Due pesi e due misure

29 Settembre 2015

Per Erri De Luca è stata chiesta la condanna a otto mesi per istigazione a delinquere per aver detto che la "Tav va sabotata". L'Ufficio disciplinare di Palazzo Chigi mette sotto esame l'Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e il suo direttore rei di aver imbavagliato Giorgia Meloni invitandola a "considerare per il futuro, l’opportunità di trasmettere alla collettività messaggi di diverso tenore" parlando di musulmani ed immigrazione. Il senatore Calderoli scagionato dalla Commissione del Senato dall'accusa di istigazione all'odio razziale per aver paragonato l'ex Ministro Cecile Kyenge ad un orango.

 

Tre episodi, all'apparenza molto diversi, ma accomunati, oltre che dall'essere accaduti tutti nei primi quindici giorni di settembre, dal fatto di avere, soprattutto, a che fare con un nodo, mai realmente affrontato con maturità nel nostro Paese, circa il potere delle parole e dell’impatto che esse hanno sulle persone e sulle loro vite, specie quando a pronunciarle sono coloro che, svolgendo una funzione di rilevanza pubblica, sono degli opinion maker. Prendiamola al contrario. Per chi e per cosa vale oggi l'articolo 21 della costituzione che sancisce la libertà di espressione? Non vale per Erri De Luca, le cui parole secondo la Procura di Torino devono essere giustamente condannate in quanto istigano all'illegalità, ma, invece, vale per Calderoli la cui volgare esternazione nei confronti della Kyenge è stata derubricata da offesa razzista a "battuta a scopo satirico". Ancora più complesso il caso di Giorgia Meloni, che ha tenuto banco per alcuni giorni su tutte le prime pagine dei giornali che ne riportavano la foto imbavagliata sotto Montecitorio.

 

Dopo aver avuto la solidarietà di molti colleghi deputati, la Ministra Boschi sembrava aver chiuso la questione difendendo in un'interrogazione alla Camera l'operato dell'Unar. Finita lì? Si potrebbe pensare di sì, con un po' di visibilità in più per la leader di Fratelli di Italia e l'ambivalenza politica generale dei deputati perlopiù schierati in autodifesa della insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari. In realtà no, stante alle notizie che vedrebbero scaduto e non rinnovato il mandato del direttore dell'Unar e un taglio netto di quindici unità del personale. Censura?

 

Solo martedi a Torino la terza carica dello Stato, la Presidente della Camera Boldrini, ha dichiarato 'basta buonismo con chi semina odio'. La settimana scorsa il Governo ha ricevuto, con tutti gli onori del caso, una delegazione dell'ECRI, European Commission against racism and intolerance, del Consiglio di Europa che aveva già stigmatizzato la pratica italiana di hate speech nel discorso politico nel Rapporto del 2012. Ma a fronte di nobili dichiarazioni e formali delegazioni, dove è la risposta coerente e concreta delle istituzioni verso la società civile?

 

Non lo sappiamo e ci piacerebbe saperlo, così come ci piacerebbe sapere che anche in questo Paese i tempi sono maturi per avviare una riflessione onesta e profonda riguardo l'equilibrio tra intangibilità della libertà di espressione e il rispetto, altrettanto intangibile, dei diritti fondamentali delle persone. Non è facile, ma è neccessario. Perché sono in ballo non solo le libertà individuali di tutti e le prerogative obsolete di pochi eletti, ma i valori universali della uguaglianza intesa cone assenza di discriminazione e della coesione sociale intesa come assenza di ingiustizie.

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