Da maschio ai maschi sul femminicidio

21 Novembre 2023

Mentre scrivo nel 2023 in Italia ci sono stati più di cento femminicidi – circa uno ogni tre giorni – l'ultimo dei quali, vittima Giulia Cecchetin, ha spero dissipato per sempre il preconcetto molto stupido e molto classista per cui la violenza riguarda sempre altri. I poveri, i disperati, i pazzi, gli stranieri, gli ignoranti, le generazioni cresciute a pane e maschilismo. Già sapevamo che non è così, ma le parole riprese dalla sorella di Cecchetin – "è stato il vostro bravo ragazzo" – sono in qualche modo definitive, di una chiarezza disarmante, e devono suscitare in noi maschi una riflessione più radicale.

E qui è bene intendersi subito: non serve un vacuo rituale di autocritica, magari condita da moralismo e un po' di cosmesi del linguaggio, ma che lascia intatti i rapporti concreti di potere. Di retorica del genere ne abbiamo avuta abbastanza. Quel che domando è: in che modo tale violenza ci riguarda, tutti e indiscriminatamente? E perché ancora ci infastidisce l'idea stessa che ci riguardi? Perché se una donna ci richiama alla responsabilità alziamo subito le mani dicendo: "Io non sono così"?

Certo, c'è un abisso che separa la maggioranza dei maschi da coloro che stuprano, feriscono o uccidono le donne: ma questo non può esimerci dal riconoscere che sopra l'abisso c'è un ponte, più stretto o più largo a seconda dei casi, che connette il nostro terreno con quello da cui ci ritraiamo inorriditi – e che pure ci appartiene, volenti o nolenti. Negare la responsabilità del singolo significa precipitare nella proverbiale notte in cui tutte le vacche sono nere, rimuovendo l'abisso in sé; ma ridurre tutto al singolo non sposta di un centimetro l'asimmetria di fondo che nutre i comportamenti aberranti.

Dovremmo concentrarci sul ponte, invece: un ponte fatto di educazione alla diseguaglianza fin da piccoli, riduzione delle molestie ad "apprezzamenti un po' pesanti", parificazione tra relazione e possesso, senso di lesa maestà quando riceviamo una critica, timore che le donne o il femminismo ci derubino di qualche ruolo avuto per natura, compiaciuto elogio – magari a mezza bocca, ma sempre presente – della violenza e della sopraffazione, giudizi morali nelle sentenze di tribunale, giornalismo paternalista, culto del machismo come affermazione di sé, spregio della mitezza, abitudine a essere serviti per primi a tavola e soprattutto pressoché totale impunità.

Il cameratismo maschile giustifica tante cose, e mente chi dice il contrario: dal bancone del bar allo spogliatoio il linguaggio comune è sempre quello ed è trasversale a ogni classe e nazionalità (basti guardare ai dati europei sulla violenza di genere) e in fondo anche a ogni credo politico ("compagni in sezione, fascisti a letto", per dirla con l'UDI). Certo c'è sempre il consueto abisso tra una frase sgradevole e una mano che colpisce, ma la mano riceve la sua forza da tale humus comportamentale.

Insomma, nessuno di noi è interamente innocente non perché ha scelto di nascere maschio – non l'ha scelto – bensì perché sceglie di non occuparsi della mascolinità, di dare per scontato lo stato di cose chiamandosene fuori. Invece ognuno farebbe bene a riesaminare certi gesti, certe noncuranze. Scavo nella memoria e ritrovo la volta in cui feci una battuta davvero stupida a un'amica (qualcosa sul vestirsi più provocante per avere un voto più alto): lei mi rimproverò e io mi sentii accusato di un maschilismo che non mi apparteneva, non mi appartiene, non mi riguarda. E invece mi riguardava eccome, perché lì e in altre occasioni ho sentito benissimo un impulso che si deve invece imparare a controllare. Cosa salta nel cervello dei maschi? Sono domande che le donne si pongono spesso e noi quasi mai.

Il fatto che a me come ad altri non sia mai passato per la mente di fare cat-calling o maltrattare una donna non significa certo che ci meritiamo una medaglia (altro tema molto maschile, il bisogno di sentirsi dire "bravo"): è il minimo etico richiesto, e che tuttavia non deve distrarci dal punto fondamentale: in che modo tutti gli altri nostri comportamenti contribuiscono a tenere saldo il ponte sull'abisso? Quante volte abbiamo approfittato, senza pensarci, del fatto che una donna fosse una donna per sminuirla in qualche modo? Quante volte abbiamo detto qualcosa di sconveniente dopo due bicchieri di troppo, dato che per noi due bicchieri di troppo sono una giustificazione mentre per una donna appaiono una colpa?

Ripeto: limitarsi ad affermare che tutto ciò è cosa ben diversa dalla violenza fisica implica fermarsi a contemplare l'abisso per un minuto soltanto e poi tornare alla vita di sempre. Ma è anche così che l'abisso perdura: perché lo sgomento dura poco e tutti vivono la vita di sempre, quando invece il lavoro da fare è per lo più subacqueo, faticoso, quotidiano; ed è un lavoro che tocca a noi maschi.

Del resto, se le aggressioni avvengono in larghissima parte in contesti familiari o comunque fra conoscenti, significa che le nostre relazioni sono ancora in larga parte intessute di implicita minaccia: di una paura di fondo che esce completamente dal nostro radar e che invece dobbiamo imparare a conoscere.

Quando una donna viene uccisa da un uomo le donne giustamente ci chiamano in causa. E noi maschi non violenti che facciamo? Sappiamo solo dire, magari un po' offesi, che siamo diversi? È troppo poco, visto che la violenza comunque perdura. Cominciamo invece a parlarne apertamente fra noi, con franchezza, senza sconti. "Viene spesso detto «non tutti gli uomini»", ha scritto ancora Elena Cecchettin in una lettera al Corriere della sera. "Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini".

L'immagine in copertina è di Lorenzo Mattotti, che ringraziamo. 

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Lorenzo Mattotti
TAGGED: femminicidio