Nei panni altrui: la libertà della finzione
Nel quinto numero del trimestrale Sotto il vulcano, dal titolo Selfismo, il curatore Giacomo Papi osservava: "se la narrazione dei social è fondata sul soggetto e sulla sua rappresentazione, negli ultimi vent'anni questo processo è diventato evidente anche in letteratura, dove il racconto autobiografico dilaga ed è diventato culturalmente egemonico rispetto alla narrativa di pura invenzione."
Forse sarei un po' più cauto nel parlare di egemonia, ma la sensazione di fondo è alquanto condivisibile. In luogo di studiarne le cause o gli effetti — Papi ad esempio solleva giustamente il problema di una competizione tra autore e opera — vorrei indagare uno dei principi che sembrano fondarla: il veto per cui "se non l'hai vissuto, non puoi raccontarlo in un romanzo". A volte è pronunciato a chiare lettere; a volte agisce come sottile forma di autocensura. In ogni caso, per citare ancora Papi, il fatto "che scrivere di sé oggi sembri più onesto e più «vero» che inventare storie dal nulla ha conseguenze sul nostro modo di concepire noi stessi e rivela qualcosa di quello che stiamo diventando".
Alla base di tale tendenza vi sono anche preoccupazioni reali: ad esempio riguardo l'appropriazione culturale, troppo a lungo praticata con disinvoltura, o sulla tendenza alla, diciamo così, impunità narrativa di alcuni autori (che scrivono senza un minimo di ricerca, dando vita a rappresentazioni caricaturali). In chiave negativa, tale consapevolezza è dunque preziosa; ma se intesa in chiave prescrittiva diventa un criterio limitante e moralistico — e tradisce una visione superficiale della forma-romanzo.
Senza andare troppo indietro nel tempo, basta dare uno sguardo alla storia moderna e contemporanea: da Rabelais a Stendhal, da Cervantes a Woolf, da George Eliot a Kafka, calarsi in panni altrui è la normale attività del romanziere e non richiede giustificazione alcuna. Nessuno domanderebbe come Flaubert abbia osato scrivere di una donna e Woolf di un uomo; o perché Tolstoj si sia arrogato il diritto di raccontare battaglie cui non aveva partecipato. Certo le sensibilità cambiano a seconda delle epoche, e la nostra epoca ha una sensibilità particolare e giustificata per l'inviolabilità dell'esperienza altrui. L'importante è che ciò non confonda il piano politico con quello artistico, e non paralizzi la specificità della finzione.
Aggiungo che non ho nulla contro il vissuto autobiografico — sarebbe assurdo: ogni materia è buona se la si sa trattare — ma non capisco come possa in quanto tale assurgere a giustificazione estetica. Il fatto di aver provato qualcosa non certifica la capacità di restituirla in forma narrativamente compiuta e interessante.
In effetti "Scrivi di ciò che conosci" è uno dei consigli più pericolosi che si possano offrire a un esordiente, perché è tanto conciso da poter essere facilmente frainteso. Cosa conosco davvero?, si ragiona. Me stesso: e dunque, di me stesso scriverò. Ma già l'equivalenza tra biografia e comprensione della medesima è ingannevole: Proust — che il luogo comune condanna a scrittore confessionale — era uno dei critici più tenaci di quest'idea. La Recherche è una rielaborazione di eventi che possono o non possono essere accaduti all'autore, ma che trovano adempimento e verità soltanto sulla pagina. La quantità di stesure diverse che Proust dedicava a ogni volume, insieme a un lavoro rivoluzionario sullo stile, dovrebbe parlare da sé; così come l'ambizione a trascendere il primo sguardo ingenuo sull'esperienza e raggiungere invece "leggi universali". L'estasi della madeleine davanti alla quale molti si fermano è solo il primo passo di un faticoso apprendistato all'arte di narrare: aver vissuto a Illiers non basta a trasformarla in quel luogo magico, sottratto alla corruzione del tempo, che è Combray.
Tornando al punto, si potrebbe replicare che calarsi in altri panni è comunque un atto di presunzione e rapina narrativa. Per quanto ci si sforzi, non è possibile ricostruire davvero una vita diversa dalla nostra, e più la distanza aumenta — in termini di provenienza geografica, classe, genere, epoca storica — più tale impossibilità si rende manifesta. Questo è senz'altro un problema molto più interessante delle volatili mode editoriali, e va affrontato con chiarezza.
Tuttavia nessun lettore di romanzi, credo, si attende la ricostruzione di una presunta "esperienza esatta e comune" di una fetta di persone; tanto più che la narrativa si occupa di singole esistenze immaginarie e non di categorie sociologiche. Pur appartenendo a una classe, un tempo e un luogo, Clarissa Dalloway non sta per tutte le donne inglesi e benestanti degli anni Venti — è Clarissa Dalloway. Un lettore di romanzi pretende giustamente credibilità storica e sociale, ma non solo questo: leggiamo perché desideriamo coinvolgimento, piacere, conoscenza, e non perché animati da spirito poliziesco.
