Tempo, spazio e immortalità in Gino De Dominicis / Contro l'ideologia del progresso
È la mattina dell'8 giugno 1972 quando, in occasione dell'inaugurazione della 36° Biennale di Venezia, un istante di eternità e immortalità irrompe nel tempo e nello spazio della laguna. In una delle sale veneziane Paolo Rosa, un giovane affetto da sindrome di down, è seduto su una sedia, davanti a lui ci sono il perimetro di un quadrato bianco disegnato per terra, una palla di gomma e una pietra. Si tratta della Seconda soluzione di immortalità (l'Universo è immobile), l'opera che Gino De Dominicis ha preparato per l'occasione, composta appunto da Paolo Rosa e altre tre opere: Cubo invisibile (1967), Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968-69), e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra (1969), opere già esposte in precedenza in occasione della sua prima personale a L'Attico di Fabio Sargentini nel 1969. Pochi giorni dopo la sala verrà chiusa e l'artista e il suo assistente Simone Carella saranno denunciati alla Procura della Repubblica per sottrazione d'incapace, e poi assolti nell'aprile del 1973 perché «il fatto non sussiste». L'opera dello scandalo, duramente criticata da Pier Paolo Pasolini e difesa, almeno in parte, da Eugenio Montale nel 1975 nel discorso pronunciato in occasione dell'assegnazione del Premio Nobel all'Accademia di Svezia, è anche l'opera a cui è interamente dedicato l'ultimo, brillante e ottimo saggio di Gabriele Guercio, L'arte non evolve. L'universo immobile di Gino De Dominicis (Johan&Levi, 2015; pp. 128, € 15,00).
Un'opera esemplare, sostiene Guercio, che permetterebbe di ricostruire e riassumere l'intera poetica del nostro, costruita intorno alla convinzione che la morte sia un errore e la si possa sconfiggere, che si possa raggiungere l'immortalità del corpo rovesciando l'idea moderna del tempo. Se lo scandalo «mediatico» della Biennale era dovuto alla presenza di Paolo Rosa, lo scandalo più autentico consisteva in realtà in questa convinzione profonda che ha mosso De Dominicis lungo tutto il suo percorso. Tornando alla Seconda soluzione d'immortalità Guercio sottolinea molto giustamente come Paolo Rosa non fosse lì per épater le bourgeois in quanto affetto da sindrome di down. Perché non di sindrome si tratterebbe, ma di un modo di stare al mondo, così riteneva De Dominicis, uno stato dell'essere non legato allo scorrere del tempo progressivo e quindi al di là della concezione moderna e progressiva del tempo e quindi anche al di là della morte.
Gino De Dominicis, Che cosa c'entra la morte, foto di gruppo alla VII Biennale di Parigi 1971. Foto di Massimo Piersanti
L'opera esposta alla Biennale parla proprio di questo, perché Paolo Rosa sarebbe al di là dalla coscienza del tempo come successione di passato, presente e futuro, immerso in un istante eterno mentre guarda il pubblico che guarda lui e le opere esposte a terra anch'esse colte nella loro immobilità istantanea ed eterna prima del movimento. Perché le opere d'arte sono immobili e non evolvono, mentre il grande errore della cultura occidentale è stato quello di pensare non solo che le opere evolvessero nel tempo, ma soprattutto pensare che il grande rimosso, ovvero il destino mortale dell'uomo, lo si potesse risolvere accelerando la velocità di movimento nello spazio, come esemplificato straordinariamente da un'altra opera di De Dominicis del 1969, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio: uno scheletro umano con i pattini ai piedi e lo scheletro di un cane al guinzaglio. Dove corrono quei pattini, e qual è lo sbaglio? Una chiave di lettura di questo lavoro si trova nella «Lettera sull'immortalità» che l'artista scrisse nel 1970 e dove si può leggere che: «Non potendo intervenire direttamente su se stesso per fermare il corso inesorabile del proprio tempo interno e allungare la propria vita, l'uomo ha inventato dei mezzi che lo rendessero più veloce: intervenendo così sullo spazio, indirettamente è riuscito a intervenire sul tempo.
