Tra le pagine di DeLillo e oltre / Underworld: sottomondi narrativi
"Bronzini pensava che camminare fosse un'arte".
È l'incipit della sesta parte del capolavoro di Don DeLillo, Underworld, dal titolo Composizione in grigio e nero, ambientata nel Bronx fra il 1951 e il 1952. Arthur Bronzini è stato il professore di scienze del protagonista, Nick Shay, e in questa meravigliosa ouverture passeggia a occhi bene aperti nel suo quartiere; ed ecco rovesciarsi sulla pagina una fenomenale ricchezza di dettagli, una vivacità da tela fiamminga: pescivendoli, bambini che giocano, lavoratori alla giornata, macellai, edicole, pasticcerie, perdigiorno — tutto splende di un'intimità che di rado si avverte nelle grandiose, ma sorvegliatissime, settecento pagine precedenti.
Da questi brani — più usandoli come traccia di partenza che come materiale d'analisi approfondita — proverò a sviluppare alcune riflessioni in maniera volutamente un po' rapsodica, bighellonando come Bronzini e lanciandomi da una connessione all'altra. Con questo, in ogni modo, cerco di essere fedele a uno dei pilastri concettuali del romanzo: "Tutto è collegato, alla fine" è una frase posta a mo' di sigillo in uno degli ultimi paragrafi; e Underworld stesso è un inno al collegamento, agli echi che lanciano le storie, alle sorprendenti coincidenze che si ritrovano a decenni di distanza. Basti pensare a come l'intera trama viene costruita, o meglio aggregata, attorno alla ricerca di un oggetto storico quale la palla da baseball colpita da Bobby Thomson nella storica partita fra Giants e Dodgers del 1951 — la prima trasmessa in televisione, fra l'altro.
Nell'articolo The Power of History, pubblicato sul New York Times, DeLillo racconta che dopo aver letto dell'anniversario della partita mentre faceva colazione — e dopo essersene scordato — andò in biblioteca alla ricerca di "una connessione inaspettata". E la trovò: lo stesso giorno del match ci fu un'esplosione nucleare dei russi. Tutto è collegato: guerra fredda e sport, minaccia atomica globale e piccoli destini individuali. Non sorprende allora che nel romanzo la parola underworld agisca da moltiplicatore semantico, assumendo vari ruoli e legando realtà molto diverse fra loro: ad esempio "il Muro", un luogo del Bronx dominato dai graffitari; o i movimenti di guerriglia underground e le manovre invisibili dell'FBI e dello Stato americano; o il sottobosco criminale della città; o naturalmente lo sterminato accumulo di rifiuti, tema portante del libro dall'inizio alla fine.
Da adulto Nick Shay svolge proprio un ruolo manageriale in questo settore; e un teorico da lui incontrato, Detweiler, ritiene che la spazzatura si sia sviluppata per prima "spingendo la gente a costruire una civiltà per reazione, per autodifesa". Ma per quanto cerchiamo di migliorare e codificare i nostri riti civili, la spazzatura non fa altro che aumentare; sta lì, è nascosta e ogni tanto appare in immagini inquietanti e terribili; ma noi non vogliamo saperne nulla. È il nostro segreto. C'è qualcosa sotto, come si suol dire.
Ma torniamo alla sesta parte di Underworld: ha come accennavo qualcosa di peculiare rispetto al resto, dal punto di vista dello stile e della temperatura emotiva. Nel già citato articolo The Power of History, DeLillo insiste sul "piacere furtivo" di rievocare le parole semi-dialettali del Bronx italiano; e in una conversazione con Gerald Howard per Hungry Mind Review spiega: "gli episodi del Bronx nella sesta parte sono stati scritti via un senso di conoscenza intima. Una cosa che ho scoperto dopo aver finito di scrivere il libro, mentre stavo leggendo le bozze, è che gran parte del libro è quasi satura di parole composte, parole con trattino, molte delle quali ho inventato o connesso. Nella sesta parte, la lingua è improvvisamente un po' diversa. È un po' più semplice. È più viscerale".
