Due o tre cose che so di lui
Il 2013, che per fortuna volge al termine, potrà essere ricordato come l’anno in cui gli uomini cominciarono a vedere chiaro o a mentire su se stessi come mai avevano fatto nel corso della loro storia millenaria.
Potrà essere ricordato anche come l’anno in cui le donne, molte donne, si accontentarono delle lucciole, magari senza nemmeno scambiarle per lanterne. Ancora una volta fiduciose nel gradualismo e nelle dichiarazioni di intenti, forse semplicemente inebriate dalla visibilità di segno nuovo, una vera e propria sovraesposizione, garantita loro da istituzioni politiche e media.
Potrà essere ricordato come l’anno in cui, con impercettibile e inarrestabile slittamento semantico, donna diventò sinonimo di vittima – potenziale, reale, simbolica – da proteggere, tutelare, tenere in luogo sicuro al fine di emanciparla e liberarla. E uomo finì per associarsi sempre più a bruto da sorvegliare e punire in nome di una sua rieducazione a venire.
Potrà essere ricordato come l’anno in cui paesi a democrazia ‘matura’ come l’Italia e la Francia scelsero di legiferare sul rapporto donna-uomo, anzi vittima-bruto, ufficialmente per garantire alla prima il conforto e al secondo lo spauracchio della legge. Nel caso dell’Italia varando con urgenza un decreto-legge (Convertito il 15 ottobre scorso in legge n. 119) meglio conosciuto come ‘pacchetto sicurezza’, in cui violenza domestica e cosiddetta violenza di genere fanno da copertura a un giro di vite nei confronti di immigrati, movimenti antagonisti, microcriminalità. Nel caso della Francia approvando un disegno di legge volto ad abolire la prostituzione.
Anno mirabile davvero quello in cui la violenza sulle donne – formula che rischia di farti sentire poco più di un comodino – può, nel discorso politico, mediatico e talora ‘femminista’, essere definita eliminabile quasi fosse un abito vecchio o la forfora e la prostituzione abolibile come la pena di morte, una legge, il caffè, il vino o la cioccolata da una dieta. Come se si trattasse, insomma, di puri e semplici atti di volontà, collettiva e/o individuale.
E qui l’asino casca e si schianta
Sia l’accorata legge italiana, tutta rispetto e protezione per le vittime e misure eclatanti contro i persecutori, sia il disegno di legge francese, quasi grottesco nella sua ipocrita morale formale, sembrano fare alle donne un ennesimo sberleffo. Oltre a metterle – e fin qui non ci sarebbe niente di nuovo – in posizione di minorità, costruendole discorsivamente come soggetti iperdeboli, se ne servono per arrivare a qualcosa che non riguarda la loro emancipazione dalla ‘violenza di genere’ o dalle tratte, a qualcosa che le scavalca e le trascende.
Cos’è esattamente questo qualcosa? A caldo verrebbe da rispondere la nostra libertà, la nostra di tutti, uomini e donne. Trattati gli uni da delinquenti in agguato, capaci (in quanto uomini?) di maltrattare, picchiare, fare male alle donne o di comprarne il corpo (o le prestazioni sessuali?) così come si compra una bistecca o una qualsiasi altra merce di prima necessità. Affidate le altre, come fragili ninnoli di cristallo, alle cure di uno Stato che ne imballa il corpo, la libertà di lavoro, movimento, espressione, proponendosi di tutelarne l’integrità fisica e sessuale.
Ricordo che, quando l’esercito statunitense invase l’Afghanistan post-11/09/2001, il “New York Times” scelse di mettere in prima pagina l’immagine di una donna del posto finalmente senza burqa. La deduzione logica era che gli Usa fossero andati in guerra innanzitutto per emanciparla dalla sua condizione di schiava. Il resto – lotta al cosiddetto terrorismo islamico, equilibri geopolitici, conquista di porzioni di mercato o di vie d’accesso a materie prime preziose – era secondario. L’opinione pubblica doveva avere occhi solo per lei, identificarsi nella sua situazione di spossessata, sottoscrivere ogni efferatezza militare occidentale se la posta in gioco era il suo salvataggio, il suo percorso di libertà. Gli americani abboccarono, il loro esercito non si è più mosso da lì e le donne afgane non è che stiano poi tanto meglio.
Lo dico perché, tra le righe della legge italiana e senza dubbio nel testo della futura legge francese, si intravedono inganni, confusioni o capovolgimenti simili.
Uno per tutti, di parte francese
Esponendo davanti all’Assemblea nazionale i motivi che li hanno spinti a presentare il disegno di legge antiprostituzione che in queste settimane ha infiammato il paese, i socialisti Bruno Le Roux e Maud Olivier hanno spiegato che “se nel 1990 solo il 20 per cento delle persone che si prostituivano nello spazio pubblico erano straniere, dal 2000 lo sono circa il 90 per cento. I paesi d’origine sono ben noti – innanzitutto Romania, Bulgaria, Nigeria e Cina – e dimostrano la forza crescente delle reti che prosperano sul traffico della prostituzione”.
