La pittura di Testori

5 Maggio 2023

Ricordava Giovanni Testori come il primo libro d’arte fosse entrato molto precocemente nella sua vita: nel 1934, appena undicenne, aveva chiesto in regalo a sua mamma il catalogo della mostra di Correggio visitata a Parma quell’anno con la famiglia. Il 12 giugno 1939 un Testori sedicenne scrive a Giovanni Scheiwiller ringraziandolo dei libri ricevuti e chiedendogli una copia di L’immagine di Cézanne, stampato in 200 copie ed esaurito. È del giugno 1941 il suo primo articolo pubblicato su «Via Consolare», dedicato a uno studio preparatorio di Giovanni Segantini per Alpe di maggio (1891). La chiusa del breve intervento suona premonitrice: «Per gli inquieti abbiamo scritte queste righe». Tra 1942 e 1943 i suoi interventi critici su “Pattuglia”, la vivace rivista del Guf di Forlì diretta da Walter Ronchi, poi chiusa da Mussolini, hanno una frequenza e un’impronta militanti. Tra gli artisti che suscitano in lui un interesse particolare c’è Scipione, a cui dedica ben tre interventi. Già in quegli anni irrompe nella parabola del Testori critico la figura chiave di Roberto Longhi: è una recensione a una mostra di Carlo Carrà a Brera pubblicata su “Stile”, la rivista diretta da Gio Ponti, ad attirare l’attenzione del grande storico dell’arte, che aveva chiesto informazioni sull’autore dell’articolo allo stesso Ponti. 

Dal canto suo Testori si dimostra molto aggiornato rispetto agli studi di Longhi. Nella bibliografia della tesi di laurea dedicata al tema della Forma nell’arte moderna, Longhi è ben presente (compreso il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, uscito l’anno prima): questo dimostra come gli interessi di Testori siano da subito trasversali tra arte del passato e arte contemporanea. Infatti ad inizi anni ‘50 si presenta a Longhi inviandogli, grazie all’interessamento dell’amico Vittorio Olcese, un testo «sui Manieristi lombardi della peste – Cerano, Tanzio, Morazzone, Cairo –, nel quale compivo diverse attribuzioni», come racconta nelle Conversazioni con Luca Doninelli. Longhi resta colpito, in particolare per l’esattezza delle attribuzioni. L’incontro con il grande professore avviene durante il cantiere della grande mostra di Caravaggio, al Palazzo Reale di Milano nella primavera del 1951. Ricorda sempre nelle Conversazioni: «Lo vidi per la prima volta alla mostra milanese del Caravaggio. Mi guardò e disse: “Ecco il Testùr” (mi chiamò sempre così). Già da tempo io adoravo Longhi. Anche perché scriveva in modo divino. Come dicevo, l’arte era per lui una questione di vita o di morte. Ne parlava come si parla dell’amato, o dell’amante, del figlio o della figlia, del mangiare».

Longhi stimola Testori a concentrarsi su Francesco Cairo, uno dei “pestanti”, i protagonisti della pittura di stampo borromaico del ‘600 lombardo. Il cantiere del saggio è molto laborioso, come documentato nelle lettere inviate al professore. Alla fine viene pubblicato sul numero di marzo 1952 di “Paragone”, la rivista fondata e diretta da Longhi. La reazione degli altri allievi del professore era stata di sconcerto, per l’approccio molto viscerale di quel testo. «Ricordo di aver letto l’articolo sul Cairo con qualche sospetto e, diciamo, senza capirlo troppo», ha ricordato uno di loro, Enrico Castelnuovo. «Qualche tempo dopo Longhi disse scherzosamente a due di noi, che avevamo pensato che la critica di Testori fosse troppo personalmente viscerale: “Beh vedete che avevo ragione io”. E voleva dire: “Avevo ragione io ad aver capito che personaggio ci fosse dietro quello scritto”». Segno tangibile della fiducia di Longhi nei confronti del giovane critico è la scelta di volerlo al proprio fianco nella mostra milanese successiva a quella di Caravaggio, “I pittori della realtà”, nel 1953.

C’è un fattore collaterale ma molto significativo nel profilo del Testori critico: non ha mai avuto, e neppure cercato, incarichi accademici o direzioni di qualche istituzione museale. Per sua natura ha sempre preferito affiancare l’impegno nello studio con il lavoro di compravendita dei quadri. Alla domanda di Doninelli su quale rapporto intercorresse tra il Testori critico e il Testori mercante, aveva risposto così: «Io non sono tra coloro che demonizzano il mercato. I critici che lo fanno sono, in genere, quelli invischiati nel modo peggiore. In ogni caso, molto spesso il mercante arriva assai prima del critico. Cézanne, tanto per dirne una, fu scoperto da un mercante prima dei critici. Il mercante è uno che, se non vuole andare in rovina, deve intendersi d’arte; mentre per il critico è facoltativo».

