Dal Libro bianco sull’innovazione sociale

Questo testo è tratto dal Libro bianco sull’innovazione sociale, scritto da Robin Murray, Julie Caulier Grice e Geoff Mulgan. Geoff Mulgan sarà ospite di Meet the Media Guru il 4 Aprile a Milano. Dal dibattito intorno al percorso di cheFare era emersa la volontà di organizzare un incontro con una personalità di riferimento della pratica, della ricerca e della riflessione teorica sull’innovazione sociale. Mulgan è perfetto in questo senso: Chief Executive di NESTA (National Endowment for Science, Technology and the Arts; la Dote Nazionale per la Scienza, la Tecnologia e le Arti), da molti anni facilita la nascita di forme d’innovazione al crocevia tra economia, finanza, cultura e società. Il “Libro bianco” è stato tradotto interamente in italiano da Societing, a cura di Adam Arvidsson e Alex Giordano; se volete leggerlo (riportiamo solo le pagine 3-6) potete scaricarlo gratuitamente a questo link.

 



 

Perché l’innovazione sociale ha cambiato il proprio fulcro nell’ultimo decennio? La ragione principale di questo spostamento è da ricercarsi nel fatto che le strutture esistenti e le politiche in vigore hanno riscontrato la loro incapacità a far fronte ai problemi più scottanti del nostro tempo come il cambiamento climatico, le epidemie mondiali, la sempre maggiore ineguaglianza sociale.

 

I problemi sociali insolubili

 

Sia i classici strumenti utilizzati dalle politiche governative, quanto le soluzioni offerte dal mercato, si sono mostrati altamente inadeguati. Il mercato stesso manca di incentivi e di appropriati modelli per risolvere molte di queste questioni. Inoltre dove il mercato fallisce (per esempio a causa di mercati non competitivi) questo si ripercuote sia sullo stato che sulla società civile. In ogni caso, le politiche attuali e le strutture di governo sembrano tendere a rinforzare i vecchi modelli a discapito dei nuovi, essendo poco inclini ad affrontare la complessità dei problemi che percorrono i vari settori del tessuto sociale globale. Sembra così che alla società civile manchino i capitali, le abilità e le risorse per portare a termine le idee più promettenti.

 

Crescita dei costi

 

Il costo prospettato per occuparsi di queste questioni minaccia di sommergere le finanze pubbliche, e alle volte anche quelle private, si pensi per esempio al cambiamento climatico, o all’assistenza sanitaria negli States. Per fare solo un esempio, se le politiche radicali non riuscissero a contenere l’aumento delle malattie croniche, si prevede che nel Regno Unito il costo dell’assistenza sanitaria salirà dal 9% di GDP al 12,5% in 15 anni e, stando a quanto riferisce il Congressional Budget Office degli Stati Uniti, dal 16 % di GDP nel 2007 al 25% nel 2025, raggiungendo il 37% nel 2050. Resta il fatto che le politiche più efficienti sono quelle preventive e questo vale sia per il cambiamento climatico, sia per il controllo dell’inquinamento, sia per lo smaltimento dei rifiuti, tanto per la questione della povertà che per ogni programma di assistenza sociale. Ma una prevenzione effettiva è da sempre difficile da introdurre nonostante che i suoi benefici siano evidenti, sia in campo economico che in quello sociale.

 

Vecchi paradigmi

 

Come nelle precedenti trasformazioni tecnologiche e sociali, è presente una distinzione tra le strutture e le istituzioni già esistenti e quello che viene effettivamente richiesto dalle condizioni che ad esse fanno da sfondo. E ciò è lampante sia per l’economia privata che per quella pubblica. I nuovi paradigmi tendono a prosperare e a diffondersi se e solo se le istituzioni sono a loro favorevoli e la pregnanza dei paradigmi passati si indebolisce. Così, per esempio, c’è più innovazione nel self-managment delle malattie e della salute pubblica che dentro gli ospedali, più innovazione nel riciclo e nell’energia sostenibile che attorno alla produzione di energia su vasta scala, più innovazione nella pubblica partecipazione che dentro i parlamenti.

