Mondi intermediali / Identità e variazione nell’universo di Lynch

21 Novembre 2019

È in uscita presso l’editore FrancoAngeli il volume David Lynch: mondi intermediali, curato da Nicola Dusi e Cinzia Bianchi. Nel volume,  saggi di vari autori analizzano l’universo intermediale di Lynch, che spazia dai film alle serie televisive come Twin Peaks, dai videoclip agli spot pubblicitari. Pubblichiamo un’anticipazione dall’introduzione dei curatori.

 

1. Identità visiva in progress 

 

Regista visionario, surrealista, onirico; narratore di storie spesso inquietanti e bizzarre, ambientate in luoghi sperduti dell’America o in angoli inusuali delle grandi città; creativo poliedrico, amante di tutto ciò che porta lo sguardo e la mente in un’altra dimensione cognitiva e percettiva; sperimentatore di nuove tecniche artistiche, molto personali e singolari. Queste sono alcune delle definizioni più comuni per descrivere il talento originale di David Keith Lynch (Montana, 1946). Tutti conoscono almeno uno dei suoi film a partire da Eraserhead (1977), The Elephant Men (1980) e Dune (1984), passando per Velluto blu (1986), Cuore selvaggio (1990), e Strade perdute (1997), per arrivare a Una storia vera (1999), Mullholland Drive (2001), Inland Empire (2006). Per non parlare della serie televisiva Twin Peaks (1990/91 e 2017), fenomeno di culto planetario, che Lynch ha scritto con Mark Frost e che viene considerata da critici e studiosi dei media un vero e proprio apripista della serialità contemporanea.

In un libro dedicato a Lynch è d’obbligo soffermarsi sulla sua produzione filmica e televisiva, e in questo volume lo faremo evidenziando aspetti specifici, come il tema dell’identità, il ruolo del sonoro o la relazione con la pittura. Abbiamo però voluto evidenziare anche altri ambiti della sua produzione artistica. Si tratta di cortometraggi, documentari, spot televisivi e promozioni pubblicitarie, videoclip, oltre a mostre di quadri, foto e sculture, musica e così via: una produzione che permea tutta la vita artistica di Lynch, ma su cui il regista si è concentrato maggiormente negli ultimi anni, almeno a partire dal 2006, da quando cioè ha comunicato al mondo che non girerà nessun altro film. In realtà, le sperimentazioni visive di Lynch hanno sempre trasceso il suo cinema, anche se i film sono stati i luoghi di sintesi delle sue ossessioni e dei suoi percorsi creativi.

Il cinema di Lynch ha alla base un immaginario pittorico e decostruisce il reale attraverso un’immagine frammentata, stratificata e scomposta, tipica della pittura cosiddetta astratta. Un cinema che fa affidamento sulla capacità della mente di dare un senso a tessere di puzzle apparentemente sconnesse e di costruire un tutto leggibile a partire da elementi frammentati e incompleti. Lynch sfrutta le potenzialità del mezzo cinematografico, anche se spesso i suoi film confondono e disorientano lo spettatore, sottoponendolo a sensazioni ed emozioni legate ad un mondo onirico idiosincratico. Come ben sintetizza Pierluigi Basso Fossali, il cinema di Lynch rappresenta «il rifiuto di una forma classica del racconto per immagini a favore di un modello musicale [assieme al] recupero della tradizione delle arti visive» (Basso Fossali, 2006, pp. 28-29). Quando Lynch si è avvicinato ad altri mezzi di espressione artistica lo ha fatto non solo per sondarne le peculiarità ma anche per sperimentarne le potenzialità. Ciò è avvenuto, per esempio, con il disegno, la pittura, la video arte, la scrittura di canzoni, ma anche con le tecnologie digitali, vero punto di interesse a partire dal 2000. Altre volte Lynch si è avvicinato ai linguaggi dei media per evidenziarne i limiti: pensiamo alla scarsa qualità dell’immagine televisiva rispetto al cinema, più volte ribadita dal regista che però, nonostante tutto, scrive e gira diverse serie tv perché il mezzo gli permette di raccontare storie lunghe e di ampio respiro. In altro modo, le potenzialità del web sono per lui legate a una frammentarietà narrativa ancora più accentuata: all’inizio del nuovo millennio, il suo sito web (www.davidlynch.com) è stato il luogo di pubblicazione di cortometraggi, brevi frammenti ed esperimenti visivi e narrativi, ossia di idee trasposte in immagini che difficilmente avrebbero potuto trovare collocazione in altri media.

