Un manifesto femminicidio

11 Novembre 2013

Di recente, in Italia, si è parlato molto di un paio di argomenti che politici di mestiere, media e parecchie aree di movimento hanno voluto mettere in stretta correlazione: femminicidi e pubblicità sessista.

 

Partiamo dal sillogismo non-solo-boldriniano secondo il quale l’immagine del corpo femminile che scorre quotidianamente sotto i nostri occhi – su giornali e riviste, muri cittadini, fiancate di autobus e tram – rappresenterebbe un vero e proprio oltraggio alle donne, nonché un’induzione a fare di loro e del loro corpo reale ciò che agli uomini pare e piace, tipo sottometterle, maltrattarle, umiliarle, seviziarle, su su fino alla loro eliminazione fisica, ormai da noi sbrigativamente detta femminicidio.

 

 

Secondo la vulgata politicamente corretta oggi in vigore nel nostro paese, la pubblicità si sarebbe trasformata insomma da strumento di semplice induzione all’acquisto in strumento di induzione all’offesa e al crimine nei confronti delle donne in carne e ossa.

 

Va da sé che qualsiasi persona di buon senso non può rinunciare a distinguere tra donne reali e loro rappresentazione. Ma stiamo pure sul terreno proposto dalla pur tardiva correttezza politica nostrana e supponiamo che davvero non ci sia soluzione di continuità tra immagine pubblicitaria ‘sessista’ e crimine. Che dunque, nei confronti della suddetta immagine, vada esercitato un controllo implacabile sia dall’alto delle istituzioni pubbliche sia dal basso dei movimenti. Stato e società civile sarebbero dunque, una volta tanto, alleati anche da noi su un terreno ad alto tasso di ecologia sociale.

 

Come non domandarsi, tuttavia, quale sarebbe il fine e quali gli strumenti, per non parlare delle linee-guida, di questa alleanza virtuosa?

 

 

Il fine, se ho ben capito, sarebbe una specie di bonifica del territorio. Si tratterebbe insomma di ripulire il panorama dalle immagini lesive della dignità della donna, lasciando in circolazione solo immagini pubblicitarie neutre o inoffensive, capaci di rivolgersi a consumatori/trici potenziali senza sfiorare nemmeno di sguincio il terreno friabile e torbido del desiderio e delle sue scatenate e scatenanti figurazioni.

 

Idealmente si tratterebbe addirittura di spostare sul proprio terreno i pubblicitari e i marchi per cui lavorano, di convertirli alla logica annuncio pubblicitario = messaggio dalla parte delle donne.

 

Gli strumenti andrebbero da commissioni di vigilanza occhiute e severe a codici deontologici capaci di imbrigliare la spregiudicata fantasia dei pubblicitari, da direttive locali dettate da furori momentanei (e dunque ciechi) a un possibile testo di legge capace di regolamentare una materia dai contorni – ammettiamolo pure – non proprio nitidi. Un apparato censorio o auto-censorio in piena regola, volto alla tutela di chi da parte di chi?

 

Le linee-guida, punto estremamente dolente di questo quadro, sono quanto di più insidioso si possa immaginare. Chi giudica rischia infatti di fare più danni – quantomeno semantici – del giudicato.
Si veda, tanto per fare un esempio, l’insipienza con cui, il 28 giugno scorso, la pur benintenzionata Giunta del Comune di Milano approva la delibera n. 1288 (vedi comunicato stampa), volta a contrastare la diffusione di pubblicità irrispettose nei confronti delle donne. Secondo gli estensori, sono da mettere al bando “le immagini che rappresentano o incitano atti di violenza fisica o morale; le immagini volgari, indecenti, ripugnanti, devianti da quello che la comunità percepisce come normale”.

 

Senza entrare nel ginepraio politico e culturale suscitato inevitabilmente dall’uso a dir poco leggero di quest’ultimo termine, un aggettivo o categoria dello spirito che interi movimenti hanno messo in crisi da alcuni decenni in tutto il mondo, viene da domandarsi perché mai le donne (in quanto donne?) dovrebbero affidarsi alla tutela del cattolico, maschilista e familistico Stato italiano e delle sue commissioni di vigilanza. Non so perché, ma mi viene in mente una vecchia filastrocca: “Barbablù, Barbablù, da me stessa proteggimi tu”.

 

 

Torniamo dunque all’imperante sillogismo da cui sono partita e guardiamo meglio. Il mondo parallelo della pubblicità, poroso come una spugna, veloce come un levriero, sfuggente come un’anguilla, tutto è meno che nemico dei potenziali consumatori cui si rivolge. Se una pubblicità non piace al pubblico perché nel paese gli umori sono cambiati, la si cestina e se ne inventa un’altra al passo con i tempi. Oggi va la pubblicità ‘consapevole’? Bene, l’annuncio pubblicitario si trasforma in manifesto, in volantino politico, in messaggio edificante.

 

Prendete il mea culpa di alcuni produttori nostrani: che prenda la forma dell’autofustigazione barilliana o imbocchi la via scaltra dei tanti marchi che hanno sottoscritto le campagne “contro la violenza sulle donne” (Yamamay, Carpisa, Coconuda & Co), di che altro si tratta se non di un aggiornamento, di un adeguamento al livello di coscienza che i potenziali consumatori hanno di sé.

 

 

Se per vendere lo stesso abitino, lo stesso rossetto, la stessa automobile è meglio rinunciare ai corpi-oggetto di seduttrici variamente dominanti o dominate e rimpiazzarle con guerriere o vittime stanche di guerra, perché no? Sangue e lacrime, come è noto, si addicono al mercato e, in tempi in cui le banche possono essere etiche e le guerre umanitarie, perché non immaginarsi che Spartaco vesta Prada?

 

    

 

Sul piano della rappresentazione del corpo femminile si assiste tuttavia a uno strano fenomeno: tra le livide e martoriate modelle usate, che so, da Versace, Valentino o Mila Schön un decennio fa e le livide e martoriate modelle di campagne ‘progressiste’ quali “Ferma il bastardo” nell’anno in corso c’è una sorta di sinistra continuità. D’accordo, le prime forse se l’erano cercata, mentre le seconde sono raffigurate come vittime innocenti, ma a noi che effetto fa rifletterci in queste immagini di donne sempre e comunque tutte occhi neri o definitivamente chiusi? Dovrebbero innalzare la coscienza di sé delle donne e magari la loro autostima? O rendere puramente glamour la loro condizione di minorità?

 

 

Il punto dunque non può che essere un altro. In una democrazia ‘avanzata’ come la nostra, immersa fino al collo nelle dinamiche del neoliberismo più sfrenato, non è forse ora di cominciare a porsi un interrogativo più generale e che a farlo siano proprio le donne?

 

Se in regime di libero mercato la pubblicità è indispensabile come il vapore nell’industria tessile di fine Ottocento e se la pubblicità ha come fine supremo quello di scontornare un prodotto dall’altro, di renderlo appetibile, di suscitare in noi (uomini e donne) la pulsione all’acquisto e il desiderio di essere diversi da ciò che oggi siamo, non è il caso di domandarsi se a nuocere siano soltanto le immagini pubblicitarie ‘sessiste’ e ‘discriminatorie’ o più generalmente tutte quelle forme di ‘persuasione’ che spingono a consumi o a sogni che nessuno si può più permettere in chiaro?

 

Per dirla in modo spiccio, non è che per l’ennesima volta, con la scusa di tutelare l’immagine femminile, per ipocrisia, ingenuità o balordaggine il vero problema scompaia dietro a un suo epifenomeno?

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