Dante Isella, un filologo in rivolta
«Negli ultimi vent’anni, la cartografia del continente Gadda è stata più volte costretta da più o meno prevedibili acquisizioni di nuovi materiali inediti, a ridisegnare larghe zone di territori già minutamente descritti». Era il 2000 e Dante Isella ricorreva a questa metafora geografica per tracciare, con una punta di più che legittima soddisfazione, il bilancio di due decenni di studi gaddiani. L’occhio del filologo, «con azzurra fermezza di occhi di Re di Francia», si posava sulle pagine minuziosamente passate al setaccio di uno dei suoi autori prediletti e davanti vedeva un mondo: la sistematica e paziente attenzione al dettaglio spalancava vedute, come quelle di un generale che alla fine di una buona battaglia combattuta centimetro dopo centimetro si gode sulla cartina distesa sul tavolo il nuovo assetto del territorio.
Filologia e geografia sono sempre andate a braccetto nella storia di Dante Isella. Il libro pubblicato in occasione del centenario (Isella è nato a Varese nel 1922) ne è una testimonianza (Dante Isella. Luoghi e autori di una vita, Publinova edizioni Negri, 25 euro). Le foto di Carlo Meazza perlustrano i territori prediletti dello studioso; i suoi allievi invece ricostruiscono la geografia dei suoi cantieri letterari. Pagine e luoghi rappresentano un binomio che si dipana meravigliosamente, tappa per tappa, nel percorso di Isella, con un esito che non si smentisce mai: più si stringe l’oggetto – riga, parola, oppure toponimo minimo – più si allarga la prospettiva e più ne guadagna la conoscenza. Sono particelle amorose, a cui aveva dedicato tanta cura nella certezza che restituissero infallibilmente il senso di un lavoro.
Isella aveva avuto la rivelazione negli anni cruciali di Friburgo, dove era espatriato nel 1944 e dove aveva avuto l’incontro della provvidenza: quello con Gianfranco Contini, anche lui esule e docente di Filologia romanza in quell’università. A livello anagrafico li separavano solo dieci anni, ma in lui Isella aveva trovato il maestro capace di insegnare gli strumenti della filologia e di trasmettere le ragioni di fondo per guardare alla filologia come arte del disvelamento, che quindi ha che fare pienamente con la vita. Confessava Isella: «È stata veramente la grande frustata, persino per taluno la conversione, nella percezione di aver trovato finalmente la ragione fondata di un’esistenza non indegna». Così ogni giorno si prestava a verbalizzare le lezioni del maestro, autodefinendosi «amanuense di lezioni non dimenticabili».
Gli esiti del lavoro filologico, condotto senza mai deviare dal rigore del metodo, s’innervavano nel tessuto di una storia culturale e civile, vissuta con la convinzione che non fosse storia passata ma storia che agiva ancora nel presente. Si attorniava di una piccola comunità di giovani studiosi, che affettuosamente definiva la pépinière, con i quali condividere questa sua consapevolezza. Se li teneva vicino, li accoglieva a studiare e lavorare nella sua casa di Casciago, «questa quiete meravigliosa di alberi e di laghi dove sto, con il Monte Rosa di fronte alla finestra». Casciago era nel cuore di quello che lui si divertiva a chiamare il “lake district” varesino e prealpino: Monate, Comabbio, Varese e poi il Verbano. «Catinelle azzurre», le aveva definite l’autore da lui più esplorato e amato, Carlo Emilio Gadda. «Catinelle azzurre che si insinuano nel verde intenso di un paesaggio, che sono verdi cupi e non verdi scoloriti»: ancora una volta il dato rimasto incollato alla sua memoria di lettore e di filologo diventava suggerimento per una geografia innamorata.
Isella si muoveva all’interno di una specifica storia culturale e se ne sentiva felicemente figlio. «Realismo e moralità» è il binomio che regola il meglio della letteratura amata da Isella; ed è un binomio che sta anche alla base di un assetto sociale, tutto lombardo, quello guidato da una borghesia intellettuale illuminata, di cui il filologo si sente parte. All’interno di quell’assetto brillano scrittori come Parini, Porta, Manzoni «che partendo da ragioni diverse, eleggono a destinataria della propria opera la comunità etico-economico-culturale di cui si sentono parte», scrive Isella nel libro che più lo rappresenta, I lombardi in rivolta (Einaudi, 1997). «Realismo e moralità: un narrare senza nessuna o scarsa concessione alla pura affabulazione o piuttosto uno scavare nella propria esperienza di vita, un estrarre dalle viscere del reale la luce di un’immagine vittoriosa, di una certezza strappata all’ignoto».
