Ernö Rubik, Il cubo e io

28 Novembre 2020

Il cubo e io di Ernö Rubik è un libro che ci fa conoscere da molto vicino la persona dietro il personaggio: il personaggio è un solido platonico, la persona è il suo inventore, di cui porta il nome. È la storia di un progettista e del suo progetto, risultato di una vita vissuta nel fascino per i rompicapi e per i giochi. "Quando realizzai il cubo non ero un designer industriale né avevo specifiche competenze nel campo dei giocattoli. Inoltre, lavoravo in completa solitudine."

 

Perdersi per poi ritrovarsi 

 

C'è un momento, nella vita di Ernö Rubik, architetto e progettista ungherese, in cui il limite tra l'invenzione di un giocattolo e la scoperta di un nuovo universo di possibilità è stato la rottura dell'ordine, l'istante prima che si scateni il panico. Aveva tra le mani un cubo di legno composto a sua volta da 27 cubetti uniti tra loro da una struttura che permetteva di ruotarli con facilità: "Quello che avevo realizzato era chiaramente un oggetto ma, particolare più interessante, era la materializzazione tridimensionale di un concetto". Le facce di quel primo Cubo della storia, ancora privo di un nome, erano però identiche tra loro, dunque il movimento non provocava alcun risultato. Non era ancora un gioco vero e proprio. Come si può cogliere la variazione di un ordine se tutte le parti restano uguali a se stesse? Pensò così di assegnare alle sei facce della sua invenzione un colore diverso, applicando degli adesivi sui cubetti di legno. Partì dai colori primari, rosso, blu e giallo, a cui aggiunse il verde, l'arancione e il bianco (che gli parve più 'maschile' del viola). A quel punto iniziò a giocarci. Prima ruotando solo una faccia per tornare subito indietro, intimorito. Poi ne girò due. Con un brivido azzardò la terza, riuscendo ancora a ricostituire l'ordine iniziale. "Dopo altre rotazioni, intorno ad assi diversi, mi risultava ancora facile tornare allo stato originale". Ma l'ignoto era dietro l'angolo: si accorse infatti che più ci giocava più si divertiva, sì, ma avvicinandosi sempre di più a un tipo di disordine che era un diabolico punto di non ritorno.

 


Chiunque abbia mai posseduto un Cubo conosce bene la sensazione, che scosse Rubik così tanto da paragonare quell'esperienza al perdersi in uno spazio fisico: "Proseguendo oltre, però, era come smarrirsi in una città sconosciuta, un'esperienza a volte esaltante, altre esasperante. Bastano uno o due incroci in più e tornare al punto di partenza diventa sempre più difficile; dopo qualche altro incrocio, addirittura impossibile". Fu un trauma sconvolgente per il designer ungherese. Si trovò per le mani l'oggetto a cui aveva dedicato anni di passione, finalmente funzionale a livello meccanico, ma gli aveva sfilato dal corpo la sua artificiosa perfezione cromatica. Si sentì disperato. "Avevo creato il caos ed ero impotente, non avevo la minima idea di come avrei potuto trovare la strada del ritorno". Fu il primo al mondo a trovarsi davanti a un Cubo mescolato e senza le istruzioni per risolverlo. Si era perso in una cartografia di cui non possedeva chiavi interpretative. La statistica non era dalla sua: ancora ignorava che le strade che aveva davanti erano 43 quintilioni, 252 quadrilioni, 3 trilioni, 274 miliardi, 489 milioni e 856 mila. Si sentì come in un hotel con infinite stanze, ognuna conduceva verso altre infinite porte. Erano tutte aperte, ma non c'era alcun Filo di Arianna con cui sconfiggere il Minotauro. Continuò per giorni ad analizzare rotazioni e movimenti degli assi, angoli e spigoli della sua creazione, ma era cosciente che "non si può procedere esclusivamente a intuito, e chi lo fa è destinato prima o poi al fallimento". Ernö Rubik era uno Champollion che inventa i geroglifici ma si dimentica la Stele di Rosetta.

 

Il trauma di questa esperienza gli avrebbe provocato un incubo ricorrente per tutta la vita: da quel giorno  Ernö Rubik avrebbe sognato di trovarsi in un albergo immenso senza sapere più come tornare a casa; era smarrito e senza un navigatore insomma. Eppure ai tempi non si perse d'animo,"la soluzione del Cubo è una forma di introspezione, per quanto inconsapevole". Si guardò dentro e fu costretto a fare di necessità virtù, elaborando trucchi e strategie con tanto accanimento che al lettore odierno, immaginandolo imprigionato in un labirinto che si era costruito con le proprie mani, verrebbe da suggerirgli col cuore in mano Stacchi gli adesivi, signor Rubik, vale, lo abbiamo fatto tutti! Ma non esiste inganno nella mente logica di un inventore.

Ci impiegò un mese e deve essere stato un mese di notti insonni. Eppure riuscì autodidatta nella sua sfida, diventando la prima persona nella storia a risolvere il Cubo. Riportato al suo stato iniziale, quell'oggetto aveva riconquistato la sua simbolica perfezione, un ordine fragilissimo però, pronto in ogni istante a ritornare caos: bastano pochi movimenti del polso. Sarebbe costato al suo inventore incubi asfissianti per decenni, ma il suo Cubo era molto di più di un semplice giocattolo. Era un rompicapo, e ben più avvincente di quelli esistenti sul mercato. Un vero oggetto di culto, che in pochi anni trasformò il signor Rubik da ingegnere nerd col pallino per i giocattoli alla persona più ricca dell'Ungheria.

