli ebrei?”, però la domanda è tremendamente viva e pesante e difficile da spiegare. La situazione che si è determinata nella Germania di Hitler, e non solo in quella, (ne parlo non perché la ritenga un fenomeno unico della storia, ma solo perché ne sono stato coinvolto, sono un esperto di questo) è stata creata da una convergenza di molti fattori storici, in cui, a mio parere e contro quello che dicono i teorici marxisti, la personalità di Hitler, l’uomo Hitler e alcuni scelti da lui, hanno pesato in modo determinante. Tentativamente, io rispondo che se al posto di Hitler ci fosse stata un’altra persona, le cose sarebbero andate in modo sensibilmente diverso e probabilmente non si sarebbe arrivati a questi estremi. La mia impressione personale, avendo conosciuto molti tedeschi, è che veramente incarnasse – c’è qualcosa di vero in quello che mi scrivono molti lettori tedeschi – che Hitler era il diavolo. Io rifiuto la demonizzazione, credo però che qualcosa di sostanzialmente distinto dalla specie umana ci fosse in quest’uomo, e che la mia risposta di poco fa – che di mostri non ce ne sono – comporti delle eccezioni, di cui questa è una. Questo era veramente un mostro.

 

Mi è venuta in mente un’altra domanda fondamentale, è una domanda polemica: “Perché tu, Primo Levi, parli di lager nazisti e non dei lager sovietici?”. Io non ne parlo solo perché non ci sono stato. Se ci fossi stato ne parlerei e ne parlo, anzi, fa parte della mia “droga” l’occuparmi di queste cose; ho letto quanto ho potuto anche dei lager russi di allora e di adesso. Sono stato in grado di fare un confronto, ho letto un libro che spererei fosse tradotto in italiano, della Margarethe Buber Neumann, nuora di Martin Buber, comunista, che era stata scaraventata in lager da Stalin perché era un’attivista comunista al tempo delle grandi purghe, stava in Spagna col marito. È stata internata in Siberia a lungo e poi col patto Ribbentropp-Molotov ceduta ai tedeschi, che l’hanno messa ad … Credo sia una delle cinque-dieci persone che abbiano potuto fare quest’esperimento, comparare il regime carcerario, di internamento sovietico con quello hitleriano. Sarebbe stupido e ottuso dire che nei lager della Siberia si stesse bene, non si stava bene affatto, però c’è una differenza fondamentale, che non erano fatti per uccidere la gente. La gente ci moriva ugualmente, anche molto, anche con quote di mortalità terrificanti, del 10-20-25%, con tempi folli di detenzione, di dieci, vent’anni, ne parla anche Solgenitsin, in cui però la morte era in qualche modo accidentale, avveniva per il freddo, per la fame, per la fatica, ma non era l’obiettivo. Mentre la novità finora unica, perché non credo che si sia ripetuta mai, salvo forse in Cambogia …, lo scopo dello strumento lager nella Germania di Hitler era proprio quello di uccidere. Erano macchine per uccidere in cui invece si capovolgeva il lavoro servile, che era un sottoprodotto. Il prodotto principale era la morte e questo mi pare vada ripetuto, non per scagionare Stalin né i suoi successori, ma solo per segnare una differenza che ha la sua importanza.

 

 

Sempre in Se questo è un uomo, lei parla della preghiera.

