Yuppies

16 Giugno 2011

Giovani, abbronzati, in carriera, devoti al consumo, sono i Young Urban Professionals, i nuovi manager rampanti della giungla urbana. Agenda fitta di appuntamenti, telefono come protesi irrinunciabile, cocktail, aperitivi, party, dieta e palestra. I golden boys anni ottanta “fanno affari”, perché gli affari danno status e lo status aiuta gli affari. È l’apoteosi della vita in vetrina. D’altra parte l’edonismo o è sfacciato o non è: dunque, via le tende, via le pareti, case e uffici rigorosamente open-space. Nascono la Milano da bere, i miti dei soldi facili, della Borsa e della finanza per tutti. Tutti possono aspirare al Successo. Basta una Ranger Rover, e il giusto appeal… La nuova categoria mobilita i sociologi. Nel 1988 Ralf Dahrendorf scrive ne Il conflitto sociale della modernità: “La parola yuppies è usata per indicare giovani professionisti urbani (o in ascesa), e di loro si dice che desiderassero più spazio per l’iniziativa”. E Slavoj Žižek parlerà per gli yuppie di “ascetismo edonistico”, riferendosi alla narcisistica ed esagerata cura di sé di quei cultori del jogging e dell’alimentazione salutare: “Forse è questo che Nietzsche aveva in mente quando formulò il concetto di Ultimo Uomo” (La violenza invisibile). “Volere è potere” è il nuovo credo. Il Sociale cade in disgrazia, annoia, non diverte abbastanza. I nuovi corsari solcano i mari del presente senza la zavorra del passato. I soldi subito! La regola è vivere per sé, nell’immediato, in un eterno presente. E chi non ce la fa? È un fallito. L’altra faccia dello yuppie è, infatti, lo yuffie, che sta per Young Urban Failure, e che da noi, più semplicemente, equivale a sfigato. Impietosamente.

 

 

Lo stile anni ottanta è l’apologia del lusso e dell’esagerazione: deve prima di tutto scintillare. La fauna femminile è forse quella che ne risente maggiormente: tacchi alti, trucco vistoso, spalline imbottite, e poi diamanti, paillettes, lamine dorate, pelli di leopardo. Ogni metropoli dell’Occidente opulento ha i suoi yuppies. L’America reaganiana, la Londra thatcheriana e anche la Milano craxiana. In America ci sono gli yuppie perversi dei romanzi di Bret Easton Ellis, gli adolescenti ricchi e viziati che si muovono sullo sfondo di Los Angeles. È una nuova specie umana, felice, euforica, realizzata, che ha sotterrato la generazione dei vecchi militanti e vive unicamente per il successo. Scrive Jean Baudrillard: “Gli Yuppies non sono transfughi della rivolta, è una razza nuova, sicura di sé, amnistiata, gratificata di una nuova verginità, che si muove con disinvoltura nel performativo, mentalmente indifferente a qualsiasi finalità che non sia quella del mutamento e della promozione” (L’America). Per la generazione reaganiana “l’infelicità non esiste”, dunque anche i poveri non esistono.

 

 

In Italia nel 1986 esce il film Yuppies, di Carlo Vanzina, in cui la nuova categoria antropologica è rappresentanta dalle facce non proprio rampantissime di Massimo Boldi, Jerry Calà, Christian De Sica e Ezio Greggio. Sono loro i giovani di successo, quelli che “viaggiano in turbo”, che “sono firmati dalla scarpa alla mutanda”, che inseguono le “zoccolone da trombare”, ma che resteranno sempre degli irriducibili sfigati. Yuppies & Yuffies.

 

Questo testo è tratto dal libro di Raffaella De Santis, Le parole disabitate. Il Novecento, Aragno Editore, Torino 2011

 

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