Una conversazione / Erik Kessels, found photography

21 Novembre 2020

Erik Kessels (Roermond, 1966) è un artista e curatore olandese. Ha pubblicato oltre 50 libri di immagini trovate, perse, non reclamate o scarti fotografici di cui si è ri-appropriato. Kessels ha espanso il concetto di found photography da una condizione analogica a una digitale, passando dalle ricerche di fotografie nei mercatini delle pulci ai prelievi di immagini dal web. Nel 2011 insieme a Martin Parr, Joachim Schmid, Clement Cheroux e Joan Fontuberta ha co-curato una mostra dal titolo From Here On (A partire da adesso) per Les Rescontres Internationales de la Photographie di Arles, una mostra che ha incluso più di ottanta autori e che ha fatto il punto sulla creazione postfotografica realizzata sino a quel momento. Photography in Abundance di Erik Kessels, una installazione con riversato a terra il volume di fotografie caricate in Flickr in 24 ore, presentata alla fine del 2011 nel museo FOAM di Amsterdam, è una icona della condizione postfotografica in cui nuotiamo ormai da più di un decennio.

 

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: "Dato che gli strumenti determinano ciò che è possibile fare, essi determinano anche, in una certa misura, ciò che può essere pensato" (Albert van Helden e Thomas Hankins , 1994). Quali sono i limiti di pensiero generati dallo scattare con una macchina fotografica?

Erik Kessels: Anche se non scatto con una macchina fotografica, guardo le persone che lo fanno. L'unico limite secondo me è la produzione di un'immagine congelata. A parte questo, non ci sono limiti. Si vede attraverso la massa di persone che caricano le immagini online che improvvisamente il mondo è reso trasparente da ciò che si può guardare. Ma possono essere mostrati anche il buono, il cattivo, il brutto, l'osceno, il ridicolo: è in corso un'esplosione, viviamo quasi in un Rinascimento dell'immaginario. Dobbiamo incanalare questo flusso e decidere dove guardare. Altrimenti implodiamo perché ci sono così tante informazioni, ma i confini sono stati erosi. Questo processo è totalmente nudo, non lo si può fermare. Le immagini ci raggiungono, non importa come. Per limitarle dovremmo chiudere tutti i nostri account e concentrarci molto su altre cose. Ma trovandoci costantemente online, con le nostre applicazioni e le nostre reti, siamo raggiunti sempre e costantemente da queste immagini.

 

Erik Kessels, Destroy my face, 2020.


Organizzi fotografie secondo logiche di categorizzazione umane. Il risultato sono schemi mnemonici complessi, ma che differenza c'è tra la tua logica e una algoritmica? Sei un algoritmo di carne?

Lavorare a mano e con un cervello è una cosa totalmente diversa dal lavoro di un algoritmo. La rarità e l'eccezione possono essere testimoniate solo da un umano. Un computer può trovare l'insolito, ma non può apprezzarlo come un umano, non lo riconoscerà mai come farebbe un umano. Apprezzo molto il lavoro I'm Google (2011) dell'artista tedesca Dina Kelberman. Google aveva implementato un sistema di riconoscimento delle immagini, in modo da poter ottenere immagini visivamente simili. Su https://dinakelberman.tumblr.com/ Dina ha caricato tutte le immagini che è riuscita a trovare attraverso una certa ricerca, fino a quando non si è fermata e ha usato una di esse per ricominciare una nuova ricerca. È un lavoro costante, quasi come una catena cinese. Dietro le quinte di questo lavoro c'è naturalmente un algoritmo di apprendimento automatico, ma c'è ancora un intervento umano che lo ha messo in funzione.

 

Le tue immagini sono prodotte per umani? Che tipo di umani?