Troviamo espressioni simili in altre interviste dell'autore, ad esempio per la testata danese Weekendavisen: "quel capitolo in particolare è stato facile da scrivere rispetto al resto del romanzo. […] ho scritto queste pagine con un sentimento di sicurezza e autorità che vorrei avere sempre quando scrivo. È una sensazione rara e meravigliosa".
Vero; e sono anche le pagine, per inciso, che amo di più: proprio per questa venatura calda, per il loro lirismo asciutto e nervoso, per il senso di prossimità e libertà che vi si respira, specie nelle splendide scene di paesaggio urbano. Ogni riga dà una sorta di acuto godimento fisico: la calma potenza espressiva di DeLillo si tinge ora di una luce crepuscolare, talvolta raddolcita, talvolta rabbiosa e scattante come il giovane Nick Shay.
Eccolo comparire, a proposito, dopo la camminata del professor Bronzini, nella versione di Delfina Vezzoli:
Il ragazzo accese il fiammifero con una mano sola. Aveva imparato a farlo appena aveva cominciato a fumare, un anno prima, anche se ormai gli sembrava un secolo, che fumava Old Golds. Isolava il fiammifero con la bustina dei minerva per sfregarlo sulla striscetta scura sottostante guidando la capocchia con il pollice. Poi portò il fiammifero acceso alla sigaretta, con la mano a coppa intorno alla bustina. Accese, spense la fiamma scuotendo la mano e si concesse l'uso dell'altra per staccare il fiammifero spento dalla bustina e spedirlo all'inferno dei fiammiferi. Bisogna ricorrere a questi inutili giochetti per far colpo in strada.
Siamo sempre nell'underworld del Bronx italiano: e di colpo tutte le implicazioni filosofiche e sociali del libro sembrano farsi da parte; la vita viene messa in scena nuda, così com'è. Su questi marciapiedi Nick Shay compie la propria iniziazione fra amici, famiglia e conoscenti, sotto l'ombra del padre assente che lo tormenta e di cui cerca di ricostruire la storia: ci sono spezzoni di dialoghi adolescenziali, insulti in italiano, allusioni, tutto il complesso rituale di vivere la strada, giornate buttate al biliardo, la brutalità del lavoro fisico, i piccoli malavitosi, i bambini, la scoperta del corpo femminile, lo spettro della violenza e della povertà.
Questo sottomondo ne contiene un altro, chiamato "giù nei cortili": "Edifici addossati gli uni agli altri, fili del bucato, luci sbilenche, ciuffi di erbacce" — e passaggi sotterranei e nicchie puzzolenti. In uno di questi seminterrati si fa tranquillamente di eroina George il Cameriere, George Manza, un uomo con cui Nick gioca ogni tanto a briscola. È lui a trovargli un lavoro più regolare, è lui a dargli "una lezione su cose serie", ed è lui a suggerirgli che la mafia locale — la malavita — sta "sotto la superficie delle cose normali. E organizzata in modo da avere addirittura più senso se capisci cosa voglio dire"; ed è ancora lui a indicargli un mafioso che gli racconterà qualcosa sul padre.
Infine, è sempre George Manza che Nick uccide, "giù nei cortili": in quel seminterrato calmo e umido Nick prova il fucile dell'amico per poi sparargli senza alcun motivo. E quando i poliziotti lo portano via, i ragazzi del vicinato lo guardano "attenti e seri, pensando che questa era una specie di storia, e stava accadendo lì, nelle loro strade remote e ordinarie". Tutto è connesso, perché da queste strade remote, da tale angusto sottomondo, parte la vera vicenda di Nick, il suo percorso di caduta e ascesa, che lo porterà a stringere fra le mani l'agognata palla da baseball attorno a cui si sono annodati così tanti destini. Ma alla fine del percorso i suoi pensieri non sono rivolti a quanto ottenuto; di fatto, pensa a tutt'altro.
Ci torneremo: intanto sarà bene aprire una parentesi. Il capolavoro di DeLillo è difficile da localizzare negli scaffali del supermercato critico: da un lato è considerato una vetta del postmodernismo; dall'altro ha indubbiamente un aspetto classico: da un lato raccoglie scampoli di citazioni pop, insiste sul tema del consumo e della dissoluzione, accumula sequenze narrative in apparenza scisse che rifiutano l'intreccio nel senso tradizionale; dall'altro è scritto in un linguaggio marmoreo, possente ed esatto, una vera letizia in se stessa, ma che non indulge mai nella gratuità fine a se stessa. Del resto alla fine dei conti "tutto è connesso": per quanto in apparenza frammentario, il libro non risulta essere una collezione di brani separati ma una narrazione organica, pervasa da una logica strutturale rigorosissima.