Questa operazione potrebbe essere giustificata però solo se lo spazio fosse finito e la nostra fantasia limitata. Purtroppo invece è solo un palliativo e un grandissimo errore». Domani accadrà, è quello che ha sempre detto la promessa moderna secolarizzando l'escatologia ebraico-cristiana, ed è allora verso questo domani che si affretta a pattinare lo scheletro. Eccolo quindi lo sbaglio di cui dice il titolo dell'opera, la volontà di accelerare per rovesciare il rapporto tra spazio e tempo, votandosi a un'illusione di liberazione che non risolve il problema fondamentale della morte, come lo scheletro dimostra. E non a caso queste due opere, la Seconda soluzione e Il tempo lo sbaglio e lo spazio sono poste, rispettivamente, ad apertura e chiusura del libro.
Secondo Guercio invece la Seconda soluzione non integrandosi in un processo che muove dal prima verso il dopo, né scaturendo da una causa o condizione che la precede, come ogni opera d'arte, «in virtù del suo congenito sottrarsi a un predeterminato spazio-tempo, non solo rievoca il salto originario dalla materia alla vita e dalla vita al pensiero, ma rinnova e trasmette il desiderio di contrastare la caducità e la morte», finendo così per favorire «il dischiudersi dell'atemporale nel tempo». L'opera d'arte insomma è quel dispositivo, quell'evento discontinuo che coincide con «l'istante atemporale» che «può implodere e rigenerarsi senza riflettere il carico del passato e la tensione verso il futuro».
Inoltre De Dominicis sosteneva la superiorità delle arti visive, e in particolare della pittura, della scultura e dell'architettura, rispetto ad altre forme espressive poiché «essendo immobili, materiali e mute», e qui è De Dominicis stesso a parlare, «non assecondano il tempo e fondano e perpetuano il desiderio d'immortalità». Di pari passo va la rivendicazione antibiblica e antigiovannea della superiorità dell'immagine rispetto alla parola e al suono, emblematicamente affermata dall'opera In principio era l'immagine (1980), perché il suono e quindi la parola si allontanano da un'«origine» iniziando a correre lungo una linea retta che dà luogo all'idea del tempo storico-lineare, mentre le immagini «curvano spazio e tempo perché conservano e rinnovano, nell'eternità dell'adesso, le implicazioni della frattura iniziale allusa nelle descrizioni della creazione divine dell'universo». Grazie a queste opere, così si conclude il saggio, «l'eternità irrompe nel presente e persiste nel tempo».
Ci sembra utile però aggiungere un paio di note che possono, forse, contribuire a mettere in luce alcune ambiguità nel percorso complessivo di De Domincis. Intanto non è senz'altro privo di significato che queste opere aprano gli anni Settanta, il decennio in cui l'ideologia del progresso entra definitivamente in crisi, come d'altronde è stato registrato, lo sottolinea molto opportunamente Guercio, da molta critica postmodernista: basti pensare qui, per rimanere nella critica d'arte, alla questione del «darwinismo linguistico» elaborata da Bonito Oliva già nel 1973 e che poi diventerà l'idea intorno alla quale si costruirà il movimento della Transavanguardia a partire dal 1979. In breve: le avanguardie storiche e le neoavanguardie, prigioniere dell'ideologia progressista, si sarebbero mosse lungo una linea sperimentale secondo la quale anche il linguaggio dell'arte era in cammino e in continua evoluzione, ma una volta venuto meno l'ottimismo progressista negli anni Settanta gli artisti iniziano a elaborare un'idea di reversibilità del tempo, un tempo non più lineare ma piuttosto avvolto a spirale su stesso e dentro il quale tutte le epoche e gli stili diventano percorribili e citabili affrancandosi dalla superstizione del nuovo.
