Edmund White. Un giovane americano
Tra le righe di Un giovane americano c’è un momento in cui il narratore, che è un grande divoratore di libri, si chiede: “E se avessi raccontato la mia esistenza esattamente com’era? Se l’avessi mostrata in tutta la sue densità, nel suo tedio, nella sua passione tenuta segreta?”. È una dichiarazione di poetica ed è anche una presa di posizione rispetto allo statuto della letteratura: invenzione, realismo o confessione? Chi parla è un giovane quindicenne, insoddisfatto della propria vita, che riversa nella lettura la sua inettitudine a una normale socievolezza. Per chi si sente solo, escluso, leggere può servire infatti ad evadere, a costruire una vita parallela alla propria. A sognare, ma pure a peccare, quando nella realtà non si ha magari abbastanza fegato per farlo. E infatti, prima che la vita vera irrompa sulla scena il giovane protagonista si nutre di fantasie altrui, trasferendo le sue pulsioni in “voti, tradimenti, fughe, litigi, sacrifici, suicidi” consumati nei romanzi classici ottocenteschi.
Così è stato. Così ha voluto che fosse Edmund White, che ha fatto della sua scrittura una forma di registrazione della propria esistenza tanto naturale nel suo andamento da sembrare un’invenzione, nel senso migliore del termine. White riesce a raccontarsi guardandosi dall’esterno, affidandosi a una prima persona che è lui stesso pur non essendolo fino in fondo. Non scrive un diario, ma costruisce un romanzo, immergendosi nella sua storia e allo stesso tempo distanziandosene.
Un giovane americano è il primo libro della tetralogia che lo scrittore dedica alla sua vita. Il romanzo (Playground, 240 pp., € 16) è uscito nel 1982. Avrebbe potuto intitolarsi “La mia storia”, visto che l’intento è autobiografico, invece A Boy’s Own Story parla di un giovane omosessuale degli anni Cinquanta che rispecchia e tradisce il suo autore.
Nel gioco dei rimandi tra vita e letteratura sono molti gli elementi comuni tra autore e narratore. White e il giovane protagonista sono figli di genitori divorziati. Entrambi hanno un padre ricco e anaffettivo. Entrambi studiano in scuole esclusive e sperimentano al college la distanza tra l’essere un tipo cool e la marginalità di chi non sa giocare a baseball (requisito necessario per scalare le vette della popolarità tra studenti). Così nel romanzo, come nella vita, per accettare la propria omosessualità il protagonista andrà da uno psicanalista che lo vorrebbe convincere a guarire dalla sua “malattia”.
Ma la capacità maggiore di White è nella letteratura. La vita passata al filtro dello scrittore ha un altro sapore. Solo uno scrittore può restituire l’adolescenza come un’alchimia perfetta di innocenza e peccato, in cui la giovane vittima è anche l’impacciato provocatore, un mix di timidezza e coraggio che corre su un confine molto difficile da delineare.
E solo un vero scrittore può avere un occhio tanto vigile su tutti gli elementi che occupano la scena. White ritrae la società americana, la stratificazione delle classi sociali, come guardandola da dietro un vetro. Gli “arrampicatori”, i nuovi ricchi, che hanno imparato a parlare pulito, sostituendo “cazzo” e “maledizione” con “accidenti” e “santo cielo”. Il mondo delle domestiche nere, che camminano per casa con le pantofole consumate. I professori del college, tanto puritani quanto vogliosi di torbide trasgressioni. Non gli interessano i dettagli, ma il modo in cui questi dialogano. Perché se è vero che la memoria cattura i ricordi della vita, è la scrittura, come dice White, a tracciarne le linee dimenticate. E una vita vera ha bisogno di un’invenzione ben fatta.