L'Europa senza frontiere di artisti e filosofi

14 Agosto 2024

Un tour – dal francese “tourner”, girare, quindi viaggiare – dovrebbere sempre includere anche la pratica del detournament, il metodo di straniamento che ci porta a modificare il modo di vedere oggetti comunemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova relazione per avviare un processo di riflessione critica. Auspicabile in generale, ancor più necessario ciò si dimostra quando i nostri viaggi avvengono al confine tra due o più paesi, cioè insistendo sul passaggio che al contempo li unisce e li separa. In fin dei conti, perché viaggiamo, a cosa serve varcare confini se non per vedere le cose altrimenti (a cominciare da noi stessi) e non solo, banalmente, altre cose?

Prendendo per buona la definizione dei dizionari, quella cioè che ci spiega come un confine sia il limite di una regione geografica o di uno stato (una «zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti»), abbiamo però il problema di appurare se la sgranatura tra confini “naturali” (le linee di separazione prestabilite dalla natura: coste, crinali di montagna, fiumi) e “politici” (le frontiere stabilite dai governi, in genere in seguito a guerre) sia a sua volta da interpretare come un dato incontestabile, statico, oppure, al contrario, come un ostacolo da erodere, spostare, sciogliere (e quindi riformulare), perché costitutivamente dinamico. In un contesto di riflessione più ampio, l'antropologo scozzese Tim Ingold ha chiarito la differenza tra le parole “between” (fra) e “in-between” (infra): «Qualsiasi movimento nel fra, come il subire che è inglobato nel fare o il crescere inglobato nel creare, è semplicemente da qui a lì, da uno stato iniziale a uno finale. Nell'infra, ovvero in mezzo, tuttavia, il movimento è la condizione primaria e continua. Là dove il fra è liminale, l'infra è arterioso; dove il fra è intermedio, l'infra è al centro della corrente. E l'infra è il regno della vita delle linee» (T. Ingold, Siamo linee. Per un'ecologia delle relazioni sociali, Treccani 2020).

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Belles Rives.

Qualche settimana fa mi sono mosso per pochi giorni fra (between) i confini meridionali di Italia e Francia, pur cercando di decifrare, per l'appunto, i molti infra (in-between) che li possono fluidificare. Tra Menton e Ventimiglia c'è un piccolo corso d'acqua – il rio San Luigi – sul quale passa la frontiera tra i due stati (ne ho appreso l'esistenza dopo averlo oltrepassato senza minimamente accorgermene). Per ricostruirne la fenomenologia occorre inoltrarsi, come al solito, in una storia talmente intricata da far poi apparire tale delimitazione decisamente casuale o arbitraria. Mauro Suttora – il quale ha dedicato ai confini italiani un libro utilissimo (M. Suttora, Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere, Neri Pozza Editore 2021) – ricorda che fu il più corposo fiume Varo, poco a ovest di Nizza, a dividere per duemila anni l'Italia dalla Francia, perché lì iniziava la Gallia Narbonese, conquistata dai romani nel 120 a.C. Ma risalire ai romani è sempre un'operazione rischiosa. Infatti altre figure già si affollano, occupando lo spazio dell'infra. Quale senso del confine territoriale avranno avuto, per esempio, i sette uomini di Cro-Magnon (25.000 a.C.) rinvenuti in alcune grotte della frazione di Grimaldi? Forse ancora più labile di quello avvertito da tutti i miliardari del mondo che, fino alla metà degli anni Trenta, amavano svernare sulla costa italo-francese. «La frontiera di Ventimiglia – scrive Suttora – per loro non esiste, scorrazzano prima in treno o carrozza e poi sulle loro auto e yacht da una festa all'altra in Cȏte d'Azur e Riviera dei Fiori, indifferentemente». Belle Époque celebrata in letteratura da Scott Fitzgerald e poi soffocata da ben altre, rapaci scorribande “oltre confine”, quelle intraprese dai giovani avanguardisti fascisti e fissate sulla pagina dal sanremese Italo Calvino in un racconto del 1954.

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Mougins.