Sezionare e compulsare i testi generati da questa storia era perciò esercizio etico e politico, oltre che necessario per una più profonda e soprattutto esatta comprensione. «Lo strenuo esercizio dello stile è l’equivalente espressivo di un profondo senso del reale», scriveva. E poi ancora: «Nel segno si scarica la tensione di un’intrepida ansia morale». Attraverso la filologia si portavano a chiarezza le coordinate di una visione del mondo.
La Lombardia di Isella è l’esatto opposto di un’enclave. È territorio di sperimentazione, laboratorio in continuo e a volte eccitato fermento; avamposto illuminato di pensiero sulla società e in parallelo sulla letteratura, cantiere sempre aperto di nuove iniziative e imprese culturali. È una Lombardia dove con pignoleria ingegneristica si mette a fuoco l’importanza di una linea espressionistica che segna la storia letteraria della regione. In questo senso è esemplare il grande, inimitabile laboratorio che aveva portato al varo dei cinque volumi azzurri delle Opere di Carlo Emilio Gadda per Garzanti. Un’edizione magistrale, che si compulsa sempre con devozione; lavoro condotto con indefettibile precisione, da una squadra affiatatissima, perché per Isella ogni impresa culturale ha affinità con un’impresa industriale, dove un leader da solo non può nulla. Il cantiere gaddiano si fondava su un principio da filosofia aziendale: per capire un’opera il primo compito è quello di analizzare e allineare ordinatamente tutti i dati, senza sovrastrutture di commenti. Poi, solo poi, ci si si può avventurare nella “produzione” di percorsi critici non peregrini.
A ben vedere, anche questo libro commemorativo pubblicato in occasione del centenario è figlio di quella filosofia che punta sul lavoro di “squadra”: ha una curatela a tre teste (Clelia Martignoni, Felice Milani, Niccolò Reverdini) e raccoglie gli scritti ben organizzati di altri 14 autori.
La Lombardia di Isella è anche territorio linguisticamente non omologato. La partita giocata a difendere non la dignità (che suona come una concessione) ma l’intelligente funzione della letteratura dialettale è una delle partite più appassionate giocate dal grande filologo: «Si dà il caso di una letteratura dialettale di punta, che opera fianco a fianco con la letteratura in lingua, impegnata nei medesimi problemi, spesso impersonata da poeti disposti all’uno e all’altro registro» (sempre da I lombardi in rivolta). Il principe di questa «letteratura dialettale di punta» è ovviamente Carlo Porta: la folgorazione nei suoi confronti era scattata in età precoce, quando Isella era ancora al liceo. «Per un giovane dialettofono come me, introdotto nella conoscenza dell’italiano soltanto sui banchi della scuola elementare, fu una lettura sorprendente, accompagnata dalla meraviglia che la poesia potesse parlare con i suoni e i modi del proprio mondo familiare». Da quella sorpresa sono scaturiti 50 anni di studi portiani, scanditi da grandi successi, come quello di convincere Raffaele Mattioli, il banchiere “umanista” della Banca Commerciale italiana, a sostenere e pubblicare un’edizione di Porta commentata; per le illustrazioni Isella, a sorpresa, aveva proposto Renato Guttuso, conosciuto casualmente nella sua prima vita, quando per un breve periodo aveva lavorato nell’azienda di trasporti del padre. Avrebbe dovuto svuotare la casa che la moglie del pittore aveva ereditato a Velate, ma un giorno Guttuso gli telefonò dicendogli che avevano cambiato idea e che non smobilitavano: quei luoghi avevano conquistato pure lui, metà siciliano e metà romano. E anche a partire da quel comune sentire sarebbe nata la loro grande amicizia.
Guttuso è anche un ponte verso Giovanni Testori, che Isella aveva conosciuto in un frangente tempestoso: nel febbraio 1961 a Milano un procuratore aveva sequestrato L’Arialda, bloccando lo spettacolo andato in scena la regia di Visconti. Testori era finito sotto processo insieme all’editore, Gian Giacomo Feltrinelli, e Isella era stato arruolato dalla difesa come perito linguistico: «Ne risultò che quelle messe sotto accusa erano tutte parole che potevano essere ascoltate da qualunque orecchio, anche il più prude che esistesse». Ovviamente tre anni dopo arrivò l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Testori, per gratitudine, gli aveva regalato un disegno di Giovanni Antonio Pianca, pittore valsesiano del Settecento, che Isella ha sempre custodito nella sua collezione. Da veri “lombardi in rivolta”, nel 1972 Isella e Testori avevano voltato le spalle al Piccolo Teatro di Strehler, per buttarsi nell’avventura del Salone Pier Lombardo, con altri due transfughi, Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah. Nel cartellone della prima stagione insieme all’Ambleto testoriano c’era la lettura delle poesie di Porta scelte da Isella e portate in scena da Parenti. La scrivania del grande filologo era davvero un campo largo…