Se ne parla due volte. All’inizio, quando assistiamo al rito funebre per se stessi degli ebrei libici. Era una famiglia unica, la famiglia Gattenio (?) che recitava il Kadish per se stessa. Era una cosa che mi era rimasta impressa. Avevano messo le candele accese al suolo, le donne si erano tolte le scarpe, non ricordo bene se si fossero anche stracciate i vestiti (perché ho saputo poi che questo fa parte del rito funebre, ci si straccia gli abiti in un certo modo) e avevano recitato la cerimonia mortuaria per se stessi. C’è un altro episodio, in cui io rifiuto la preghiera, quello subito dopo una grossa selezione avvenuta in ottobre, per le camere a gas. Circa un quinto della popolazione del lager venne mandato nella camera a gas, esattamente quarant’anni fa. A cose finite, io non ero stato scelto per ragioni abbastanza casuali, credo. Perché contava molto il caso, era una scelta che avveniva in un secondo o due, si passava di corsa davanti a un medico delle SS che diceva sì oppure no. Io comunque ero un no. Un greco poco lontano, che aveva vent’anni, era stato condannato. Invece c’era un ungherese, che a me sembrava anziano allora, avrà avuto quarant’anni, si era anziani a quarant’anni perché al di là non si andava, l’ho chiamato il vecchio Kuhn, con gli occhi del sessantacinquenne che sono oggi forse non era così anziano, comunque pregava alla maniera degli ebrei orientali, cioè si era messo in testa il cappello, pregava seduto sulla sua cuccetta, nell’ora del silenzio, alla fine della giornata, agitandosi avanti e indietro, ringraziando Dio nella sua lingua per essere stato salvato. Ora, questa preghiera mi era sembrata blasfema, mi era sembrato mostruoso che uno, salvato così per caso, in quel modo, ringraziasse Dio davanti a un suo compagno, molto più giovane di lui, che invece era stato condannato. Ho scritto “Se fossi Dio sputerei a terra la preghiera di Kuhn”.

 

Nella sua antologia personale, La ricerca delle radici, lei parla della lettura come abitudine e tradizione della sua famiglia e scrive: “Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente. Leggeva stando in casa, andando per via, coricandosi ed alzandosi. Si faceva cucire dal sarto giacche con tasche profonde che potessero contenere un libro ciascuna. “La sua famiglia, oltre a darle questa dimestichezza con la lettura le ha dato anche un’educazione religiosa?

No. Mia madre è sempre stata agnostica, mentre mio padre era religioso a modo suo, a mio parere in modo piuttosto superficiale, era più superstizioso che religioso, credeva ai presagi, non passava sotto le scale appoggiate ai muri, era a disagio quando ci si trovava in tredici al tavolo. Non era religioso, ugualmente mi ha fatto fare il Bar-Mitzwah, cioè la cerimonia di iniziazione religiosa che si fa a tredici anni, e che è una cosa abbastanza seria, coinvolge abbastanza perché comporta un anno di studio parallelo allo studio laico e un esame. Poi, comporta una terrificante – per me – cerimonia di lettura pubblica, in ebraico, di un passo della Sacra Scrittura.

 

Terrificante perché era pubblica?

Sì e non solo per quello, ma perché mi metteva in contatto con un Dio ignoto che mi era stato descritto, a cui ero stato invitato a porgere ossequio, a credere. Mi sembrava una violenza, anche perché probabilmente mi era stata somministrata male tutta questa sapienza condensata in un anno di studi che poi erano una ventina di ore di lezione privata. Probabilmente l’insegnante che era stata delegata a questo non valeva molto e quindi non ha fatto breccia in me tutto questo. Ha durato pochissimo.

 

E dopo questa sua esperienza adolescenziale?

È finito, non sono stato un credente, salvo che per qualche mese dopo il Bar-Mitzwah appunto, cosa che capita a molti ragazzini ebrei, è quasi una norma, oso dire per spavento. Molti osservano il rituale ebraico per qualche mese, poi perlopiù se ne distaccano. Dopo, la mia tendenza di “naturalista”, di osservatore del mondo intorno a me mi ha distaccato da questo, ho letto tutt’altre cose, Darwin per esempio, che mi ha fatto molta impressione. Ma il colpo decisivo è stato proprio l’esperienza del lager. Mi pare che fornisse – l’episodio della salvazione casuale e del ringraziamento assurdo – ha distrutto in me qualunque velleità di credere a una Provvidenza. Ho scritto una frase che riguarda la Provvidenza, al momento della liberazione, nel campo, quando i tedeschi se ne sono andati lasciandoci vivi, senza ucciderci, ho scritto che avevo ravvisato, in questa improvvisa libertà, una eco delle salvazioni bibliche. Però, ho anche aggiunto, oggi, dopo quest’esperienza, non mi sento in grado di poter credere in una Provvidenza.