Ora, rispetto a questa soluzione, una linea ironico-manierista, De Dominicis, pur condividendo le premesse dell'analisi, si smarca, proponendo una soluzione che si potrebbe definire mistico-metafisica: restaurazione del valore auratico dell'autore e dell'opera, secondo una linea che sembra discendere da Giorgio De Chirico, ma con derive New Age e misteriche quando il nostro si innamora dei Sumeri, della pseudoarchelogia di Zecharia Sitchin e della sua teoria degli antichi astronauti. Stravaganze presenti nelle opere degli anni Ottanta e Novanta, basti pensare al ciclo dedicato a Urvasi e Gilgamesh e alle molte simbologie ufologiche inserite nei dipinti.
Non va poi dimenticato che il ritorno al disegno e alla pittura di De Dominicis, le arti «maggiori» e «originarie», come le chiamava in contrapposizione alle sperimentazioni più varie, avviene negli anni Ottanta dopo l'esplosione internazionale della Transavanguardia, quasi a rincorrere una richiesta di opere «materiali» più facilmente scambiabili sul mercato rispetto alle «smaterializzazioni» degli anni Settanta, una strategia che probabilmente ha inciso sul rigore della ricerca stringendo il nostro ancora di più nel mito del suo personaggio, un mito straordinariamente catturato da una intervista del 1995 andata in onda su Canale 5 nella trasmissione L'Angelo, il magazine di arte e cultura ideato da Gregorio Paolini e condotto da Claudia Koll: sospeso per aria e intento a dipingere, De Dominicis, all'intervistatrice che lo interrogava su quale fosse la sua posizione rispetto all'arte contemporanea, icasticamente rispondeva: «In piedi se il formato è grande, seduto se il formato è piccolo». Ancora, sul mito del «mago» De Dominicis che alla fine inciampa sulla morte, sono particolarmente significative le parole del suo amico e gallerista Pio Monti: «ci sono rimasto male quando è morto come muore ogni uomo. Il suo capolavoro sarebbe stato scomparire, che so, come Fulcanelli l'alchimista; una morte non celebrata non è vera morte... E Gino sarebbe avvolto ancora di più nel mistero, il suo mistero... » (Pio Monti, P'io & Gino, Giancarlo Politi Editore, 2010).
Insomma, se da un lato va riconosciuto a De Dominicis di aver intuito subito la partita fondamentale che sul tempo e le sue alternative si apriva, una volta tramontata la modernità, nell'ambito delle arti ma non solo, di aver giustamente posto al centro la questione cruciale del superamento della morte fisica in quanto errore, e di aver posto la questione, oggi più che mai di straordinario interesse, della superiorità dell'immagine sulla parola, tuttavia non si può ignorare che la cura prospettata lascia perplessi in quanto fuga mistico-metafisica dalla realtà e scommessa su una restaurazione mitologica non priva di ambiguità. Se vogliamo evitare le trappole mistico-metafisiche e quelle ironico-scettiche, trappole ideologiche perché finiscono entrambe per condannare all'inazione o all'inefficacia, se vogliamo recuperare una capacità di agire sulla realtà che «al presente è neutralizzata dalla nostra confusione», come dice Fredric Jameson (Postmodernismo, Fazi, 2007), occorre mettere mano a un'analisi materialista delle trasformazioni che hanno investito le società occidentali a partire dagli anni in cui si è cominciato a percepire come ineluttabile la crisi del tempo storico-progressivo per comprenderne la patogenesi.
Nella sua analisi marxista David Harvey riporta la compressione spazio-temporale alla transizione avvenuta negli anni Settanta dal fordismo all'accumulazione flessibile post-fordista, ponendo questa condizione nel suo contesto storico, ovvero «quale parte di una storia di successive fasi di compressione spazio-temporale prodotte dalle pressioni dell'accumulazione di capitale con il suo eterno tentativo di annullare lo spazio attraverso il tempo e di ridurre il tempo di rotazione» (David Harvey, La fine della modernità, Il Saggiatore, 2002). Proprio lo stesso «sbaglio» a cui alludeva Gino De Dominicis nelle sue opere. Il crollo degli orizzonti temporali ha insomma la sua verità nelle trasformazioni materiali dei modi di produzione e nelle sue conseguenze politico-economiche, sociali, psichiche e culturali, occorrerà allora, prima di tutto attenersi a queste verità, quelle dello spazio mondiale del capitalismo multinazionale, per evitare derive scettiche e mistiche.