Ho curato una mostra in cui ho esposto il lavoro dell'artista olandese Batia Suter. Lei aveva installato una stampante Epson. Aveva scattato una fotografia della stampante aperta con il foglio in uscita. Stampò quella foto nel formato di dieci per cinque metri di altezza, usando la stessa macchina fotocopiatrice per stampare degli A3, che poi ha montato per ricostituire l’immagine della fotografia. Insomma, l'A3 riproduceva la propria immagine. Le macchine non hanno idee. Le idee che esse hanno sono messe dentro di loro dall'uomo. E anche l'intelligenza che è nelle macchine è creata dall'uomo.

 

Riproporre immagini trovate secondo una catalogazione /distribuzione /allestimento personali è una forma di revisione? Come cambia la nostra relazione con il tempo?

Chi lavora con l’appropriazione crea una sorta di pausa. Già le fotografie la producono naturalmente, ma estrarre immagini dalle masse a cui appartengono, selezionarle e mostrarle determina qualcosa di diverso. Con queste immagini si può creare una pausa temporale.

 

Sei un collezionista o un fotografo amatoriale?

Nessuno dei due. A volte la gente dice che sono un collezionista, ma non lo sono affatto. Suona abbastanza strano, perché colleziono collezioni, ma per me il collezionismo è un fatto anale. L'atto di collezionare è fatto solo per il feticcio di riunire così tante cose insieme. Nel mio caso raccolgo materiale di lavoro. Per esempio, per un certo periodo di tempo ho raccolto molti vinili musicali con alcune immagini sopra. Li ho usati per un lavoro, ma ora non riesco più a guardarli. L'attenzione che ho dato a quegli oggetti era molto concentrata: li ho usati per un lavoro solo per mostrarli e per chiedere alla gente di guardarli in modo diverso.

D'altra parte, non sono nemmeno un dilettante, sebbene nel mio modo di guardare io sia affascinato dai dilettanti. Penso che molti professionisti possano imparare molto dai dilettanti. Più dilettanti si è meglio è. Ho molto rispetto per i dilettanti anche perché sono totalmente aperti, molto capaci di sbagliare, non hanno paura perché sono ciechi per la loro passione. A volte inietto nel mio lavoro un sacco di dilettantismo, solo per costringermi ad avere un approccio dilettantistico attraverso di esso.

 

La bassa risoluzione è un valore in sé?

Certo. Non c'è alcun valore nella risoluzione. Ogni risoluzione ha un valore. Bassa risoluzione equivale a un'immagine totale sbiadita del passato, come una fotografia analogica graffiata e scolorita. Ma questa bassa risoluzione è anche tattile. È correlata ad una certa estetica, un look e una matericità che significano qualcosa anche a livello concettuale.

 

Erik Kessels, In almost every picture #1, 2001.


In almost every picture #1 è un percorso fotografico che attraversa la vita di una coppia in un arco temporale di dodici anni. Hai trovato queste immagini in un flea market di Barcellona, e l'identità dei due è andata perduta. Com'è cambiato l'approccio alla found photography con Internet, anche in termini legali relativi alla persona e al suo privato?

Innanzitutto l'uso di immagini esistenti da parte degli artisti è molto vecchio: se ripensiamo agli anni Cinquanta e Sessanta molte persone hanno usato immagini esistenti. Nel mio caso, quando l'ho fatto per la prima volta, avevo 400 immagini di una donna spagnola già da tre anni. Nel mio studio a volte le mostravo a chi passava e a un certo punto mi hanno detto che dovevo farci qualcosa perché era una serie così bella, di cui tutti avrebbero dovuto godere. All'epoca cercavo anche di sapere se la donna nelle fotografie era ancora viva e alla fine ho scoperto che era morta e che anche suo marito era morto. Ma so il suo nome. Ho saputo il suo nome da una sua collega, che è una donna sui 70 anni ancora viva. Molte volte, quando si trovano delle foto o degli album al mercato delle pulci, i loro proprietari sono morti. Penso che sia una buona cosa quando riesci a scoprirlo, ma lavoro anche con persone che sono ancora vive e ho molti contatti con loro. Per esempio, vedo una volta ogni uno o due mesi la donna che spara in uno dei miei libri. È olandese, compirà 100 anni quest’anno, siamo amici. Ho anche contatti con altre persone mostrate nelle mie opere.