 

Molti dei saggi che qui presentiamo sottolineano il fatto che la produzione di Lynch possa essere letta come la creazione in progress di un’identità visiva e concettuale molto coerente, vicina alla creazione di un discorso di marca (Floch, 1995; Marrone, 2007). Troviamo infatti logiche di autocitazione, trasposizione, auto-remake che si possono identificare sia nel suo cinema, sia nei cortometraggi, nei videoclip e nelle produzioni pubblicitarie, tanto che i diversi prodotti mediali dialogano tra loro in un continuo rimando identitario. Ricordiamo che per Jean-Marie Floch, che riprende Ricoeur, la costruzione dell’identità di una marca è dinamica e processuale, dato che ogni marca deve perseguire una propria riconoscibilità proponendo una serie di invarianti formali e valoriali pur dovendo essere sempre flessibile e aperta ai contesti storico-culturali.

Alla costruzione dell’identità nel cinema di Lynch è dedicato il saggio di Leonardo Gandini. Confrontando la logica identitaria presente in due film di Lynch (The Elephant Man del 1980 e Lost Highway del 1997), Gandini richiama studi sociologici, antropologici e filosofici sul concetto di identità e sottolinea come non sia possibile in Lynch evidenziare una netta opposizione tra una costruzione identitaria nel contesto sociale (che potrebbe riguardare l’alterità della mostruosità di John Merrick) e una costruzione identitaria interna al personaggio stesso (la metamorfosi di Fred in Pete). Lynch ci propone qualcosa di più complesso delle semplici opposizioni; nel suo cinema ogni processo identitario di costruzione dei personaggi è fluido, problematico, contaminato sia da elementi di alterità sociali sia da elementi di differenze individuali. 

 

Oltre alla costruzione identitaria dei personaggi, nel nostro libro ci occupiamo anche del processo di creazione in progress di un’identità visiva, narrativa e stilistica del regista Lynch, particolarmente importante per interpretare altri suoi prodotti mediali come la pubblicità e i video musicali. 

Cinzia Bianchi si concentra sulle produzioni pubblicitarie, procedendo a una disamina sia delle varie campagne che Lynch ha ideato e girato, sia delle molte altre produzioni che con il passare degli anni si distaccano sempre più dalle forme tradizionali di pubblicità per divenire forme promozionali inedite, con una cifra stilistica e autoriale ben identificabile, in cui le situazioni rappresentate dialogano, in un continuo rimando intertestuale, con i suoi film e cortometraggi. Si tratta in questo caso di una progressiva rivisitazione dei generi mediali che può essere identificata anche in altri ambiti della produzione di Lynch, come sottolinea il saggio di Marco Teti riguardo ai video musicali. Alcuni di questi, specialmente i primi, sembrano nascere un po’ per caso e sono poco accurati al livello formale. Progressivamente però le sperimentazioni visive sul linguaggio videomusicale, di per sé propenso a contaminazioni tra elementi formali eterogenei, portano Lynch a mettere a punto uno stile peculiare in cui emerge in modo preponderante una marca autoriale ben identificabile e originale, come accade con il videoclip-documentario Duran Duran: Unstaged (2011).

 

 

I saggi di Bianchi e Teti, così come il saggio di Roy Menarini dedicato a Twin Peaks, sottolineano come il processo identitario e di riconoscibilità stilistica vadano di pari passo con un parallelo processo di brandizzazione dell’autore Lynch. Il quale ha indubbiamente saputo interpretare le trasformazioni mediali in atto: un indebolirsi progressivo dei confini testuali dei singoli media fino a una sorta di «polverizzazione mediale» (Eugeni, 2015) e una tendenza produttiva transmediale vanno assieme a pratiche di consumo sempre più frammentate ed errabonde, tra piattaforme web e tempi di fruizione che i fan possono scegliere con maggior libertà. Nel caso di alcune sue produzioni recenti, come la terza stagione di Twin Peaks - Il ritorno (2017), o alcune promozioni pubblicitarie (ad es. il caso Lady Dior, Dom Pérignon o Louboutin rouge) si potrebbe parlare di un processo di media franchise, così come ci viene spiegato da Derek Johnson (2016): ogni singolo prodotto appare infatti progettato fin dall’origine per entrare in sinergia con produzioni destinate ad altri media, vive di un’intermedialità necessaria per produrre altra testualità e per favorire la partecipazione e la condivisione nei social da parte dei fan. 

