Le teste di Modigliani tra burla e disperazione
“Sprecarsi a Livorno è la cosa più facile del mondo. Tutto ti aiuta a farlo”. L’amaro e partecipe ritratto che Simone Lenzi ha dedicato alla sua città (Sul Lungomai di Livorno, Laterza 2013) mette a fuoco un tema suscettibile di variazioni. L’ha fatto, e bene, anche un altro giovane scrittore livornese, Daniele Cerrai, con il suo quarto romanzo (Grigio Modì. Storia di tre teste ritrovate, Round Robin Editrice 2014) che parla di una famosa burla. La cosiddetta “burla delle teste false di Modigliani”. Una burla che però non è solo una burla. Vale la pena spiegare perché.
Estate 1984, Livorno celebra il centenario della nascita del suo pittore più famoso, emigrato prestissimo a Parigi, con una mostra basata sull’esposizione di alcune sue sculture e con un’iniziativa che avrebbe voluto essere spettacolare (e lo sarà, ma in un senso molto diverso da quello previsto). Sulla scorta della leggenda popolare, ritenuta comunque probabile, si decide di recuperare sul fondo di uno dei canali che solcano la città le teste presumibilmente gettate da Amedeo Modigliani stesso per rabbia, in seguito all’incomprensione mostratagli da alcuni suoi amici pittori rimasti legati all’estetica post-macchiaiola (dal comico Michele Crestacci riassunta nella formula “il fienile-l’aratro-la mucca”).
Il dragaggio si rivela fortunato. Tra il 24 luglio e il 9 agosto 1984, dalle acque tutt’altro che limpide dei “fossi” emergono tre manufatti, tre teste scolpite nella pietra, di forma allungata, dichiarate frettolosamente autentiche. L’euforia per il ritrovamento dura però pochissimo. Il 2 settembre il settimanale Panorama pubblica infatti un servizio nel quale alcuni studenti annunciano di essere gli autori di una delle teste. Poco dopo si fa viva anche un’altra persona, un artista che potremmo definire underground (o, viste le circostanze, underwater). Si chiama Angelo Froglia e asserisce di essere l’autore delle altre due sculture. La situazione precipita. I critici, che nel frattempo si erano esposti con giudizi talvolta estremamente lusinghieri, ci perdono la faccia, la Giunta comunale vacilla, mentre Vera e Dario Durbè, i fratelli che avevano organizzato la mostra, sono addirittura indagati per truffa (le accuse cadranno tre anni dopo, senza ovviamente riparare il danno d’immagine).
Ma non è finita qui. Nel settembre del 1991 spunta fuori un tal Piero Carboni, ex carrozziere livornese, che dice di possedere altre tre teste di Modigliani, a lui pervenute per vie intricate. Stavolta si tratterebbe delle “vere” teste, posto che l’autore, tutt’altro che intenzionato a disfarsene, le avesse più realisticamente affidate al proprietario del fondo dove furono scolpite prima di ripartire per Parigi. È un colpo di scena che purtroppo avviene in ritardo, dopo che intanto tutti si erano già scottati le mani. Così non solo salta il processo di attribuzione che avrebbe potuto autentificare quei nuovi reperti, ma anche Carboni viene accusato di truffa (sarà assolto qualche anno dopo), mentre le tre teste scompaiono nel caveau di una banca ad attendere tempi migliori. Secondo Cerrai, occuparsi nuovamente di questa storia vuol dire riuscire a fare i conti con questo sistematico “spreco”. Ed è per questo che la lettura del libro risulta molto interessante.
Come accennato all’inizio, se riducessimo la storia delle teste di Modigliani all’unico aspetto della burla per il quale essa è ancora conosciuta, perderemmo l’essenziale della vicenda. Innanzitutto perché l’unica testa veramente “burlesca”, delle sei, è quella scolpita dal gruppo di ragazzi diventati famosi grazie all’articolo di Panorama. Secondariamente perché riflettere con più attenzione sui meccanismi che portarono al caso, distinguendone i piani, potrebbe forse dare a Livorno un’altra occasione per uscire da molti dei vicoli ciechi nei quali, almeno da allora, la città sembra essersi cacciata.
“Di occasioni Livorno ne ha perse molte”, racconta Cerrai. “Intendo dire quelle per riconvertirsi in qualcosa che sapesse superare l'industria e le partecipate, come ha fatto Torino per esempio. Invece Livorno non ha saputo prevedere e coagulare niente di nuovo e rischia di divenire una ghost town sulla scia di Detroit. Se si pensa che i primi segni di questa crisi di manifestavano proprio nell'84, con la cassa integrazione della SPICA, ecco che proprio questa faccenda è emblematica di quello che è stato il destino di Livorno. Infatti, della SPICA, che i politici livornesi non hanno saputo gestire, adesso resta aperta solo mezza fabbrica (TRW), anch’essa in crisi”.
Certo, non basterebbe l’autentificazione di tre teste (quelle che ancora la attendono) a risolvere una crisi così profonda e strutturale. È comunque sintomatico che ancora oggi, in relazione a un caso di tale importanza, qualcuno non abbia di meglio da proporre che prelevare le tre teste false dai magazzini comunali per costruirci intorno un improbabile “museo della burla”. Come a dire: curiamo la disperazione e lo spreco che l’ha alimentata almeno con una risata.
Ma la disperazione non si può curare con una risata. Il buttarla sempre in burla, anzi, è forse una delle tare più tipiche di un provincialismo che scambia per particolare scaltrezza l’inveterata attitudine al cinismo e allo sberleffo. Rimanendone spesso fregato. Occorrerebbe invece un progetto, possibilmente serio. E forse si potrebbe ripartire proprio da quelle teste, per vedere se in quell’occasione qualcosa fosse andato nuovamente perduto, proprio nel momento in cui era appena venuto a galla. Per questo, nel suo libro, Cerrai dedica molto spazio all’autore più negletto delle teste, quell’Angelo Froglia (“una persona controversa, che ha attraversato gli anni ’70 e ’80 alla sua maniera, altalenando il suo slancio tra la politica e l’arte”, per poi finire ucciso dall’eroina a soli 42 anni) che volle sfidare l’establishment della critica d’arte sabotandolo con i suoi “falsi” Modigliani: “Sì sono stato io e ci tengo a dire che non si è trattato né di uno scherzo, né di una burla. Ho voluto compiere un’operazione estetico-culturale contro il mondo dei critici e dei media. Volevo creare un inganno ai danni di chi costruisce facilmente dei miti, di chi si interpone tra l’artista e il successo, condizionando il gusto e l’accesso al mercato di gente come me”.
Cercando di sabotare l’operazione celebrativa compiuta per sfruttare il nome di Modigliani, Froglia – che secondo Cerrai ereditava a buon diritto lo spirito “maudit” del più illustre predecessore – avrebbe voluto far inceppare un meccanismo che poi si è inceppato ugualmente. Ma solo in apparenza, o in modo molto depotenziato, finendo con l’essere percepito alla stregua di uno scherzo. L’unica conseguenza è stata così la desertificazione della cultura cittadina, la sua completa marginalizzazione, specchio di un declino che già stava corrodendo il tessuto sociale circostante. Da qui la domanda che attraversa il libro: è possibile andare oltre questa disperazione impastata di fatalismo e sarcasmo impotente?
Grigio Modì è un atto di amore critico verso una città ingrigita, che ha urgente bisogno di acquistare nuovi colori e rialzarsi.