Penso di avere delle responsabilità nell'uso delle fotografie altrui. Per esempio, ho trovato molte fotografie amatoriali erotiche e non le userò, perché potrebbe esserci ancora un bambino o una qualche situazione che potrebbe arrecare danno a terzi.

In almost every picture #16 è un libro che contiene immagini erotiche scattate da un marito a sua moglie. In quel caso ho avuto il permesso di pubblicazione da parte delle due figlie, che ora hanno compiuto sessant'anni. Mi hanno anche chiamato per sapere se potevo fare qualcosa con queste immagini.

E quando si producono opere con molte immagini, come la serie dei cazzi (quella in cui molte persone mostrano il loro pene accanto a un oggetto comune per mostrare online quanto misuri), non c'è bisogno di chiedere il permesso, perché questa è una metafora di qualcosa. 

 

Erik Kessels, In almost every picture #16, 2001.

 

Erik Kessels, In almost every picture #16, 2001.


Models (2005) raccoglie 132 immagini di uomini che indossano uniformi. Si tratta di immagini scattate negli anni Settanta in Germania per istruire i militari circa il modo in cui avrebbero dovuto indossarle. La fotografia, realtà, verità o finzione che sia, come ci influenza?

In questo caso era stato chiesto a diverse regioni di polizia di fotografare la propria uniforme in modo indipendente. Tutte le regioni di polizia hanno adottato approcci diversi nel modo in cui hanno fotografato le loro uniformi. 

Probabilmente non c'erano modelli, ma è stato chiesto agli agenti di polizia stessi di posare per questo servizio fotografico. Quindi per me queste foto sono di per sé finzione, ma il fatto che questi siano modelli scontrosi e non speciali che recitano sé stessi dà un tocco umano a queste fotografie, e le rende interessanti.

È qualcosa di molto speciale quando verità e finzione si sovrappongono in un mix confuso. Quando si ha solo finzione o solo verità esse sono mere categorie, ma quando si incrociano e si toccano diventano interessanti.

 

Erik Kessels, Models, 2008, Arles.


My family (2000 – in corso) è un album di famiglia i cui soggetti sono i tuoi tre figli, a cui hai scattato una foto ogni volta che si facevano male giocando. I genitori con Smartphone fotografano i figli costantemente, obbligandoli a sorridere, mostrando le loro doti d'ingegno e intelligenza (?). Questi bambini un giorno come fotograferanno i propri figli?

Non è mia intenzione manipolarli, ma sono manipolati, ovviamente. Per esempio, quando scatto loro una foto normale, chiedo loro di non ridere perché è bizzarro che ogni bambino o adolescente, anche amici dei miei figli, quando gli chiedi se puoi scattargli una foto, si mettono a ridere. Ma questo è solo un modello, è solo un cliché. È un comportamento stereotipato. Così, quando si chiede loro di non ridere ma di mantenere un comportamento rigoroso, quando mostro loro l'immagine finale la trovano molto più interessante di quella in cui ridono. Si tratta di piccoli giochi: ecco l'immagine di te che ridi, ecco l'immagine di te che sei mortalmente serio. Quale ti piace di più? E a loro piace sempre molto di più quella in cui sono molto seri, perché è molto più intensa e vera. Così, a volte gioco con loro per mostrare queste metafore, quindi ne sono naturalmente influenzati.

 

Erik Kessels, My family, 2000.


Qual è la storia del Photo Cube? In Italia non ha mai preso piede.