Come ogni capolavoro, è dunque difficile da imbrigliare; è qualcosa che va oltre, apre una soglia. Ma c'è un aspetto di classicità in Underworld sul quale vorrei riflettere in particolare, e che si avverte fin dal titolo: la connessione tra il mondo di superficie e quello sotterraneo. Parlo di classicità narrativa in senso stretto, perché il romanzo ottocentesco attinge a piene mani dalle buie interiora degli spazi urbani, in particolar modo — a volte con risultati artistici notevoli, e a volte con effettacci — dal sottobosco criminale, appunto underworld in inglese.
Basti pensare a un libro di enorme successo come I misteri di Parigi di Eugène Sue, al centro del quale si trovano proprio i bassifondi parigini: sulla scorta anche della sua influenza il tema risuona in Hugo, in Balzac, in Dickens; in Nerval, Nadar, Zola e così via. O consideriamo quelli che Walter Benjamin definì "elementi ctonici" nella Parigi di Baudelaire — i cui fiori del male non trovano concime tanto nel peccato, quanto nella crudeltà, nella povertà e nel disagio della metropoli moderna. E naturalmente non possiamo dimenticare Dostoevskij, che con le Memorie del sottosuolo concede una dignità letteraria a questo luogo altro, ribellandosi al contempo contro la visione cartesiana del mondo. Nelle parole veementi di Šestov: "Di fatto, se mai fu scritta una Critica della ragion pura, essa è da ricercarsi proprio nelle Memorie del sottosuolo e nei grandi romanzi che per intero ne sono derivati".
David Pike, nel suo saggio Metropolis on the Styx, insiste nel definire il sotterraneo come un'immagine dominante della modernità fin dal tardo Settecento: "un luogo di crisi, di fascino, e di verità nascosta, uno spazio in qualche modo più reale ma anche più pericoloso e alieno del normale mondo di sopra". È da questo periodo che visione materiale e morale del sottomondo si intersecano: gli impulsi che esso raccoglie, come i vari impulsi notturni e oscuri, sono pericolosi e non trovano cittadinanza nel "mondo di sopra". Da qui anche il fascino verso la figura del diavolo e la diffusione enorme degli spettacoli di diavolerie, non privi di aspetti comici e grotteschi. Durante l'Ottocento, dice Lefebvre, Satana era il signore dei bassifondi urbani, del sottomondo del crimine. A ciò si legava una sorta di critica primordiale, o quantomeno di satira, del nascente mondo capitalistico e della merce (pensiamo alle esposizioni universali): tema che troverà in Underworld, più di cento anni dopo, il massimo compimento.
Un altro grande romanzo di DeLillo, Libra, si apre con la descrizione di Lee Harvey Oswald in viaggio per la metropolitana di New York, "fino ai confini della città"; e si chiude con questo squarcio sotterraneo: "Non gli sembrava strano che la metropolitana contenesse realtà più interessanti che non la famosa città in superficie. Sopra, nel pomeriggio pieno, non c'era niente di importante che non potesse trovare in forma più pura in quelle gallerie sotto le strade".
Libra è la storia dell'assassino di Kennedy, in un certo senso la storia della sua formazione a partire dal Bronx in cui abitò con la madre. E il libro è dedicato "ai ragazzi del 607: Tony, Dick e Ron"; il che sembra richiamare il numero civico 607 della Composizione in grigio e nero — anch'essa, come sappiamo, ambientata nel Bronx (che a sua volta fu il teatro formativo del giovane DeLillo).
Ora, Bronx è una parola che nel tempo è diventata un trito stereotipo per "zona malfamata"; e in Underworld stesso c'è una critica a questo impoverimento del linguaggio: una suora, suor Gracie, se la prende con un autobus che annuncia il tour nel "South Bronx Surreal", protestando contro i turisti europei: "Non è surreale. È reale, è reale. Surreale sarà il vostro autobus. Surreali sarete voi".