Questa sua doppia attività gli aveva attirato l’ostilità di Fernanda Wittgens, allora sovrintendente a Brera. Tra l’altro la «fernandissima», come Testori l’aveva ribattezzata nelle lettere a Longhi, aveva bocciato la mostra del 1953, giudicandola poco attrattiva per il grande pubblico e di interesse locale. Milano era dunque terreno bruciato per lui, visto che era entrato in collisione anche con il mondo cattolico dopo la cancellazione dei suoi affreschi (in quegli anni era anche pittore) nella chiesa di San Carlo al Corso, realizzati nel 1949 con il consenso e la complicità di padre Davide Turoldo. Per questo Testori, anche su consiglio di Longhi, cerca una via di fuga dirottando i suoi studi e la sua attività espositiva sul Piemonte. Viene chiamato da Luciano Codignola, direttore del Centro Culturale Olivetti per avviare un nuovo filone di attività del Centro stesso, «un movimento di interesse per l’arte antica piemontese». Sono gli anni felici da “milanese a Torino”, costellati di mostre, di scoperte, di nuovi innamoramenti. È un lavoro di scavo, dove l’obiettivo scientifico va sempre di pari passo con un intento civile, di diffusione della conoscenza dell’arte del territorio e dei suoi protagonisti. Per questo le mostre nella maggior parte dei casi si spostano su una seconda sede per raggiungere più capillarmente il pubblico. 

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Sono gli anni in cui Testori studia ed espone due artisti destinati a restare come stelle polari del suo firmamento artistico e poetico: sono Gaudenzio Ferrari e Tanzio da Varallo, due genius loci, nati in Valsesia, protagonisti in stagioni diverse del grande cantiere del Sacro Monte di Varallo. A Gaudenzio dedica una mostra dal carattere fondativo per la conoscenza dell’artista nel 1956 a Vercelli. La grandezza di Tanzio, artista sul quale aveva puntato gli occhi per primo Roberto Longhi, viene svelata da un’esposizione a Torino nel 1959. Tra questi due importanti capitoli della parabola del Testori critico s’inserisce un episodio emblematico. Nel 1958 gli viene chiesto di curare un libro sugli affreschi di Giovanni Martino Spanzotti, conservati nella chiesa quattrocentesca di San Bernardino, all’interno degli stabilimenti Olivetti. Ne nasce un vero gioiello editoriale, grazie al progetto grafico di Egidio Bonfante: le immagini, frutto della campagna fotografica di Angelo Rossi, scorrono come in una sequenza cinematografica di cui Testori è l’evidente regista. Ma è soprattutto il suo testo a lasciare un segno profondo come testimoniato dalle parole di un grande storico dell’arte di una generazione successiva, Giovanni Romano: «Su quelle pagine dolcissime credo si siano commossi tutti i più giovani adepti della storia dell’arte. Molti della mia generazione hanno imparato a memoria le parole di Testori, scoprendo in esse che cosa significa l’aderenza critica alla poesia di un grande maestro». Il Testori narratore e il Testori critico vanno a braccetto in questo saggio dal quale, non a caso, Valter Malosti avrebbe ricavato una bellissima versione teatrale, Vado a veder come viene notte nei boschi…, portata in scena nel 2001 proprio sotto la parete affrescata da Spanzotti: sulla scia dei dialoghi “reinventati” da Longhi tra Masaccio e Masolino sui ponteggi della Brancacci (Fatti di Masolino e Masaccio, 1940) Testori immagina che Spanzotti padre, lui pure pittore, interroghi e si stupisca per le novità così umane introdotte dall’arte di quel suo figlio: «Ma sapete anche voi come lavora il mio Martino... Dice che più che disegnare, bisogna colorare e che prima di colorare bisogna guardare, guardar tutto con cura, con amore, anche le cose che nessuno ha mai notato, forse per la semplice ragione che ci cadon sotto gli occhi ogni momento...».