 

Un’economia sociale emergente

 

Molte di queste innovazioni puntano verso un nuovo tipo di economia che combina alcuni elementi passati con altri innovativi. La definiamo come economia sociale perché presenta delle caratteristiche molto distanti da economie basate sulla produzione e sul consumo di beni. Le sue caratteristiche basilari includono: il forte uso di networks ramificati per sostenere e gestire le relazioni, aiutati da ogni forma possibile di comunicazione dei confini sfuocati tra produzione e consumo; l’enfasi che viene data alla collaborazione, alla cura e alla manutenzione piuttosto che ad un irresponsabile consumo usa e getta; un forte ruolo dei valori e degli obiettivi.

 

Ciò che dà all’economia sociale la sua caratteristica distintiva può essere rappresentato da due motivazioni, che a volte possono anche apparire contrastanti. Una risiede nell’ambito della tecnologia: la diffusione dei networks, la creazione di infrastrutture globali per l’informazione e l’importanza sempre maggiore dei social networks. La seconda deriva da un ambito strettamente legato alla cultura e ai valori, ovvero la crescente enfasi sulla dimensione umana, sul mettere democraticamente al primo posto gli individui che va a ricadere anche su sistemi e strutture.

Questa economia si è in gran parte formata attorno a dei sistemi distribuiti piuttosto che a strutture centralizzate. Essa si occupa della complessità non attraverso semplificazioni e standardizzazioni imposte dal centro, ma distribuendo la complessità verso i margini, ovvero verso i manager locali, i lavoratori, nonché verso gli stessi consumatori.

 

Da ciò risulta che il ruolo del consumatore è passato da essere passivo a trasformarsi in un soggetto attivo, come non solo portatore ma anche creatore dei suoi stessi diritti. Il commercio, che è stato predetto come la fine del lineare processo del consumo di massa, vuole essere ridefinito come parte di un processo circolare di produzione e riproduzione famigliare. Quello che è stato definito come consumatore si sdoppia così nel produttore domestico (un cuoco, una madre, un assistente, un compratore, un guidatore, un infermiere, un giardiniere, un insegnante o uno studente) con uno sdoppiamento che incarna proprio ciò che ci rende umani. Questa sfera prettamente domestica, che da sempre viene considerata come non appartenente alla sfera economica poiché troppo complessa e ingovernabile, oggi viene essa stessa riconosciuta come necessaria per l’economia, con tutti i bisogni di supporto, di mezzi e di capacità che oggi l’essere produttore comporta.

 

Sia nel mercato che nell’economia di stato, l’emergere di questa ramificazione di networks altamente distribuiti, ha coinciso con il dirigersi del mercato verso l’essere umano, verso la sfera personale ed individuale. Questo fatto ha spinto una forte crescita di interesse verso la qualità delle relazioni (quello che Jim Maxmin e Shoshana Zuboff chiamano support economy), portando vivaci innovazioni concernenti la ‘personalizzazione’ (da nuovi tipi di mentori a nuovi personal accounts), ma anche un nuovo mondo ricco di informazioni e feedback (come l’AMEE che controlla la produzione di carbone in 150 paesi), un crescente interesse verso i percorsi di vita (per esempio dalla prima infanzia fino all’età adulta) e all’assistenza in viaggio (sia che si tratti dell’iter di un paziente attraverso i servizi sanitari che del transito di un passeggero in un aeroporto).

 

Da questa enfasi sull’individuo, segue un interesse sia verso la sua esperienza che verso i risultati formali, nei feedback soggettivi quanto nella metrica quantitativa di fine Ventesimo Secolo (con innovazioni quali gli Expert Patients Programmes o i Patient Opinion), dirigendo le politiche pubbliche anche verso ambienti quali la famiglia.

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