Dopo i pirati

Pubblichiamo qui un estratto dal libro Piracy Effect. Norme, pratiche e casi studio, a cura di Roberto Braga e Giovanni Caruso, edito da Mimesis Edizioni.

 



 

Un pirata può essere definito anche in relazione alle leggi vigenti in materia di proprietà intellettuale, le quali sono sottoposte a inevitabili variazioni nello spazio e nel tempo. Tuttavia, un pirata raramente può essere identificato e additato come pirata tout court: il contributo di Aram Sinnereich evidenzia in modo chiaro questo aspetto insistendo sulla capacità e sulle potenzialità del file-sharing di costruire o consolidare un mercato per la produzione musicali, contribuendo a chiarire ancora una volta che i “pirati” sono i soggetti con una maggiore predisposizione al consumo culturale per vie legali. I cosiddetti “pirati” sembrano mostrare preferenze e consumi culturali piuttosto articolati che trovano una risposta solo attraverso canali illegali. Questo si sposa, ad esempio, con la maggiore visibilità che le produzioni cinematografiche europee riescono ad ottenere grazie al file-sharing rispetto agli spazi risicati offerti dai canali canonici.

Le realtà locali o iper locali grazie all’accesso ai sistemi di file-sharing e di social networking riescono, agendo in aree grigie, a creare economie parallele capaci di generare valore della circolazione gratuita dei prodotti culturali. Ne sono un esempio casi come Nollywood che, grazie a forme di circolazione illegali – prima attraverso supporti fisici e in seguito grazie al Web – è riuscita a dare vita a economie informali in grado di porsi come vettore di sviluppo per l’intero settore e di cresce a prescindere dagli interventi statali.

Anche il Technobrega lavora con una prospettiva simile basata sulla totale indifferenza nei confronti della normativa sul copyright. Nato a metà degli anni Ottanta nelle regioni del nord del Brasile, in particolare nelle periferie di Belém do Parà, il Technobrega è un genere musicale che esiste grazie al lavoro di numerosi DJ che riutilizzano e remixano canzoni pop e melense. L’aspetto centrale di questo fenomeno è il modello di business fondato su una rete di relazioni complesse orchestrate tra numerosi attori: i DJ, capaci di costruire una community solida e fedele; i venditori ambulanti che distribuiscono i CD nelle strade a un prezzo che varia dai tre ai cinque dollari; e infine i Sound System, il vero fulcro del business del Technobrega, vale a dire dei baracconi tecnologicamente all’avanguardia intorno ai quali si sviluppano party di grandi dimensioni: la costruzione di un evento ad hoc, altamente spettacolare, incentrato sul culto della tecnologia e basato su una condivisione dell’esperienza molto radicata nelle dinamiche di consumo musicale, fa sì che il Sound System diventi una vera macchina macina denaro. Il pubblico, infatti, paga per accedere e partecipare ai Sound System (circa 15 dollari) dove il merchandising derivato va a ruba. A chiudere il cerchio arrivano gli sponsor, ovvero investitori esterni che finanziano l’organizzazione e l’implementazione tecnologica dei Sound System e ottengono, come contro partita, una parte dei profitti generati dall’evento. Il Tecnobrega, non a caso, è un’industria multimilionaria basata sulla pirateria, anche se a ben guardare nel fenomeno in questione la pirateria non esiste: siamo in presenza di un accordo esplicito tra le parti; un accordo davvero sui generis che da forma a un ecosistema economico-culturale complesso in cui l’idea di catena del valore.

 

Per una nuova offerta “anti-pirateria”

 

La pratica del download illegale si inscrive in un processo di relazioni profondamente articolate che mettono in gioco la penetrazione della banda larga, la diffusione di servizi alternativi e legali, il budget e il time budget a disposizione degli utenti, nonché i cambiamenti degli stili di consumo. Superare le posizioni antagoniste e spesso improduttive tra industrie culturali e pirati, comporta una ridefinizione radicale delle formule di relazione tra audience e produttori.

I primi suggerimenti per un ripensamento di tale posizioni vengono offerti dai punti del manifesto “Don’t make me steal” un movimento, al momento sostenuto da più di 21.000 firmatari, che propone ai propri soci di sottoscrivere un impegno concreto contro la pirateria. I firmatari del Digital Media Consumption Manifesto si propongono di non ricorrere a pratiche di download illegale al verificarsi di specifiche condizioni. La prospettiva emersa dalle intenzioni dei promotori è che la pirateria sia il risultato di un problema di accessibilità ai contenuti dovuto principalmente alle lacune distributive delle industrie culturali. Le proposte dagli attivisti (ritocco al ribasso dei prezzi, disponibilità di contenuti multilingua, release date internazionali, possibilità di scelta e diritti d’uso) permettono di mettere in luce alcuni aspetti che reputiamo significativi:

• l’incapacità delle industrie culturali di stare al passo con i cambiamenti delle pratiche d’uso: non manca di certo l’intenzione di seguire nuove prospettive distributive, tuttavia ancora non è chiaro se le nuove strade suggerite dal digitale e dalla distribuzione on line siano efficaci, sostenibili e replicabili. Inoltre, i processi di cambiamento, in particolare quelli che riguardano le cosiddette window – le principali cause del ricorso alla pirateria – richiedono ripensamenti profondi di interi comparti;

• in secondo luogo, le economie affettive e del dono, che permettono di pensare a modelli di business basati sulla distribuzione gratuita di contenuti ma sostenuti da mercati laterali, ancora non si presentano come soluzioni solide, piuttosto sembrano effimere e cangianti. Anche in questo caso è difficile identificare modelli durevoli e scalabili;

• infine, la pirateria intesa come paradigma di (nuovi?) modelli partecipativi costringe le industrie culturali a ripensare il ruolo (e le aspettative) di un’audience sempre più brava ad anticipare sul tempo gli apparati farraginosi dei sistemi di produzione e distribuzione. Immaginare forme di collaborazione tra i due poli della catena del valore è sicuramente un esercizio complicato: indesiderati fautori del successo “commerciale” di prodotti mediali (quando non di vere e proprie forme culturali – si pensi al ruolo dei fan nella diffusione della cultura manga in Occidente), i vecchi “consumatori” si vedono al centro di un dibattito che verte ancora tra violazione dei diritti d’autore e sfruttamento del free labor.


Tutto questo per ribadire una volta di più che siamo di fronte a un fenomeno complesso in cui la parzialità di una posizione presa (pro o contro che sia) rischia di raccontare meno della metà della storia. Tuttavia, è proprio in questa difficoltà che abbiamo ravvisato l’opportunità di parlare di pirateria partendo proprio dalle sue mille sfaccettature – filo conduttore dell’intero volume: ci siamo così interrogati sulle reali implicazioni del fenomeno “pirateria” e su come queste stesse implicazioni siano state affrontate, a volte temute, anticipate e arginate da apparati normativi forse troppo attenti alla salvaguardia dei detentori del diritto più che ai consumatori. Gli stessi che ritroviamo nella seconda metà di questo volume intenti a porre rimedio alle inconsistenze di un sistema sospeso tra discorsi globali e realtà locali, chiusura ideale di questo libro ma non del dibattito, che vi invitiamo a tenere vivo e ad approfondire sul sito di Cinergie che raccoglie saggi altrettanto stimolanti, ma che per motivi di spazio non hanno qui trovato posto.

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