Non è inutile poi, tornando sul terreno delle poetiche, ricordare che anche Carmelo Bene, amico di De Dominicis, aveva ragionato sulla questione della morte e dell'immortalità e sul nodo del tempo come accumulazione e sviluppo storico progressivo, tanto da scrivere già in Nostra Signora dei Turchi (1966) che «chi non ha mai pensato alla morte è forse immortale» proprio come riteneva lo stesso De Dominicis a proposito di Paolo Rosa, e da ribadire un radicale antistoricismo in Sono apparso alla Madonna (1983) con il suo «rifiuto d'esser nella storia». Ma altrettanto importante è ricordare, sempre a proposito del tempo, la posizione magnificamente espressa da Gilles Deleuze in Un manifesto di meno (1978), il saggio dedicato proprio alla poetica di Carmelo Bene, dove sottolinea come normalmente si tenda a pensare «in termini d'avvenire o di passato», mentre «ciò che conta, invece, è il divenire».
Ecco, dopo la crisi del futuro, oltre il tempo storico-progressivo, è possibile scommettere su una liberazione che ruoti attorno al tempo come «divenire», senza alcuna concessione a derive mistico-metafisiche che rimangono comunque intrappolate all'interno della freccia del tempo progressivo, anche e proprio quando tendono a piegare all'indietro quella freccia.
E se è fondamentale sottolineare che cosa buona e giusta è stata da parte di De Dominicis porre la questione della morte fisica e del suo superamento, ci sembra bene correggere la soluzione «misterica» con quella «materialista» che alla stessa questione attribuisce Toni Negri quando dice in The Cell (1997), il film-intervista di Angela Melitopoulos, che il superamento della morte è un obiettivo fondamentale dell'umanità e che per raggiungerlo occorre soprattutto organizzarsi. E poi ancora, a proposito di soluzioni mistiche, è sempre Negri ne La costituzione del tempo. Prolegomeni (1981) a ricordare come nella storia del misticismo «la sacrosanta critica dell'idea di storia e di progresso finisce col negare ogni costruttività antagonistica», e sempre sul tempo inteso in chiave antiprogressista occorre ricordare gli scritti di Louis Althusser sul materialismo aleatorio, anch'essi risalenti agli anni Ottanta. Da ultimo è bene ricordare che la questione della mortalità e del suo superamento è costitutiva della cultura occidentale e della tradizione cristiana, almeno per quanto riguarda il cristianesimo delle origini che nasceva con una forte impronta materialista.
Nei libri sapienziali della Bibbia, è cosa nota, è scritto che «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1:13), alludendo evidentemente all'immortalità, anche fisica, inscritta nel progetto originario della creazione, essendo la morte un errore di sistema che la fede cicatrizza. E poi, nel Nuovo Testamento è soprattutto San Paolo nelle sue a insistere sulla sconfitta necessaria e inevitabile della morte, ultima nemica dell'uomo, e sulla resurrezione futura, si badi bene non delle anime, ma dei corpi che tutti risorgeranno come corpi gloriosi, ovvero mondati da ogni imperfezione e destinati a vivere per sempre, così come originariamente previsto. Certo, è vero che la tradizione ebraico-cristiana promette una liberazione posta profeticamente nel futuro, in questo senso la sua dimensione è prettamente temporale a discapito di quella spaziale, e qui sta la radice dello sbaglio indicato da De Dominicis. Ma in mezzo, tra il Vecchio e il nuovo Testamento, c'è anche la storia di quell'uomo che si racconta abbia sconfitto da subito la morte, e qui, come in Carmelo Bene e in Gilles Deleuze, in Toni Negri e Louis Althusser, non c'è spazio per la fantarcheologia, nessuna soluzione mistica, nessuna reazione, c'è solo materialismo, e l'unico segreto ammesso è quello dell'uomo che resiste e lotta per la sua liberazione.