La loro prolusione era del resto iniziata con una citazione: “La prostituzione e il male che l’accompagna, cioè la tratta di esseri umani, sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana e mettono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità”. (È la posizione enunciata dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la repressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione altrui, approvata dalla sua Assemblea generale il 2 dicembre 1949 e ratificata dalla Francia il 19 novembre 1960.)
La “nuova prostituzione” sarebbe dunque da perseguire perché i corpi in vendita non sono più a km zero e affluiscono sul mercato europeo attraverso reti oscure che lucrano sulla carne umana (per lo più femminile). Colpevoli dunque non sarebbero, di per sé, né i consumatori di sesso a pagamento né le migranti costrette a vendersi sul mercato del sesso invece che su quello delle braccia o della cura (ah, i nostri crescenti bisogni di forze fresche!!! Ah l’imbecillità o la malafede di chi crede che il corpo femminile coincida con i suoi genitali!!!), bensì i trafficanti che nascosti nell’ombra ingrassano su uno dei pochi settori in cui – alla faccia della crisi in corso – la legge della domanda e dell’offerta continua a essere sbilanciata a favore della prima.
Il bersaglio dichiarato sono loro, ma come identificarli, raggiungerli, snidarli?
Proponendo a chi si prostituisce un ‘percorso di uscita’ dal mestiere e al contempo di emancipazione dalla ‘schiavitù’, il disegno di legge francese invita le ‘schiave del sesso’ a trasformarsi in delatrici. In cambio avranno vitto e alloggio, forse qualche lavoretto alla luce del sole e soprattutto un permesso di soggiorno che durerà fino a un massimo di sei mesi. Poi saranno rispedite al paese d’origine dove, ci immaginiamo, saranno accolte come eroine e potranno senz’altro rifarsi una vita.
Poiché lo smantellamento delle reti malavitose di cui sopra richiederà tuttavia parecchio tempo, perché non agire nel frattempo – devono essersi detti i geniali deputati socialisti – sul terreno della rieducazione, vale a dire della moralità, della solidarietà, dell’informazione consapevole? E dunque dagli al cliente (che sarà sanzionato con un’ammenda da 1.500 euro la prima volta che sarà colto sul fatto e di 3.000 in caso di recidiva) e allo stesso tempo fagli sapere con dei corsi appositi che la merce sessuale che gli piace così tanto ha costi di produzione ad alta intensità di sofferenza per la merce stessa. Insomma guastagli il piacere, così gli passa la voglia. E si spieghi nelle scuole superiori che non è solo questione di sfruttamento dei corpi senza valore delle immigrate/schiave. “Contro la mercificazione dei corpi bisogna lottare anche quando avviene tra soggetti” (liberi e consenzienti? mi domando), perché “l’obiettivo è sempre sottrarre la sessualità alla violenza e al dominio maschile”.
Cosa c’entri tutto questo con il benessere “dell’individuo, della famiglia e della comunità” è forse il vero bandolo della questione. Ognuno/a di noi sa bene che ogni volta che la famiglia viene evocata (o, in alternativa, non nominata), gatta ci cova. Non è lì, da quando la borghesia ha dato forma non solo economica alla società in cui viviamo, che gli individui vengono variamente mutilati, nanizzati, bonsaizzati?
Se non si parte da questa constatazione, che obbliga tutti noi a ripensare i vincoli d’amore, dipendenza, possesso, a riflettere sulla trama di bisogno, desiderio, nostalgia, sogno tessuta insieme da donne e uomini, si rischia di fare e farsi molto male.
In tal senso è a dir poco pericoloso delegare allo Stato e alle sue leggi la gestione della nostra sessualità. Si tratta di un compito che non può e non deve essere suo. Non tanto per una generica difesa delle libertà individuali, tipo “Touche pas à ma pute” (“Giù le mani dalla mia puttana”, titolo/slogan scherzoso o banalmente provocatorio con cui la rivista “Causeur” ha deciso di pubblicare nel novembre scorso il fatuo e paraculo “Manifeste des 343 salauds”, di cui lo scrittore Frédéric Beigbeder è stato primo firmatario.), ma perché non è con la forza e la repressione e neppure con le lezioni di morale che si crescono uomini e donne capaci di riconoscersi, non di farsi da specchio.
Il desiderio è una faccenda altamente politica e impone una sua rivoluzione. Se lo si imbriglia, migra altrove o si nasconde. Perciò, per chiosare i ‘porci’ citati in nota, “legislatori e riformatori benintenzionati, giù le mani dai nostri corpi, maschili o femminili che siano”.