 

2. Riconoscibilità stilistica e figuralità

 

Ragionare su Lynch come brand vuole dire confrontarsi con almeno due ordini di problemi. Il primo riguarda, come già anticipato, la disseminazione transmediale del lavoro di Lynch su diversi media e linguaggi: dalla pittura, fotografia e design, ai film e agli altri audiovisivi fino ai corti animati, ai quali Lynch apporta un’attitudine alla ricerca e alla sperimentazione, che trasforma dall’interno i diversi linguaggi espressivi con cui si confronta. Il secondo problema è dato dalla “riconoscibilità” autoriale di Lynch nelle varie piattaforme o nei dispositivi mediali con cui si confronta. Una riconoscibilità permessa da quelle “torsioni” peculiari e quelle rotture dei codici tradizionali che Lynch persegue su più piani espressivi e contenutistici, strutturando sul piano dell’espressione percezioni, affettività, modi della corporeità e sensibilità mediale, e sul piano del contenuto modi discorsivi e narrativi, universi valoriali e tematici. Ma anche insistendo su configurazioni ripetute e quasi ossessive in termini figurativi (a metà strada tra espressione e contenuto). I racconti di Lynch, nei diversi media, usano strategie enunciative e passionali specifiche per costruire un’esperienza mediale, che i saggi raccolti in questo volume esaminano con attenzione: in generale diremo che essa appare più fondativa e cupa nei cortometraggi e nei primi film, mentre diventa tendenzialmente più ludica e autoreferenziale, farcita di citazioni e allusioni meta-discorsive, nei film successivi all’esperimento televisivo di Twin Peaks, per affermarsi come norma nei più recenti videoclip e negli audiovisivi pubblicitari.

L’universo Lynch inteso come “marca autoriale” andrebbe allora pensato come un mondo in cui convivono stilemi ripetuti e (quindi) riconoscibili, modi discorsivi e modi poetici della sperimentazione sui linguaggi: sarebbe cioè, seguendo Jacques Fontanille (2015), una “forma di vita” in cui tutto resta coerentemente legato e riconoscibile, un sistema di senso complesso e in divenire, i cui singoli prodotti e discorsi stanno tra loro in una relazione di traduzione e reinterpretazione costante. 

 

La riconoscibilità del brand Lynch come forma di vita ci porta inevitabilmente a ricercare una continuità formale che vada al di là del semplice riconoscimento di elementi ricorrenti. Non c’è infatti solo una riconoscibilità figurativa e stilistica delle rappresentazioni e delle messe in scena dei prodotti mediali firmati da Lynch: c’è qualcosa di più, a livello espressivo, come dimostra l’attenzione al sonoro, o meglio alla “tavolozza dei suoni” per creare mondi e produrre sensazioni, di cui tratta nel suo saggio in questo volume Lucio Spaziante analizzando l’“espressionismo astratto” del suono in Eraserhead (1977), e il sound design di Una storia vera (1999) e di Mullholland Drive (2001). E c’è una ricerca pittorica che ritorna in Lynch come costante figurale, e come passaggio dall’ottico all’aptico (o tattile), come argomenta nel suo saggio Nicola Dusi soffermandosi su Eraserhead ma anche su alcuni momenti perturbanti di Velluto blu (1986), Strade perdute (1997) e dell’ultimo Twin Peaks e confrontandoli con i dipinti di Francis Bacon. A livello del contenuto, proprio in Twin Peaks, risalta la ricerca dell’ironia surreale e del modo comico, dello spiazzante e del bizzarro, del trasgressivo e dell’horror, come sostiene Roy Menarini nel suo saggio per questo libro. Si tratta in effetti di un’identità visiva costruita su ciò che la semiotica definisce come rete figurale, cioè un insieme di modi espressivi dati da intrecci al contempo ritmici, percettivi e affettivi, e una forma di invarianza negli effetti di senso, o meglio nell’esperienza sensibile prevista per lo spettatore. Un ritorno e un’invarianza che permettono, in maniera più sottile e pervasiva, la riconoscibilità del marchio Lynch. 