Già: è reale, è reale. E il profondo realismo stradaiolo di Composizione in grigio e nero ci invita anche all'ammissione — narrativa ed esistenziale — che il nostro mondo si regge su un altro mondo sconosciuto, che talvolta fa da spauracchio e talvolta da fondamenta. Lavoratori sottopagati che portano il cibo nelle nostre tavole; mendicanti e senzatetto e prostitute; sans-papier, ladri, spacciatori, e così via.
Abbiamo molte storie riguardo queste persone, ma vengono per lo più raccontate in maniera pacificata, borghese o sensazionalistica: come se ogni tanto si rompesse il velo che separa il mondo dal sottomondo, e da lì sbucassero persone ed eventi che osserviamo con paura e forse un po' di fascino, ma da cui ci ritraiamo subito. E penso che una delle mancanze maggiori di certi ambienti intellettuali sia proprio questa difficoltà a rapportarsi materialmente con tale universo, limitandosi a descriverlo per sommi capi, in modo paternalistico. Non si tratta sempre di indifferenza o pregiudizio; a volte è anche un coscienzioso rifiuto della violenza che — inutile negarlo — attraversa queste vite e questi luoghi. Ma non è una ragione sufficiente.
Nel suo reportage I poveri, pubblicato in italiano l'anno scorso, William Vollmann cerca quantomeno di interrogarsi su questo sguardo, mentre interroga decine e decine di persone in enormi difficoltà sociali: affronta a modo suo il problema della rappresentazione della miseria — la realtà resa come surrealtà, per tornare alla critica di suor Gracie.
Ma non c'è nulla di falso o distante o surreale nel mondo sotterraneo di DeLillo. Anzi, Underworld ci mostra perfettamente come una certa sovraesposizione alla violenza, come il racconto del male o della povertà o dell'emarginazione quasi fossero merci ci conduca a un nuovo conformismo, e lasci che i nostri organi morali deperiscano lentamente. Non perché il romanzo abbia compiti di educazione etica; semplicemente perché il realismo è un'arte difficile, che troppo spesso si dà per scontata, e che troppo spesso decade a mera copia di ciò che ci circonda.
Io credo si debba prendere molto sul serio il bando platonico dell'immagine: qualsiasi scrittore, in ogni caso, dovrebbe farlo — come monito per non indulgere in rappresentazioni scremate e retoriche. Per non trasformare la realtà in surrealtà senza volerlo.
La lingua di DeLillo e il suo altissimo rigore formale riscattano invece un certo mondo ben definito, prendendo da esso spunto ma plasmandolo secondo le leggi uniche della letteratura; e inserendosi così in una tradizione di classica e vigorosa fiducia nel romanzo. Ma a differenza di altri, egli non vive sulle spalle della tradizione che l'ha preceduto: anzi la rinnova, la vivifica — correndo dei rischi.
Su questo dirò altro più avanti; ora torniamo per un istante al titolo. Nel romanzo si assiste alla visione di un presunto film di Ejzenštejn dal titolo Unterwelt, tedesco per Underworld: tuttavia DeLillo ha spiegato a Publishers Weekly la nascita del titolo legandolo ad altre suggestioni: innanzitutto il plutonio sepolto sottoterra (connesso anche al terrore per la bomba atomica, con cui inizia il libro).
Poniamo venga distrutta ogni cosa in superficie: che resterebbe? L'underworld: i rifiuti, le scorie abbandonate, e magari gli abitanti dell'inquietante cosmo sotterraneo: "l'immondizia è la gemella del diavolo", dice Viktor, l'imprenditore sovietico incontrato da Nick Shay alla fine del libro, e prosegue spiegando che essa è "la storia segreta, la storia che sta sotto, il modo in cui l'archeologo dissotterra la storia delle culture precedenti, ogni mucchio d'ossa e strumento rotto, letteralmente dissotterrato"; ha una stretta relazione con le armi, perché "distruggiamo scorie nucleari contaminate per mezzo di esplosioni nucleari". E Nick e la moglie "vedono scorie in tutti gli oggetti, persino in quelli ancora invenduti, scintillanti sugli scaffali dei negozi". Aggiungo che tale incubo di distruzione collettiva oggi non è affatto venuto meno; è solo divenuto più incontrollabile, più drammatico.