Penso che il Photo Cube sia qualcosa che viene dall'America. Qui ne ho uno. È un cubo trasparente, apribile, con immagini stampate al suo interno, immagini di modelli. Queste immagini scelte ti insegnano quanto sia bello fare una foto a tua nonna o a te stesso o a tuo figlio su una bicicletta e ti mostrano anche un esempio o un modello per farlo prima di installare la foto nel cubo. L'immagine del modello scomparirà quando il nuovo scatto verrà inserito lì. Ma che tipo di modelli fotografici ci ha messo la fabbrica? Ci sono molti cubi fotografici diversi e tutti possono mostrare ciò che è buono e ciò che non lo è. È quasi come un tutorial di ripresa di ciò che si dovrebbe fare e ciò che non si dovrebbe fare.

 

Erik Kessels, Photo cubes, 2007.


Strangers in my Photo Album: hai mai ricevuto reclami circa la proprietà di immagine da uno sconosciuto nei tuoi lavori?

No. Una volta ho fatto un libro intitolato The Instant Man, dove ci sono uomini del Bangladesh che vendono foto scattate da loro attraverso Polaroid insieme a fiori. Per un certo periodo di tempo ho dato loro dei soldi per quelle foto, ma chiedendo in cambio "Posso farti una foto", dopo di che prendevo la macchina fotografica e scattavo loro una foto. Solo una volta uno di questi uomini si è rifiutato di farsi fotografare da me e di vendermi il suo ritratto. Quella è stata l'unica volta in cui è successa una cosa del genere. 

A Toronto una volta stavo mostrando 24hrs in Photos e un visitatore ha riconosciuto la sua ragazza in una delle immagini. Era come trovare un ago in un pagliaio, un evento del tutto eccezionale. Ma questa è una metafora sul fatto che quando uso le immagini è quasi impossibile che qualcuno vi riconosca chi è stato ritratto.

Strangers in my Photo Album era un progetto completamente diverso: in alcune immagini di me stesso ho visto sullo sfondo degli sconosciuti, ma questa è un'altra idea.

 

Erik Kessels, The Instant men, 1999.


Unfinished Father è un fotomontaggio?

Mio padre è stato in terapia intensiva per un periodo di tempo piuttosto lungo a causa di un'emorragia cerebrale. Mi hanno chiesto di portare un progetto a Reggio Emilia e mi hanno mostrato lo spazio che avrei avuto a disposizione. Mio padre aveva restaurato la sua Fiat Topolino ma non era riuscito a finire l'ultima parte del lavoro. Ho portato la macchina a Reggio Emilia e ho guardato le foto che mio padre aveva scattato della progressione del restauro della macchina. Quello che faccio spesso prima di una mostra è fotografare la mostra, dove si trova, e poi qualcuno con cui lavoro in Google Sketch disegna l'intero spazio. Poi si possono spostare le cose e ci si può giocare. Alla fine il fatto di tenere tutte le immagini sul pavimento è stata una decisione per mantenere un senso di incompiuto. Se hai una mostra sul pavimento è incompiuta, perché di solito vedi le immagini sul pavimento prima che siano appese al muro. L'opera era pre-prodotta, frutto di un progetto. Ma l’ho installata in modo che non sembrasse costruita.

 

Una tua opera è composta da una selezione di scatti che una donna vestita si è fatta fare mentre era immersa in una piscina. Perché?

È una cosa che ho trovato in Flickr. Si tratta di Fred e Valery, due sessantenni che vivono in Florida e hanno questo fetish per cui Fred fotografa Valery ogni giorno mentre legge in acqua (in piscina, in una fontana, nel fiume, nella doccia...). Ho trovato queste immagini e ho chiesto loro il permesso di pubblicarle. Ho fatto un libro con i loro scatti e le prime 100 copie sono state stampate su carta impermeabile. Ho inviato loro la prima copia del libro e gli ho chiesto se potevano fare nuove fotografie usando il libro inviato loro. Fred è stato molto felice di ricevere il libro e di scattare foto di Valery in acqua mentre lo leggeva.

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