Allo stesso modo quando, a fine anni ‘50, Testori dirotta l’attenzione dei suoi studi sul Sacro Monte di Varallo, le tante scoperte critiche – prima tra tutte quella riguardante la centralità di Gaudenzio Ferrari nella concezione del complesso – sono spesso veicolate con un taglio narrativo e poetico. Ecco un esempio emblematico: «Non è certo far romanzo e, se pur è romanzo, ha qualche probabilità di ricostruire lo svolgimento della vita d’un artista che, nelle sue opere, ha dimostrato sempre d’esser uomo radicato nelle verità della tradizione della sua terra, immaginar Gaudenzio […] girar per il borgo; forse verso sera, deposti gli attrezzi nella Cappella, anno 1507, scendere, poco prima del crepuscolo, lungo il Sesia, quando le ombre cadon giù dalle cime dei monti sul fiume e sulla piana, e guardare il “super parietem” [la montagna su cui stava sorgendo il Sacro Monte, ndr] e immaginarsi, immaginare…». L’esito degli studi su Varallo è un libro anomalo, una monografia in fieri, pubblicato da Feltrinelli in edizione popolare nel 1965, con un titolo destinato a diventare un diffusissimo appellativo per il Sacro Monte: Il gran teatro montano.

In questo suo percorso Testori presidia anche l’arte a lui contemporanea. In particolare segue con un sostegno quasi militante il percorso di Ennio Morlotti, al quale dedica il suo secondo saggio su “Paragone” (1952) e una mostra al Centro culturale Olivetti nel 1956. Ma è dopo il 1965 che i rapporti tra antico e moderno si rovesciano: il Gran teatro montano sancisce la conclusione di una stagione di studi serrati e Testori dedica sempre più energie alla difesa della pittura messa sotto scacco dalle nuove modalità espressive che hanno conquistato un’egemonia mediatica e culturale. Dopo Morlotti diventa Bacon l’artista per lui di riferimento. Nel 1962, in occasione della sua mostra italiana, alla Galleria civica d’arte Moderna di Torino, Luigi Carluccio nel saggio in catalogo sottolineava come «il richiamo più consonante con la sensitività dell’uomo di Bacon dovremmo cercarlo più lontano: in certe immagini fosche d’altre epoche torbide e contrastate. Pensiamo ai dipinti del Cerano e del Cairo». Per Testori è quasi un assist: Cerano e il Cairo sono due artisti da lui amati e studiati protagonisti della stagione borromaica della pittura lombarda. Nel 1966 il primo dei tanti testi dedicati all’artista è in forma di poesia, Suite per Francis Bacon, confermando come Testori, per mettere a fuoco il suo approccio ricorra a tutte le forme letterarie a sua disposizione. Nel 1968, sempre tramite Carluccio, conosce Varlin, il grande artista zurighese rifugiatosi a lavorare nei territori giacomettiani della val Bregaglia: la sua pittura libertaria ispira a Testori alcune delle pagine critiche più folgoranti. 

Nel 1975 Piero Ottone lo chiama a collaborare con il “Corriere della Sera”: l’esordio è con un articolo dedicato a una mostra su Bernardino Luini. Nel 1977 il successore di Ottone, Franco Di Bella, gli assegna l’incarico di curare la pagina d’arte, subentrando al dimissionario Maurizio Calvesi. Il primo intervento è un manifesto programmatico della sua idea di critica d’arte con un radicale ribaltamento rispetto alle posizioni di chi l’aveva preceduto. Testori auspica «una critica d’arte che intenda esser tale» e che quindi chiami «in causa l’intera storia dell’arte contemporanea (accettata, invece, e imposta come e più d’un dogma)» attraverso «una completa e impietosa rimeditazione degli ultimi cento anni dell’arti figurative». Sono giudizi che scatenano una tempesta mediatica. Da parte sua Testori non recede e demolisce tutte le edizioni delle Biennali di quegli anni. Nella sua difesa a spada tratta della pittura a volte però spariglia, come nel caso della recensione della mostra sull’“Altra metà dell’Avanguardia” (1980), un testo che, nonostante le critiche contenute, la curatrice Lea Vergine ricordava anche ad anni di distanza come «bellissimo». Nel suo percorso c’è spazio anche per dei ripensamenti, come nel caso della Transavanguardia e in particolare di Enzo Cucchi. «Buona per i “cucchi”», aveva scritto ironicamente a proposito di “Aperto 80”, la mostra di Bonito Oliva all’interno della Biennale di quell’anno. Nel 1987 avrebbe rivisto completamente le sue riserve scrivendo una serie di presentazioni per l’artista marchigiano, culminate con una vera incoronazione in forma di poesia, Per re Enzo. L’exit però è inevitabilmente all’insegna di Bacon: l’ultimo articolo è una recensione della mostra del grande artista inglese, morto da pochi mesi, a Villa Malpensata a Lugano. È scritta dal catalogo, nella stanza d’ospedale. Suo il titolo, che suona premonitore, “Gli assalti del destino”. 

Con questo testo continuiamo  la breve serie dedicata a Giovanni Testori in occasione del centenario della sua nascita, iniziata il 28 aprile con

Sandro Lombardi, Il mio Testori

 

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