Nella stessa intervista per Publishers Weekly, DeLillo suggerisce quindi un altro collegamento: plutonio e Plutone, il dio degli inferi. Del resto la morte è un tema ben presente in Underworld, fin dall'inizio — il Trionfo della morte di Bruegel che compare fra le mani di Hoover allo Yankee Stadium, in forma esso stesso di rifiuto: è un pezzo di rivista stracciato che viene gettato dagli spalti insieme a migliaia d'altri. La spazzatura è il destino degli oggetti inanimati; la morte è il destino degli esseri viventi, e cosa ci attende dopo la morte? Il nulla, oppure l'aldilà — l'underworld, l'oltretomba sotterraneo degli antichi.
Ma si può tentare di combattere tale processo di disfacimento, quantomeno per non perdere la coscienza di sé e per entrare nella morte a occhi aperti, come vuole l'Adriano di Marguerite Yourcenar: ancora una volta attraverso la letteratura, lo stile. In un'intervista per il Los Angeles Times, DeLillo osservò che c'è qualcosa nel linguaggio in se stesso che si oppone alla Storia — che è "contrario al tipo di morte e distruzione che tende a uniformare la storia in qualsiasi momento". Composizione in grigio e nero, fra i tanti esempi possibili di questo meraviglioso romanzo, ce ne offre una dimostrazione patente.
Diavolo, sottomondo, morte, potere redentore o comunque metamorfico della parola, rapporto dialettico fra sopra e sotto, tema della città, riflessione destinale: non c'è poi molta distanza fra tutto ciò e l'Inferno dantesco. So che quest'anno gli omaggi a Dante si sprecano, visto il settecentenario della morte del poeta; e io non sono un dantista. Ma quest'ultimo collegamento è davvero irresistibile. Mi limiterò allora a considerare un solo punto, molto celebre, di questa eccelsa indagine del sotterraneo.
Olof Lagercrantz, che in Scrivere come Dio legge la Commedia con stimolante libertà interpretativa, osserva:
Dante, nei canti dell'Inferno, dà voce a una sofferenza che non ha confini. E offre l'unico rimedio che esista contro il dolore insensato — parola, consapevolezza, ricordo.
[…]
Seguire Dante non significa perciò in primo luogo trovare una risposta a delle domande. Significa invece venire iscritti a una grande università del sentimento, dove in ogni istante ci vien chiesto di ampliare la nostra capacità di coscienza e al tempo stesso ci rendiamo conto della nostra inadeguatezza e desideriamo che venga il giorno in cui potremo comprendere di più e ci potremo sentire più vivi e più forti.
Scendiamo allora nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, tra i consiglieri fraudolenti; in mezzo alla tenebra più fitta le anime dei dannati bruciano avvolte in un fuoco eterno. Abbiamo studiato tutti quei versi: "Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando": così compare Ulisse: e nel suo ricordo dell'impresa, come sappiamo, invita i compagni a osare perché "fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza".
Lagercrantz osserva che Ulisse "è il personaggio più pericoloso, e dovrebbe essere lui e non Lucifero il signore dell'inferno", poiché per egli "il sapere e la libera indagine sono più importanti di Dio stesso". Ma come accadde con Brunetto Latini, Dante omaggia Ulisse di vera statura umana; e lo fa rischiando, perché la sua pietà poteva essere scambiata per defezione o critica del giudizio divino.
Tuttavia così non è, e sarà meglio essere più cauti di Lagercrantz: Ulisse non sta nel Limbo, non è un pagano illuminato; è prigioniero del basso Inferno, avendo agito per una brama insaziabile e di fatto trascinando i compagni nella sventura — segno che la sua impresa era condotta nell'assenza della Grazia divina. Il celebre discorso ai "frati" è pericoloso proprio perché in apparenza altissimo e ispiratore: usando varie tecniche retoriche, unite alla proverbiale astuzia, Ulisse minimizza i pericoli e manipola chi lo ascolta. Tant'è che la sua pena, la fiamma eterna, è soprattutto un evidente contrappasso alla sua capacità di "infiammare" gli altri.