 

Per approfondire la pista figurale ci viene in aiuto, ancora una volta, il pensiero di Floch. In un articolo del 1993, Floch riapriva la questione dei rapporti tra “iconico” e “figurativo”, parlando di una messa in presenza dell'iconico e di diverse astrazioni, con diversi scopi ed effetti. Ragionando di figuralità in termini semiotici non bisogna, secondo Floch, pensare a un solo livello astratto nel passaggio graduale della figura dall’astrazione all’iconizzazione. Per intenderci, un passaggio da un figurativo “astratto” a una rappresentazione riconoscibile si produce nella trasformazione graduale che aggiunge dettagli e addensa pixel a una figura dapprima solo sbozzata, per farla diventare silhouette e poi, nella modellazione di un disegno in 3D, raffinarla nella rappresentazione (texture della pelle, capelli, abbigliamento e accessori), fino ad arrivare alla costruzione digitale di un personaggio fantastico credibile. 

 

Floch intende superare queste categorie descrittive, che lui stesso aveva contribuito a lanciare come metodologia delle analisi semiotiche del visivo, per svilupparle in una «sociosemiotica delle attitudini che adottano le culture di fronte ai loro segni» (1993, p. 9). Secondo Floch, bisogna allora differenziare almeno tre modi dell'astrazione, a seconda del tipo di lettura che si decide di rendere pertinente e a partire dall’oggetto testuale che si ha di fronte: vi sarebbero così una «astrazione del figurativo», una «astrazione dell'iconico» e una «astrazione del plastico». Sono altrettanti modi semiotici i cui metodi ed effetti, secondo Floch, risultano molto diversi: nell’astrazione figurativa avremo un «découpage culturale o una griglia di lettura»; nell’astrazione iconica, invece, troviamo «un essere-nel-mondo o una messa in presenza»; infine nell’astrazione plastica si produce «una messa in intensità del mondo e del sé» (1993, p. 9). Anche se discutibile su alcuni aspetti teorici, l'intuizione di Floch è preziosa, perché riapre il problema dell'efficacia del testo visivo – e audiovisivo – e si avvicina secondo noi all’attuale problematica della figuralità nei testi. Floch problematizza infatti un effetto di presenza, e riesce a porre in relazione, nell’astrazione del livello plastico, il ritmo visivo con un livello profondo della valorizzazione sensibile e percettiva, in cui si produce una tensione tra piacere e disgusto. La sua proposta può a nostro avviso contribuire a creare un ponte tra due accezioni di figuralità che si tratteggiano in questo volume quando si analizzano i mondi e i prodotti mediali targati Lynch. Una figuralità come supporto alla rappresentazione figurativa, di taglio più fenomenologico, e una figuralità più energetica nella prospettiva psicoanalitica. In fondo, ha ragione Chion quando scrive: 

 

Lynch insiste spesso sull’aspetto astratto del proprio lavoro; e di rado se ne tiene conto, forse perché si pensa all’accezione abituale del termine ‘astratto’ in pittura (come opposto a figurativo), mentre si tratta qui di un livello astratto di apprendimento della realtà, come per esempio la questione del ribaltamento completo che si produce quando si altera la scala di riferimento nella visione (Chion, 2000, p. 243).

 

Nell’universo Lynch troviamo come costanti degli effetti di presenza creati dall’astrazione iconica, ma soprattutto un’attenzione alla forza delle immagini (che Floch chiamerebbe una “messa in intensità”), che affiora non appena ci allontaniamo dalla lettura tradizionale della narrazione e della rappresentazione – cioè dagli schemi cognitivi e percettivi depositati dalla nostra interpretazione figurativa della realtà –, e accettiamo invece di socchiudere gli occhi, entrare nei contrasti plastici e prestare attenzione con l’udito e gli altri sensi. Un “livello astratto di percezione della realtà”, che diventa un modo di percepire gli effetti della costruzione espressiva e stilistica del film, dell’episodio televisivo, dello spot o del videoclip, che Lynch ha sognato e costruito per noi.

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