 

Lei ha educato i suoi figli religiosamente?

Ho fatto esattamente come ha fatto mio padre con me. Ho adempiuto, invitando entrambi a fare l’iniziazione religiosa a tredici anni. Ed entrambi si sono comportati come me, hanno avuto un brevissimo periodo di adempimento alle norme rituali, anche alla fede probabilmente, per quanto si possa parlare di fede a tredici anni, e poi sono ricaduti sulla mia scia, una è biologa e l’altro è fisico, entrambi apparentemente non hanno nessuna tendenza verso il mondo del trascendente.

 

Lo dice come se l’essere biologo o fisico fosse in contraddizione con la fede.

Sì, così penso infatti. Noti che non ho nessun disprezzo per chi ha fede, anzi provo sovente invidia perché so che appoggio possa essere nella vita e perché conosco eccellenti persone, di qualunque religione, che sono credenti, però mi pare difficile per tutti, e in specie per uno scienziato della natura mantenere entrambe le fedi senza incappare in qualche contraddizione.

 

Quella della natura è una fede?

Oddio, sotto certi aspetti direi di sì, è difficile pensare al mondo della natura, all’universo senza domandarsi perché c’è, e perché ci siamo noi dentro. Questa direi è la linea di demarcazione che separa il mondo del credente da quello del non credente. Il credente sa, non dico che crede, che l’universo ha uno scopo e l’uomo nell’universo ha una sua mansione, mentre il non credente il mondo a caso pone. 

 

Suo padre, che cosa le ha lasciato?

Abbastanza poco. Era diventato padre in età abbastanza avanzata, c’erano quarant’anni di differenza tra me e lui, eravamo molto diversi, era un’eccellente persona ma non aveva tendenza alla carriera di padre, si curava poco dei figli, della nostra educazione. Mi ha lasciato una biblioteca, l’amore per i libri, una certa tensione spirituale, per cui ha incominciato a studiare inglese a sessantaquattro anni, un arrovellarsi intorno ai perché. Come dicevo era pressoché un autodidatta, aveva fatto le scuole tecniche, poi aveva fatto ingegneria, ma al di fuori del suo campo aveva una cultura abbastanza lacunosa. Cercava tuttavia di riempire queste lacune, leggeva Kant in tedesco, credo che ne capisse poco, però insisteva, non lasciava nulla di inosservato, comprava tutti i libri, che non erano molti, che venivano pubblicati allora, cercava di leggerli tutti. Aveva una tendenza, che non so da dove gli venisse, a esplorare, era un curioso, questo credo di averlo ereditato da lui.

 

Che cosa si augura di lasciare ai suoi figli?

(Ride) Non saprei dire. I miei figli non sono più giovanissimi, una ha trentasei anni, l’altro ventisette. Promettono bene, cioè a trentasei anni si è già smesso di promettere, sono brava gente (ride), sono persone con cui vado molto d’accordo, mi pare che abbiano a loro volta ereditato questo desiderio di dare struttura, organizzazione alle proprie esperienze, non lasciarle in uno stato informe, di ridurle a sistema. Non molto di più. Spero di lasciar loro un mondo che viva in pace, di lasciar loro la pace, in fondo la pace che ho raggiunto, perché l’ho raggiunta, attraverso una via un po’ inconsueta, ma ho raggiunto una certa pace interna. Spero di poterlo trasmettere a loro.

 

Nel risvolto alla sua raccolta di poesie Ad ora incerta, lei scrive: “Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti, in media non più di una volta l’anno, singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma che la mia età razionale continua a considerare innaturale”. Ci sono momenti in cui la sua metà irrazionale riesce a prendere il sopravvento, diventa “ingovernabile”?

Direi di no, o perlomeno sono talmente brevi nel tempo che non riesco a catturarli. Durano quanto basta per innescare una poesia, perlopiù è un verso o addirittura un frammento di verso, poi cessa. Manca la corrente.