Dante e Ulisse divergono dunque irrimediabilmente nella maniera di intendere "virtute e canoscenza". Per il poeta coltivarle corrisponde a un'elevazione religiosa e morale: giunge al Paradiso terrestre innanzitutto per volere divino, in uno sforzo continuo di dominare le passioni terrene. Per dirla con Jurij Lotman, egli è un pellegrino mentre Ulisse è un esploratore; e aggiungerei che in questa luce il volto del greco si deforma quasi nel volto di Achab. Perciò una lettura eccessivamente romantica del ventiseiesimo canto è sospetta.
Eppure Dante conosce bene la brama di Ulisse. Come ha scritto Anna Maria Chiavacci Leonardi, "Quell'uomo che parte, pieno di ardore, verso il mare ignoto della conoscenza, conscio della dignità suprema che distingue l'uomo dai bruti, non solo somiglia a Dante, ma è Dante stesso. Ciò non dichiara però la sua innocenza, anzi, secondo la fenomenologia propria della prima cantica, suggerisce il contrario".
Rinunciando alla parte di sé che somiglia a Ulisse, Dante si affida a Dio per saziare l'ardore che lo abita: sceglie di farsi condurre, di farsi aiutare, conscio che l'essere umano da solo non possa salvarsi. Ma la risoluzione è drammatica: ed è impossibile restare indifferenti all'ambiguità che i versi promanano; non lo furono i commentatori antichi, non possiamo certo esserlo noi. Il rischio non si dissolve nel semplice moralismo.
Dunque, pur condannandolo, Dante vede in Ulisse qualcosa di irriducibile alla pena che sconta: ne subisce il fascino; ne riscatta almeno in parte l'esperienza. "Se così ci piace", conclude Lagercrantz, "possiamo vedere la fiamma che lo avvolge come un simbolo della sua gloria, della sua brama per una conoscenza sempre più vasta. È una fiamma che lo spinge in avanti, che non gli dà mai requie, che brucia la sua anima giorno e notte. Essa è l'essenza stessa dell'uomo tenace e indagatore, una maledizione che lo segue oltre le soglie della morte e che è nel contempo una benedizione".
Dante, il romanzo ottocentesco, DeLillo: modi diversi per scrutare — o inventare — il mondo sotterraneo che regge e influenza il nostro; alla ricerca di sempre nuove e diverse connessioni. E se c'è una lezione di metodo che possiamo trarre da questi altissimi esempi, è che occorre calarsi nel sottomondo con l'onestà e la fame di verità dei giorni migliori — senza certezze, rischiando, e pensando che un gesto tanto semplice quale il camminare possa diventare un'arte, come crede il professor Bronzini incontrato all'inizio di questo intervento.
So che tutto ciò oggi può sembrare retorico; ma o scegliamo questa via o ci condanniamo alla ripetizione di forme vacue: scriviamo perché abbiamo paura o per abitudine, ma abbiamo perso l'incanto e il desiderio; il fuoco della tradizione diventa cenere fredda. Al più ricordiamo un passato più o meno lontano identificabile serenamente come il paradiso, e così ci consoliamo, dormendo sonni tranquilli all'inferno.
Ma alla fine di Underworld, quando Nick Shay è diventato un alto dirigente e vola a Zurigo e Lisbona e i figli stanno bene e lui e la moglie vivono tranquilli, in questa visione museale del proprio presente, in questa perfezione borghese, egli ripensa non tanto all'innocenza perduta — finalmente ci torniamo, ed è lo stesso DeLillo a chiarirlo — quanto alla colpa perduta. "Ho nostalgia dei giorni del disordine", afferma Nick: "Li rivoglio, i giorni in cui ero giovane sulla terra, guizzante nel vivo della pelle, imprudente e reale". Ancora una volta quell'aggettivo, come una firma o un monito: reale. Materiale, presente, un corpo esposto al rischio.
Talvolta ciò che credevamo paradiso, paradiso non è; e talvolta l'inferno può splendere molto più di un presunto cielo. I misteri del disordine e del sottomondo non smettono di investire gli spiriti inquieti, alimentando il loro e il nostro desiderio di virtù, di conoscenza.
(Questa è una versione rivista dell'intervento tenuto il 7 febbraio 2021 per il festival Writers).