 


Ha creato un mostro senza saperlo

 

Da grande amante dei quiz e dei giochi di logica, Ernö Rubik è consapevole del fatto che tutto sia difficile prima di essere facile: risolvendo un rompicapo si riduce la complessità a comprensione, che è "una specie di estasi", e per comprenderla basta guardare negli occhi chi riesce a risolverlo, tanto brillanti quanto quelli di chi riesce a decifrare un codice imperscrutabile. Chi studia la risoluzione del cubo aspira a quell'estasi, accentuata dal fatto che si può perpetuare a piacimento quante volte si vuole, anzi, persino in maniera ogni volta diversa, sempre più veloce. E nel solco tra l'enigma e la soluzione è nato il gioco vero e proprio, inizialmente scomodo da manipolare, per poi diventare di plastica e esprimersi nelle più curiose varianti, oggi a trazione magnetica e super lubrificate. Un'invenzione di certo non casuale: il Cubo ha dei precedenti e il signor Rubik non solo li conosceva bene, ma ci giocava: coi pentamimi, una sorta di tangram con cui ricostruire un rettangolo, o col cubo soma, un rompicapo di origine orientale che consiste nel ricomporre un cubo partendo dai singoli pezzi sciolti. Ma il Cubo di Rubik aveva qualcosa in più, anche se il suo inventore confessò di non avere "la benché minima idea se avrebbe potuto essere interessante per qualcun altro al di fuori di me".

 

L'errore più classico è pensare che sia successo tutto per caso: un giocattolo diventato un evergreen del design dal nulla. Ma la storia di Rubik è in primis quella di un progetto di design che ha tutte le caratteristiche per essere vincente. È la storia di un progettista che ha sviluppato per tutta la sua vita una forma mentis volta alla tridimensionalità e alla personalizzazione dell'esperienza ludica. L'ha concretizzata in un oggetto fisico, l'ha sperimentato, l'ha corretto e ricorretto fino a essere soddisfatto del risultato, che in pochi anni ha visto vendere in miliardi di esemplari. Da quando ha fatto la sua comparsa in un negozio di Budapest nel 1979, il Cubo di Rubik si è diffuso in maniera virale nei cinque continenti, e ha saputo penetrare ogni ambiente della società per la sua versatilità: è sì un rompicapo, ma può essere giocato in qualunque modo da bambini e adulti. La rotazione degli assi può diventare un anti-stress o un semplice passatempo, un esercizio motorio ma anche una sfida impossibile per chi volesse affrontarlo senza un codice. Muovendosi attorno al suo asse, poi, il Cubo produce un rumore piacevole, simile al morso di una mela. È un oggetto che tenta chiunque se lo trovi davanti, come fosse la reificazione di un istinto originale. Il Cubo tenta e spaventa: il peccato, forse, sta nella paura di spezzare l'ordine per sempre. E tutti quelli che lo impugnano "sembrano come in meditazione, ma anziché vagare dietro chissà quali elucubrazioni, sono coinvolti e attivi, in un raro momento di pacifica convivenza tra ordine e caos".

 

 

Ernö Rubik non poteva nemmeno sospettare il Vaso di Pandora che avrebbe scoperto dando in mano a una generazione iper competitiva un rompicapo che può essere legato al tempo di risoluzione. Già nel 1982 si tenne il primo campionato mondiale a Budapest, vinto a mani basse da uno studente vietnamita che risolse il Cubo in 22 secondi, come uno schiaffo nei confronti dei trenta giorni impiegati dal suo inventore. Non c'è limite alla grammatica generativa del cubo. Dalla sua versione originale, 3x3x3, sono state tratte le varianti 5x5x5, 2x2x2 e la temutissima 4x4x4. Oggi esistono centinaia di tornei organizzati ovunque e svariate modalità di giocarci; c'è chi lo risolve bendato, con una mano sola o chi persino coi piedi. I record mondiali vengono stracciati ogni anno creando stupori e polemiche nella comunità degli appassionati. Ci sono scuole di pensiero e di risoluzione, tecniche elementari e avanzate, ma esistono anche i metodi intuitivi; è stato coniato persino un nome per definire i giocatori più accaniti contro il tempo: speed cuber. Un esercito di appassionati che maneggiano il Cubo alla velocità della luce, proponendo nuove tecniche: ognuna sottende decine di algoritimi da studiare a memoria per risparmiare anche solo pochi secondi, e obbliga a ore di allenamento per ottenere una memoria plastica da pianista. Durante il gioco anche solo un movimento errato, una combinazione confusa, portano al al disastro. All'entropia. Il campione mondiale, Du Yuesheng, oggi è in grado di sfidare 43 quintilioni di possibilità in meno di quattro secondi: tre virgola quarantasette. Il tempo che occorre a un quindicenne per ridurre l'infinito a uno.

 

Il signor Rubik ci ha provato. Ha provato a sedurci argomentando che la sua invenzione è molto più di un gioco, sostenendo che la sua forma ortogonale è perfetta e quasi archetipica, e che l'interazione che crea con chi lo possiede è un rapporto intimo. Ci ha provato persino sfoderando un numero decisamente affascinante e dotato di un'infinità quasi divina, che rende impossibile comprenderne davvero la mole ad altezza d’uomo: le combinazioni possibili sono un labirinto del libero arbitrio, il più perfetto. Ci ha provato anche spiegandoci l'importanza della componente ludica applicata all'apprendimento. Ma resta che ciò che rende il Cubo di Rubik uno degli oggetti più sexy fin dagli anni Ottanta è la sua pacata semplicità, l'istintività con cui si fa conoscere, l'irresistibile magia con cui chiede di essere afferrato. Quelle non si possono spiegare molto a parole, l'autore stesso lo ripete di continuo: "non amo scrivere; il mio non è un vero libro". Per capirle davvero occorre avere un Cubo nuovo di zecca tra le mani, e osare sfidare il caos.

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