(O almeno, così dovrebbe essere. Qualche volta mi è capitato di incontrare lettori scontenti perché nei miei romanzi avevo rappresentato un certo periodo da loro vissuto in maniera diversa dai loro ricordi o dalla loro ideologia. Quasi ci fosse solo un'unica versione dei fatti, o quasi avessi scritto un romanzo per dire la mia su un'epoca: anche questa irritabilità è sintomatica).
Infine, il veto di raccontare la diversità ci consegna al solipsismo: magnifica notizia per chi ha una concezione molto alta di sé. Durante un'intervista, alla domanda "Perché è così difficile avere delle idee buone per un romanzo?", Bernard Malamud rispose fra l'altro che lo scrittore "potrebbe non amare nessuno tranne se stesso". È un rischio, in effetti, e mi pare che il veto dimentichi tutto ciò di cui si occupa davvero un romanziere nella sua pratica quotidiana: la lingua, la struttura, la creazione di personaggi, il punto di vista, le tecniche di alterazione temporale e così via. Seguendo il veto ogni aspetto formale è degradato a secondario; più importante è che chi scrive abbia esperito quel che racconta, e la sua versione sia dunque — diciamo così — "garantita" e inattaccabile. L'autore, di cui negli anni Sessanta Roland Barthes aveva decretato la morte, ora è risorto e può imporsi sul testo — come già notava Papi.
In nome del testo, credo dunque sia utile ribadire la libertà basilare della finzione; non fosse altro che per dissipare alcuni fraintendimenti.
Nessuno meglio di Marguerite Yourcenar ha spiegato come poté calarsi in panni tanto distanti da lei — un imperatore romano — scrivendo le Memorie di Adriano: "Un piede nell'erudizione, l'altro nella magia; o più esattamente, e senza metafora, in quella magia simpatica che consiste nel trasferirsi con il pensiero nell'interiorità d'un altro".
Tale nozione non ha nulla di arcano. È anzi un aspetto comune della vita quotidiana: interagendo con gli altri tentiamo — a volte sbagliando, certo — di proiettarci fuori di noi; senza tale capacità, è difficile anche praticare una morale. Ed è proprio su questo piano che lavora uno scrittore. Negarlo significa perdere moltissimo, i testi più letterari tanto quanto la narrativa di genere ("Come hai osato parlare di un detective, tu che non fai il detective?"), e anche un modo di guardare al mondo che amplia e nutre il nostro immaginario.
In Pastorale americana di Roth, Nathan Zuckerman si propone di comprendere chi sia davvero lo Svedese, idolo della sua infanzia: ma presto capisce che la figura ricavata indagando — così come la figura che ci facciamo di noi stessi — è inquinata da molteplici distorsioni. È inattingibile. Allora la soluzione è una sola: "se volessi saperne di più", scrive, "dovrei inventare". Grazie alla finzione possiamo comprendere meglio quel che ci circonda: è paradossale solo per chi non ha mai provato l'immedesimazione e il rapimento che ci offrono i romanzi, e che non discendono logicamente dal vissuto — per cui questa società ha una riverenza quasi sacra — bensì dall'invenzione e dalla forma.
Naturalmente, ed è il punto cruciale, a tanta libertà narrativa corrisponde tanta responsabilità. Perché il rischio di cadere in rappresentazioni banalizzanti è sempre presente; e ad esse, spesso, si somma l'offesa del proprio privilegio narrativo: ad esempio ricchi che scrivono di poveri come se la povertà fosse un'astrazione e bastassero due dettagli per evocarla. Da una simile noncuranza sono venuti tanti pessimi romanzi (e tanti pessimi commenti): un discorso sociologicamente accorto non dovrebbe mai dimenticarlo.
Ma proprio qui ci soccorre l'erudizione, impedendo di buttare il bambino con l'acqua sporca. Di nuovo, basta sfogliare i Taccuini di appunti delle Memorie di Adriano per rendersi conto di quanto Yourcenar prendesse sul serio la responsabilità di cui sopra. La sua acribia, la sua dedizione erano ammirevoli: e non poteva essere altrimenti, perché il diritto di immaginare vite diverse si paga con un rigore assoluto riguardo i contesti in cui tali vite si sono svolte. Non si tratta soltanto di studio e ricerca, ma anche di un esercizio adeguato dell'empatia: e il fatto che sia rivolta a personaggi finzionali non la rende meno degna.
È anche grazie a questa tradizione che il nostro immaginario è più composito e vitale. Nel suo saggio sulla Missione dello scrittore — era il 1976 — Elias Canetti scrisse:
Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all'atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente. La loro brama profonda di vivere le esperienze degli altri non dovrebbe mai essere orientata dalle finalità che costituiscono la nostra vita normale e per così dire ufficiale, essa dovrebbe essere completamente esente dall'intento di ottenere successi o riconoscimenti, dovrebbe essere una passione a sé stante, la passione appunto della metamorfosi.
Tale enfasi oggi può apparire fuori luogo o persino ridicola: è diventato fin troppo facile annegare ogni ideale nel cinismo, scambiando la dedizione per retorica. Eppure, chi ama davvero la forma del romanzo dovrebbe rivendicare a gran forza il diritto alla metamorfosi — con tutti i doveri che questo implica.
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