 

Della poesia "2 febbraio 1946" tratta dal volume Ad ora incerta, mi hanno colpito tre versi “Meditai la bestemmia insensata/ che il mondo era uno sbaglio di Dio/ io uno sbaglio del mondo”. In che cosa consiste l’insensatezza di questa bestemmia?

Questa è una poesia d’amore, l’ho scritta in un momento in cui ero innamorato. In quest’atmosfera mi sembrava blasfemo quello che avevo pensato fino a poco prima, cioè che il mondo fosse uno sbaglio di Dio e io uno sbaglio del mondo. Devo dire che non potrei più sostenere questi tre versi, oggi, perché vanno intesi in senso metaforico. Che il mondo sia uno sbaglio di Dio, oggi lo ritengo ancora una cosa non più blasfema ma insensata perché se c’è un Dio non sbaglia. E neppure credo di essere io uno sbaglio del mondo. O nessuno o tutti, non io in specie.

 

Inserito in un discorso d’amore questa diventa un’insensatezza?

Sì.

 

Presentando l’opera di Shalom Aleichem, pseudonimo di Shalom Rabinovich, lei ricorda questa argomentazione: “Dio stesso non può soffrire chi non ha quattrini e perché? Perché se Dio amasse il povero il povero non sarebbe più povero”. E aggiunge: “ Tevie, il lattaio, (di cui scrive Aleichem) non esiste più. Lo hanno ucciso gli Auschwitz e i lager di Stalin”. L’argomentazione laica su Dio esiste ancora secondo lei?

Si tratta evidentemente di un paralogismo in questa forma, di un sofisma molto arguto e spiritoso, mi ha entusiasmato quando l’ho trovato ma è un sofisma. Non va al di là del divertimento. Adesso con un po’ di pazienza sarebbe facilissimo smontarlo, dimostrarne la fallacia. Però è perfettamente nello spirito del parlante di questo Tevie (che è la trascrizione Yddish di Tobia), poverissimo, afflitto da tutti i guai di Tobia, da tutto quello che un uomo può soffrire, però è arguto, è un ragionatore, cerca di ricostruire, di tappare le lacune dell’universo, con la sua scarsa scienza, la sua scarsa teologia di uomo povero e incolto. Si adopera, si arrabatta. Con ragionamenti come questo e molti altri che ci sono nel libro, cerca di ricucire gli strappi.

 

Secondo lei, questa è un’operazione che facciamo tutti, quella di ricucire gli strappi?

Penso che un credente sia condannato a farlo per tutta la vita.

 

Dopo la rinascita dai lager, che cosa è diventato per lei il pensiero della morte?

Confesso che è un non pensiero, che ci penso molto raramente, che rimando da un giorno all’altro, che non mi ci soffermo, lo trovo incompatibile, nocivo alla vita. Conosco persone che vivono nell’attesa della morte e mi fanno compassione e spavento insieme. Può darsi che ci cada anch’io naturalmente, quando i tempi si accorciano bisogna pure fare i conti anche con questo, finora ho rimandato.

 

E se qualcuna di queste persone le venisse a chiedere conforto, che cosa potrebbe dire loro, sulla paura della morte?

Il conforto laico classico, credo sia quello di Socrate, che la morte non esiste perché con la morte finisce la sensibilità, cessa il dolore, la consapevolezza.

 

Nella sua antologia personale La ricerca delle radici lei premette al testo un grafo che ci mostra come tutti i percorsi possibili degli autori che lei include in questa antologia portano comunque ai “buchi neri”. Applicati alla letteratura, che cosa rappresentano questi buchi neri verso i quali tutti gli autori da lei scelti, e presumibilmente tutti gli autori della letteratura, vanno a finire?

Questo grafo era uno scherzo. All’origine era più che altro uno scherzo abbastanza serio, un tentativo di conglomerare in un’immagine alcuni itinerari umani. Detto seriamente, non è che ci creda molto, però i buchi neri ci sono, non quelli degli astronomi, il “nostro” buco nero è la morte, gli itinerari umani tutti convergono verso questo nostro destino comune.