Per chi ha fatto studi filosofici, la costa tra Camogli e Nizza  – negli anni che vanno dal 1880 al 1888 – può essere anche percorsa facendosi accompagnare da una guida d'eccezione: Friedrich Nietzsche. La sua conversione meridionale, la scoperta del sud è lontanissima da quella di un turista, pur straordinario, come Goethe, o comunque di un viaggiatore in cerca di esperienze da riporre nello zaino prima di tornarsene a casa. In un capitolo della sua breve biografia nicciana, Stefan Zweig ha colto il punto con precisione: «Goethe wird bloß befruchtet, Nietzsche umgepflanzt und erneuert». Il vagare del filosofo acquista così lo statuto di una vera e propria metamorfosi. Si può diventare ciò che si è (Ecce Homo) non dimenticando che l'esistenza è perenne cambiamento, trasvalutazione. L'uomo stesso – alla stregua di una estrema frontiera – alla fine dev'essere oltrepassato nella figura dello Übermensch. Solo cambiando costantemente posizione (da Genova a Rapallo, da Nizza a Camogli, senza dimenticare Eze, Stresa, Venezia, Messina, Torino...) Nietzsche assunse la prospettiva di un “aeronauta dello spirito” [Luftschiffer des Geistes] pronto a prendere posizione «contro tutto quanto è stato finora creduto, preteso, santificato». «La scoperta del Mezzogiorno – così Paolo Pagani (Nietzsche on the road, Neri Pozza Editore 2021) – lo trasforma. Spiritualmente alieno dal pangermanesimo, al sud italiano [e francese, ndr] avverte un ulteriore, istintivo allontanemento dal senso di patria». Ed è qui, nella luce del sud, che germogliano pensieri capaci di anticipare di quasi sessant'anni il Manifesto di Ventotene immaginato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi: «Grazie al morboso estraneamento che l'insania nazionalista ha interposto e tuttora continua a interporre tra i popoli europei, grazie egualmente ai politici dalla vista corta e dalla mano svelta che con l'aiuto di quella sono oggi in auge... vengono ora trascurati, o arbitrariamente o mendacemente travisati, i segni meno ambigui in cui la volontà che l'Europa ha di unificarsi si manifesta» (Al di là del bene e del male, 1886).

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Dans la lumière du sud, non solo Nietzsche ha cercato la rigenerazione del proprio spirito creativo e l'alterazione di confini concettuali che sembravano impossibili da decostruire. Nella splendida cornice della Fondation Marguerite et Aimé Maeght (a Saint-Paul-de-Vence, a pochi chilometri da Cannes) si può visitare fino al 6 ottobre una mostra intitolata all'amicizia tra i pittori Pierre Bonnard e Henri Matisse, due tra i più grandi maestri della prima metà del Novecento. I loro soggiorni nel Midi hanno prodotto tracce indelebili nelle rispettive opere, delle quali si scorge una radice comune. Sia Bonnard che Matisse, infatti, tendono a una luminosità debordante, che sfalda i contorni delle cose rappresentate pur conservandone la riconoscibilità. Anche qui, dunque, è pienamente in gioco un tipo di sensibilità in bilico non tra, ma infra il punto di partenza (in questo caso: la realtà da ritrarre) e il fine della sua apprensione pittorica. A emergere è la relazione, la corrente vitale che abbraccia e metamorfizza tutto ciò che può sussistere solo se in perenne divenire. Siamo vicinissimi al problema di Nietzsche, allorché fin dai tempi del suo primo grande libro, Der Geburt der Tragödie, si chiedeva cosa indicasse la sintesi della divinità e del capro nel satiro. O alle reiterate immagini taurine e raffigurazioni del Minotauro compiute da Pablo Picasso, nicciano fino al midollo, che proprio da quelle parti, vicino al borgo di Mougins, elesse la sua ultima dimora. Mentre ad Antibes, davanti al mare venerato, un museo eterna il suo nome.    

Foto di copertina: Negli anni del suo soggiorno sulla Costa Azzurra, la città di Antibes propose a Picasso di sfruttare parte dell'allora Castello Grimaldi come atelier, prima di diventare il museo che dal 1966 porta il nome dell'artista.

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