 

La cosa che mi ha colpito di questa immagine è che non solo le nostre vite e le vite di tutti gli autori che lei cita vadano inevitabilmente verso la morte, ma sembra quasi che la stessa opera di questi esseri umani, gli stessi scritti, gli stessi capolavori siano convogliati verso questo nulla.

Non può non colpire questo.

 

Perché siamo abituati a pensare che se l’uomo è mortale, la sua opera non lo è.

L’uomo è mortale, la sua opera non lo è, ma l’umanità non è immortale. Se si pensa sulla scala astronomica, la specie umana esiste da due, tre milioni di anni e potrà esistere per qualche altro milione di anni, ma l’universo si misura in miliardi di anni. Quindi, il destino della terra, qualunque sia, che sia traumatico per l’opera dell’uomo o che sia traumatico per senescenza o catastrofi naturali, non sarà eterno, la specie umana non è eterna, come nessuna specie lo è. Il lavoro dei paleontologi colpisce la fantasia: nessuna specie è durata più di qualche milione di anni.

 

Non ha mai pensato, per davvero o per scherzo, a un’epigrafe che le piacerebbe avere sulla tomba?

Ci ho pensato in termini un po’ diversi, perché come le dicevo l’idea della morte non mi entusiasma, non mi ci soffermo molto, non ci ho quindi pensato come epigrafe. Avevo sì in animo di farmi un ex libris senza il mio nome proprio ma solo col cognome, in modo che fosse ereditabile dai miei figli, con sopra due parole greche che sono del secondo verso dell’Odissea pollà plankte, cioè “molto errò”.

 

Gli fa leggere la poesia Le pratiche inevase

 

Signore, a fare data dal mese prossimo/ voglia accettare le mie dimissioni/ e provvedere se crede/ a sostituirmi./ Lascio molto lavoro non compiuto/ sia per ignavia/ sia per difficoltà obiettive./ Dovevo dire qualcosa a qualcuno/ ma non so più che cosa e a chi/ l’ho scordato./ Dovevo anche dare qualcosa/ una parola saggia, un dono, un bacio/ ho rimandato da un giorno all’altro/ mi scusi/ provvederò nel poco tempo che resta./ Ho trascurato, temo, clienti di riguardo/ dovevo visitare città lontane, isole, terre deserte/ e dovrà depennarle dal programma o affidarle alle cure del successore/ dovevo piantare alberi e non l’ho fatto/ costruirmi una casa/ forse non bella/, ma conforme a un disegno./ Principalmente/ avevo in animo un libro meraviglioso/ caro signore/ che avrebbe rivelato molti segreti/ alleviato dolori e paure/ sciolto dubbi/ donato a molta gente il beneficio del pianto e del riso/ ne (?) troverà la traccia nel mio cassetto/ in fondo tra le pratiche inevase./ Non ho avuto tempo per svolgerla/ è peccato/ sarebbe stata un’opera fondamentale./ 

 

Questi versi sono un suo bilancio privato o crede che ciascuno di noi è destinato a lasciare delle opere fondamentali non svolte?

Credo che questa poesia sia valida per tutti, penso che chiunque, qualunque essere umano possa fare un’opera fondamentale, non necessariamente un libro … Anzi, sono un’esigua minoranza (coloro che possono scrivere un libro), ma qualcosa pure sì, per esempio educare un figlio, risanare un malato, consolare un afflitto, non ho vergogna o ritegno a ripetere frasi evangeliche. Penso che ognuno abbia delle pratiche da evadere e perlopiù le evada dolosamente o colpevolmente, che solo un uomo estremamente superbo possa arrivare al termine della sua vita tranquillo, sapendo di avere evaso tutte le sue pratiche. Forse qualche santo ha ragione, forse Don Bosco o il Beato Cottolengo possono giustamente arrivare alla fine della loro carriera con la coscienza tranquilla, di avere evaso tutte le pratiche che erano state loro affidate o di cui s’erano fatti padroni.

 

13 gennaio 1985.

 

(Per gentile concessione della Rai Radio Televisione Italiana).

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